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“Suore che confessano” e Sinodo: come evitare fraintendimenti

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/10/19

L'assise sinodale sta concludendo la sua prima settimana. Alcuni media stanno cercando di montare qualche “caso” (un po' perché non colgono i termini della questione e un po' per incassare facili clic). Ha fatto molto discutere, a tal proposito, la relazione di Suor Alba Teresa. Proviamo a ragionarne insieme.

Proprio non riesco a ricordarmi dove l’ho letto, ma venendo a conoscenza (grazie all’ottimo collega Guido Mocellin) del putiferio accesosi nella blogosfera nostrana per via delle “suore che ascoltano la confessione” ho ripensato intensamente a quella pagina che ora mi sfugge: c’era un pastore di confessione riformata che scriveva a un confratello di star scoprendo il ministero della confessione, di per sé assente dal bagaglio dottrinale, liturgico e pastorale di quella comunità (ciò per cui, fra l’altro, si era preparato).

“Confessioni false” che funzionano

La cosa toccante era che la “scoperta” non veniva da un’illuminazione esegetica, dallo studio dei Padri o dei concilii o da altre “carte”, bensì dalla vita della sua piccola comunità. Un giorno un uomo (o una donna? non ricordo) andò da lui col cuore spezzato per via di grossi pesi sulla coscienza: il pastore lo fece entrare in casa e accomodare, e l’infelice prese a parlare vuotando il sacco di una coscienza gravata assai da rimpianti, rimorsi, sensi di colpa. Dopo un iniziale crescendo del pathos, la tensione del racconto si sgonfiò, il pianto dell’uomo si affievolì fino a ristare sul suo silenzio. Il pastore cercò qualche parola di consolazione e di conforto acconcia alla bisogna e l’uomo lo ascoltò. Poi però arrivò la domanda: «Padre, padre mi assolva!». Seguì un silenzio carico di una certa tensione, perché entrambi sapevano che nell’aria della stanza era volata una richiesta “non-ortodossa”, dunque impossibile da esaudire. Dopo una pausa interminabile il pastore alzò il braccio e, avvicinando la mano al capo dell’uomo, gli disse: «Ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Il penitente saltò dalla sedia come un camoscio e se ne andò che era un uomo nuovo.


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La ragione per cui il pastore scriveva al confratello, però, non era esclusivamente che questi temeva di essersi lasciato prendere la mano in quella circostanza, ma che (malgrado un impeccabile silenzio da parte sua) la notizia si era diffusa rapidamente nella comunità, e che di fatto si era formata di fronte a casa sua una fila di parrocchiani desiderosi di essere rinnovati come l’uomo che per primo aveva ricevuto l’assoluzione.




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Il racconto mi commosse, quando lo lessi, questo lo ricordo bene. Poi mi chiesi che cosa fosse accaduto in quella stanza, sul piano sacramentario e mistico: quel pastore non era insignito del grado dell’Ordine sacro secondo una valida genealogia episcopale, dunque era giocoforza concludere che non potesse esserci stata una vera e propria “assoluzione sacramentale”; ma quell’uomo, d’altro canto, era balzato dalla sua prostrazione come il paralitico dei Vangeli si rialzò dal suo lettuccio (e anche lì si parlava di una impossibile assoluzione di peccati…). Pura autosuggestione? Sarebbe curioso, se si pensa che uno degli errori principali di Lutero in merito alla Riconciliazione era proprio questo, cioè che egli si riteneva assolto sesi sentiva assolto, e viceversa non assolto qualora non si sentisse assolto: questo è il segno di una coscienza inquieta anche oltre la soglia dello scrupolo spirituale, ma nulla di tutto questo traspare dal racconto del pastore al confratello.


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Poi ripensai a due sublimi “storie di preti”, due grandi romanzi novecenteschi: il primo è Il potere e la gloria di Graham Greene, il secondo Vino e pane di Ignazio Silone. Il protagonista del primo è un prete alcoolizzato e padre di una figlia naturale, ultimo superstite alle crude persecuzioni del regime comunista e nominato solo come “prete spugna” o “prete dell’acquavite” (gli epiteti dispregiativi che gli aveva affibbiato il popolo). Quello del secondo è un comunista fuggiasco che alla vigilia della Guerra di Etiopia torna in Italia dall’estero e guadagna le abruzzesi terre natie: lì si traveste da prete e cerca di starsene tranquillo nel paesello marsicano, ma la storia è tutta un intreccio di peripezie che ogni volta portano don Paolo Spada (tale lo pseudonimo clericale di Pietro Spina) a schivare per un passo l’attentato ai sacramenti. La confessione è uno snodo centrale di entrambi, perché il protagonista del primo – uomo indegno e vile, ma non cattivo – viene catturato e condotto ad ascoltare la confessione di un uomo morente, che peraltro è il famigerato “gringo”, e pochi giorni dopo viene fucilato per ordine del tenente che dal “gringo” morente l’aveva portato; il protagonista del secondo – uomo amabile e dotato, ma non un prete – viene un giorno costretto ad ascoltare la confessione di una ragazza, morente dopo un aborto procurato in casa, e non osa pronunciare la formula di assoluzione ma promette alla ragazza che sarà perdonata (e quella gli crede per l’intensità del di lui sguardo).


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Quanta fragilità e quanto mistero sono racchiusi nell’inestimabile scrigno del “sigillo sacramentale”, uno dei tesori più cari custoditi dalla Chiesa e mai ceduto ad alcuno nonostante qualunque pressione: che accadde a quella ragazza immaginaria? A quel prete immaginario fucilato senza che potesse confessarsi con alcun altro prete? Ai parrocchiani di quel pastore non validamente ordinato in una successione episcopale di origine apostolica? Penso che questa sia una delle domande la cui risposta non è demandata alla teologia, la quale anzi deve ben valutare come la stessa Chiesa che serba meticolosamente il sigillo sacramentale è quella che tramanda i vangeli in cui leggiamo, del pubblicano penitente, che «tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,14).

La frontiera amazzonica, una sfida ecclesiologica

Ora però nessuno salti su ad accusarmi di essere favorevole ai sacramenti fai-da-te o a trovate facilone: i termini teologici della questione sacramentaria sono noti, ma osservo che proprio la teologia deve porsi in atteggiamento di umile osservazione (e direi anche di contemplazione) di fronte a comunità che vivono in modo atipico. Quando le prime comunità coreane – auto-fondatesi! – riuscirono a mettersi in contatto con Roma chiedendone la comunione, dalla Prima Sede dovettero riscontrare che i coreani avevano istituito una vera gerarchia locale, come avevano studiato nei libri trovati in Cina (dove i missionari erano arrivati e stavano lavorando), e chiaramente mandarono subito preti e vescovi per consolidare l’abbozzo di clero locale e convalidarne le ordinazioni… ma nessuno pose la questione in termini di validità sacramentale degli atti liturgici posti in essere fino a quel giorno.


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Piaccia o no, questo è un addentellato della missionarietà della Chiesa: come Paolo trovò ad Efeso dei giudei che credevano in Gesù e/ma che avevano ricevuto “solo” il battesimo di Giovanni (At 19), così spesso negli avamposti della missione ecclesiale si trovano opere pastorali “abbozzate”, nelle quali al di là della forma (anche gravemente) imperfetta risplende già tutta intera la carità pastorale di «Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tim 2,4).

In questi giorni di sinodo i media stanno in parte rendendo un disservizio all’atmosfera che invece sarebbe auspicabile: non lo fanno (quasi mai) per esplicita malizia, ma soprattutto perché

  1. spesso non capiscono la materia e allora si aggrappano alle parole più facili che afferrano nei comunicati;
  2. sempre più vivono di clic digitali, invece che di copie cartacee, e quindi l’opzione polemico/scandalistica si rivela più redditizia (nel brevissimo termine).

Quel che il Sinodo sta cercando di sondare è lo stato di avanzamento di una frontiera inusitata nella storia del cristianesimo: dagli Atti degli Apostoli in qua, difatti, il cristianesimo si è irraggiato anzitutto mediante i centri urbani, mentre la distribuzione antropica nelle vastissime regioni amazzoniche sembra constare di unità abitative modestissime (fino a poche capanne) perlopiù collocate vicino i corsi fluviali. Va da sé come uomini tanto slegati tra loro siano facilissime prede di entità ormai perfino sovranazionali e intercontinentali votate alla speculazione ambientale e mineraria, ma tutto ciò – diciamo il “capitolo ambientalista” – è ancora solo una parte del tema, per la Chiesa, che per la prima volta in modo così esplicito si pone a considerare un così largo e disomogeneo fronte missionario quale mai prima d’ora ha veduto (quando si evangelizzavano gli altri continenti lo schema era sempre replicabile, con qualche aggiustamento: città e villaggi, vescovi e preti, e così mano a mano).




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Le ragioni di questo sinodo, poi, sono anzitutto di natura sacramentaria, e provo a farlo presente con due passi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI:

Se, come ho ricordato sopra, l’Eucaristia edifica la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia, ne consegue che la connessione tra l’una e l’altra è strettissima. Ciò è così vero da consentirci di applicare al Mistero eucaristico quanto diciamo della Chiesa quando, nel Simbolo niceno-costantinopolitano, la confessiamo « una, santa, cattolica e apostolica ». Una e cattolica è anche l’Eucaristia. Essa è pure santa, anzi è il Santissimo Sacramento. Ma è soprattutto alla sua apostolicità che vogliamo ora rivolgere la nostra attenzione. 

[…]

Infatti, come insegna il Concilio Vaticano II, « i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia »,55 ma è il sacerdote ministeriale che « compie il Sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo ».56 Per questo nel Messale Romano è prescritto che sia unicamente il sacerdote a recitare la preghiera eucaristica, mentre il popolo vi si associa con fede e in silenzio.57

[…]

L’assemblea che si riunisce per la celebrazione dell’Eucaristia necessita assolutamente di un sacerdote ordinato che la presieda per poter essere veramente assemblea eucaristica. D’altra parte, la comunità non è in grado di darsi da sola il ministro ordinato. Questi è un dono che essa riceve attraverso la successione episcopale risalente agli Apostoli. È il Vescovo che, mediante il sacramento dell’Ordine, costituisce un nuovo presbitero conferendogli il potere di consacrare l’Eucaristia. Pertanto « il Mistero eucaristico non può essere celebrato in nessuna comunità se non da un sacerdote ordinato come ha espressamente insegnato il Concilio Lateranense IV ».

Ecclesia de Eucharistia 26.28.

E poiché il mondo è « il campo » (Mt 13,38) in cui Dio pone i suoi figli come buon seme, i cristiani laici, in forza del Battesimo e della Cresima, e corroborati dall’Eucaristia, sono chiamati a vivere la novità radicale portata da Cristo proprio all’interno delle comuni condizioni della vita.(219) Essi devono coltivare il desiderio che l’Eucaristia incida sempre più profondamente nella loro esistenza quotidiana, portandoli ad essere testimoni riconoscibili nel proprio ambiente di lavoro e nella società tutta.(220) Un particolare incoraggiamento rivolgo alle famiglie, perché traggano ispirazione e forza da questo Sacramento. L’amore tra l’uomo e la donna, l’accoglienza della vita, il compito educativo si rivelano quali ambiti privilegiati in cui l’Eucaristia può mostrare la sua capacità di trasformare e portare a pienezza di significato l’esistenza.(221) I Pastori non manchino mai di sostenere, educare ed incoraggiare i fedeli laici a vivere pienamente la propria vocazione alla santità dentro quel mondo che Dio ha tanto amato da dare il suo Figlio perché ne diventasse la salvezza (cfr Gv 3,16).

Sacramentum caritatis 79

Come si vede, il punto non è che “a causa della scarsità di preti…” eccetera eccetera: il punto è che la conformazione territoriale di quella vastissima porzione di terre abitate sembra particolarmente inadatta alla modalità attraverso cui – più o meno senza eccezioni – si è data l’implantatio Ecclesiæ nella storia. Chiaramente ci sono delle spinte eversive, in seno ad alcuni episcopati nazionali, le quali vorrebbero “massimalizzare le innovazioni” che il Sinodo dovesse proporre (ma poi bisognerebbe comunque attendere il documento pontificio) per poi ricavarne scorciatoie da applicare ai propri problemi particolari (metodologie spesso difettose proprio sul piano ecclesiologico). Ecco perché Papa Francesco ripeteva al cardinale Hummes: «Non perdete di vista il tema: si parli di Amazzonia».




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La questione del sacerdozio è centrale e non la si può negoziare, ma è davvero un controsenso confessare che la Chiesa sia generata dall’Eucaristia (da Agostino a Benedetto XVI la Tradizione c’insegna che la Chiesa è Eucaristia) e poi accettare senza colpo ferire che innumerevoli piccolissime comunità debbano essere senza Eucaristia ciò che noi stessi senza Eucaristia riteniamo di non poter essere.

Frugando tra vecchie opere di Ratzinger

I problemi, come si vede, sono molti e importanti: fino ad oggi se ne sono occupati i vescovi della regione, i quali negli ultimi decenni hanno sempre più chiesto un aiuto autorevole alla Chiesa tutta, perché l’abbondanza di alcuni supplisca all’indigenza di altri (cf. 2Cor 8,14), così come è sempre stato.

A tale proposito, in uno scritto composto diversi decenni or sono, Joseph Ratzinger ricordò:

I due ministeri fondamentali della Chiesa, il presbiterato e l’episcopato, sono strutturati collegialmente ed esprimono così sul piano istituzionale il peculiare rapporto esistente tra la singola comunità e la Chiesa universale. […] Il parroco è più di un amministratore della comunità, il vescovo è più di un presidente che ha il compito di gestire i suoi parroci, e il Papa è più di un segretario generale con il compito di coordinare le conferenze episcopali nazionali riuniti. Ognuno ha al suo livello una irreversibile, propria | specifica responsabilità per il vangelo, in cui si esprime la non deducibilità parlamentare della fede.

Joseph Ratzinger, Democratizzazione della Chiesa?, in Opera Omnia 12, 193-194

Dovendo poi chiudere lo scritto (che nasceva per una conferenza), Ratzinger rinunciò ad approfondire il punto e cercò solo di rispondere – in modo conciso e autorevole – a quali fossero allora i principî di questa collegialità non parlamentare di cui parlava (quella del Sinodo e, in altro modo, del Concilio):

Rimando solo alla classica formulazione del duplice aspetto del rapporto fatta da Cipriano. Egli afferma, da un lato, con una forza che continua a farsi sentire nel corso della storia: nihil sine episcopo (niente senza il vescovo; l’esigenza della pubblicità e dell’unità della chiesa locale sotto il vescovo raggiunge in lui, nella lotta contro comunità di elettori e contro la formazione di gruppi, la sua forma più netta e chiara. Ma lo stesso Cipriano dichiara in modo non meno chiaro davanti al suo presbiterio: nihil sine consilio vestro (niente senza il vostro consiglio); e dice in maniera altrettanto chiara alla sua comunità: nihil sine consensu plebis (niente senza il consenso del popolo). In questa triplice forma di cooperazione alla costruzione della comunità sta il modello classico della “democrazia” ecclesiale, che non nasce da una trasposizione insensata di modelli estranei alla Chiesa, bensì dall’intima struttura dello stesso ordinamento ecclesiale, e perciò è conforme all’esigenza specifica della sua natura.

Joseph Ratzinger, Democratizzazione della Chiesa?, in Opera Omnia 12, 194

Ecco perché quanti hanno insultato o irriso Suor Alba Teresa mentre il Sinodo dei Vescovi la ascoltava attentamente ignorano molte cose. Tra di esse, soprattutto, ignorano cosa sia la Chiesa.

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