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Marcella: ho incontrato i miei figli adottivi in Brasile in mezzo alla pandemia

MARCELLA, ADOPRION, BRASIL

Marcella

Annalisa Teggi - pubblicato il 01/06/20

Pubblichiamo quest'intervista ora che questa nuova famiglia è rientrata in Italia. In mezzo a tanti ostacoli, da quello di non poter avere figli a quello di un'adozione internazionale in mezzo alla pandemia, l'ipotesi che tiene è: «Dio ci chiede di affidarci totalmente a lui».

Poco prima di Pasqua una delle mie migliori amiche, Rosalba, mi ha mandato una foto su Whatsapp: c’erano due bimbi sorridenti che abbracciavano le loro uova di cioccolato. I tratti somatici e il colore della pelle mi proiettavano verso il Sudamerica, ma so che lei abita a Trieste – per quanto resti pugliese nell’anima (quanto ci ridiamo su tra noi!). Allora le ho chiesto se mi ero persa qualcosa e lei mi ha aggiornato: sua sorella Marcella era in Brasile col marito per completare il percorso di adozione di quei due bimbi che avevo visto in foto. Non vedo Marcella da troppi anni, sapevo che è medico di pronto soccorso e quindi nella mia testa la immaginavo alle prese con la gestione dell’emergenza Covid-19. Ho capito che era alle prese con una prova ancora più complicata e dolorosa: lei e suo marito Ponziano erano bloccati da febbraio a Natal (capitale dello Stato del Rio Grande del Nord) e le procedure già molto complicate dell’adozione erano state colpite dall’impatto della pandemia, col rischio che tutto saltasse.


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Ho raggiunto Marcella con una videochiamata per farle sentire la mia vicinanza e ascoltare la sua storia: era ancora in un momento cruciale e non risolto, chiusa in quarantena con dei bambini da conoscere e senza la certezza di poter rientrare.

Pubblichiamo ora questa intervista, con il sollievo nel cuore: questa nuova famiglia è riuscita e rientrare in Italia e si avvia a cominciare l’avventura di una vita veramente domestica assieme. Ho chiesto a Marcella la disponibilità a pubblicare il suo racconto con questa ipotesi: quanti «bastoni tra le ruote» può mettere la Provvidenza pur di mostrare che Dio non ci molla mai!

Cara Marcella, sono felicissima di averti ritrovata e vorrei che anche i nostri lettori di Aleteia For Her ti conoscessero di persona. Proviamo a raccontare loro l’ultima tempesta che è capitata a te e a tuo marito Ponziano. Immagino che la scelta di aprirvi all’adozione non sia stata scontata e poi l’avete messa alla prova con questi mesi difficilissimi in Brasile. È dura vero?

Sapevo che era difficile l’esperienza dell’adozione, ma viverla così è stato come essere investiti da un Tir ai 100 all’ora. Sapevo che venire in Brasile non sarebbe stata una vacanza, ero consapevole di tante difficoltà ma non avrei immaginato quello che abbiamo vissuto.

La mancanza dei figli è una ferita dolorosissima, ci speri ma non arrivano. Devo ringraziare tantissimo mio marito Ponziano perché non ha dato per scontato la via dell’adozione; ci ha pensato un paio d’anni prima di dire sì. Questa è stata un’occasione bella e necessaria per noi due: per una donna, se vuoi, è più facile aprirsi all’accoglienza anche di figli non biologicamente suoi, per un uomo è più difficile. All’inizio mi ha destabilizzato molto, poi mi ha rincuorato il fatto che lui non abbia detto subito di sì. Se il sì fosse stato trascinato, e non personalmente vagliato, tanti nodi sarebbero venuti al pettine dopo: l’estrema difficoltà che viviamo ora in Brasile sarebbe stata ben peggiore se all’inizio di questa strada non ci fosse stato un momento personale e anche lungo di discernimento suo, questo poteva essere il momento deflagrante delle recriminazioni («Ha visto? L’hai voluto tu …»).

Poi ho subito anche molte pressioni psicologiche da parte di medici circa la fecondazione con donazione di ovuli da parte di altre donne. Una volta che il percorso dell’adozione si fa reale, ci sono da vincere le tentazioni dettate dalla paura e dalla fatica. Arrivano i dubbi e scattano le domande: «Ma chi me lo ha fatto fare?» o «Ma non stavo più comoda prima?».

Arrivati in Brasile, poi, tutto il carico mentale ed emotivo è esploso. Per farti un esempio: lunedì scorso ci siamo presentati alla polizia federale con la lettera del giudice in cui era scritta la sentenza definitiva sull’adozione e in cui era scritta anche la richiesta di facilitare le procedure, data la situazione complicata dalla pandemia. Alla fine è successo che ci siamo presentati alla polizia federale su appuntamento per fare i passaporti ai bambini e siamo rimasti due ore e mezzo fuori, in mezzo alla strada, coi bambini – che anno 2 e 5 anni – e  poi per un cavillo hanno rifiutato la richiesta. Quindi abbiamo dovuto contattare il console che ha dovuto mandare una ulteriore mail per sollecitare. Oggi, sperando che non inventino ulteriori scuse, dovremmo riuscire a fare i passaporti.




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E questa è solo una piccola finestra sulle difficoltà. L’aspetto psicologico non è da sottovalutare.

Siete in Brasile dal 16 febbraio, anche senza pandemia di mezzo sarebbe stata un’avventura complicata?

Arrivati in Brasile io e Ponziano eravamo sotto esame e posso capirlo: l’orizzonte generale in cui inquadrare un’adozione è rendersi conto che è lo Stato che ti fa un favore nell’affidarti i suoi figli. Posso comprendere che noi come genitori fossimo sottoposti a valutazione, ma è proprio dura rendersi conto che siamo estranei: loro sono estranei a noi, noi siamo estranei a loro. Perciò ho chiesto aiuto un’infinità di volte, avevamo bisogno di una mano da parte degli assistenti sociali e degli psicologi per capire come stare con i bambini e come poterli aiutare.

Proviamo a raccontare dei due bimbi che ora sono con te, uno si chiama Caio, me lo ricordo, l’altro?

L’altro si chiama Gabriel e a Caio abbiamo aggiunto il secondo nome di Karol, in ricordo del nostro Papa. Sono bambini tostissimi, perché pur così piccoli sono autonomi; non sembrano bambini di 2 e 5 anni. È tutto un «faccio io» o «faccio da solo» manifestato in modo forte fisicamente. A fronte di un rifiuto vanno in escandescenza; erano abituati a reagire in maniera violenta. Quello che hanno passato li ha feriti al punto da avere una reazione forte, hanno dovuto di necessità trovare il modo di salvaguardarsi con una corazza.

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Marcella

Tu e Ponziano come fate?

Ponziano è stato bravissimo, perché io, che mi ritengo una persona forte, sono andata in tilt. C’è stato un momento in cui proprio non capivo niente, tutta la situazione mi è precipitata addosso. Forse sono più preparata ad affrontare le reazioni psicologiche, ma stare di fronte a reazioni fisiche violente mi ha destabilizzata. Ponziano ha dimostrato la capacità di saper usare la dolcezza e la fortezza; è stato forte nella relazione con loro perché non capivano altro linguaggio se non quello di chi si impone. Per ascoltarti  devono vedere che sei forte e determinato come loro; allo stesso tempo mio marito si è messo a giocare con loro e ha usato tutta la dolcezza per far passare la certezza che si devono fidare di noi. Il no resta no, ma sono qui per te.

E poi c’è anche l’ostacolo di non parlare la stessa lingua …

Diciamo che la permanenza prolungata e forzata in Brasile ci ha aiutato ad approfondire le compentenze linguistiche. C’è un traduttore che ci aiuta e stiamo imparando, insomma ora riusciamo a capirci abbastanza bene.

A proposito di tempi, non ho ben presente la cronaca della vostra odissea che ha incrociato anche l’emergenza coronavirus. Quando siete arrivati in Brasile?

Il 16 febbraio e ai primi di marzo è arrivato l’allarme pandemia. Dovevamo rientrare il 9 aprile e siamo ancora qui [questa intervista risale alla settimana dopo Pasqua, ora la famiglia è rientrata – NdR]. È stato un incubo anche burocratico, perché tutte le pratiche sono state rallentate e alcune rischiavano di saltare.

Qui la quarantena è cominciata una settimana dopo rispetto all’Italia. È stata dura spiegare la situazione ai bimbi, noi andavamo al mare con loro e questo facilitava tanto le nostre relazioni. Siamo a Natal che è una località turistica; mi sono detta che se ci ritornerò sarà solo per vacanza.

All’improvviso siamo rimasti chiusi in casa. Attraverso la TV siamo riusciti a far capire un po’ la cosa, soprattutto a Gabriel che ha 5 anni. Gli ho fatto vedere tutti i video sul lavarsi le mani e piano piano entrambi hanno accettato la reclusione.  Peraltro io sono medico di pronto soccorso, mi sento in colpa di essere dall’altra parte del mondo mentre i miei colleghi sono presi da questa urgenza.

Tutti questi ostacoli si sono accumulati nel tuo percorso, a partire da quello di non poter avere figli fino a quello di trovarsi dentro un’adozione di per sé difficile che poi si complica ancora di più a causa della pandemia. Dimmi, la tua fede in Dio ha vacillato o è cresciuta?

La parte più difficile è quella di affidarsi. È più difficile a causa del mio carattere, perché faccio peggio dei bimbi con le reazioni toste di cui ti dicevo prima. Anche io sono quella del «ci penso io», «faccio tutto io» e quindi il rapporto con Dio lo vivevo impostato sul «ti chiedo qualcosa, ma giusto come favore». Hai presente? È quell’atteggiamento per cui chiedi qualcosa a Lui, ma è come se lo chiedessi a uno dei tuoi tanti amici.

Però proprio come ho capito di fronte ai nostri bambini che facevano fatica, c’è una sola alternativa valida: affidarsi totalmente all’adulto. Lo stesso vale per me con Dio. Anche se non capisco, anche se faccio fatica. Non c’è alternativa, ma nel senso buono. Un conto è ripeterci a parole che dobbiamo essere come bambini, un conto è viverlo sulla propria pelle. Io devo essere figlia di Dio, nel modo in cui l’ho chiesto a Caio e Gabriel.

E poi c’è anche un altro elemento dirompente. Ora io mi trovo nella capitale dello Stato di Rio Grande, in un posto relativamente occidentale, però devo dire che venire in Brasile e vedere questa realtà mi ha fatto capire quanto stentiamo a comprendere sul serio Papa Francesco, che ha detto fin da subito di venire dall’altra parte del mondo. È proprio vero, viene da un altro mondo; è la prima cosa che ho pensato appena arrivata. Molte cose su cui lui ci educa a noi non entrano bene in testa perché noi non sappiamo cosa c’è qui, dall’altra parte del mondo. Non possiamo neppure immaginarlo. E, ripeto, io vedo solo la punta dell’iceberg. Qui la gente vive alla giornata, c’è chi chiede costantemente da mangiare.

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ANTONIO SCORZA | AFP ImageForum

Siamo alloggiati al piano terra e ogni giorno c’è chi bussa … anzi visto che non c’è cancello o campanello, la gente passa e batte le mani e chiede se hai del cibo avanzato. E questo è già un livello molto decoroso. Per cui ho usato la quarantena per cucinare anche per loro, preparo il riso e i fagioli e lo metto nei contenitori per chi passa.

Questo ha cambiato il mio modo di pensare a come faccio certi gesti quando sono a casa mia. Faccio un esempio: di solito io mi sento brava e buona quando faccio il digiuno il Venerdì Santo. Va benissimo farlo, perché se la Chiesa ce lo chiede vuol dire che ha senso. Però, tra me e me non devo farla più grande di quel che è: ho digiunato per un giorno, ma di cosa stiamo parlando? È un niente. Ecco come è radicalmente cambiata la mia percezione delle cose.

Cosa vi attende ora?

Domani andiamo al Consolato per fare il visto di ingresso ai bambini e poi siamo in attesa del primo volo disponibile per rientrare. Ci sono tantissimi voli cancellati quindi non sarà facile. Speriamo di poter arrivare in Italia presto perché sta diventando molto faticoso.

So che le previsioni lasciano il tempo che trovano, ma cosa ti auguri per la vita nuova che comincerete a casa vostra in Italia, nella meravigliosa Puglia?

Secondo me sarà un’altra botta. Bisognerà ricominciare da capo e sarà un passaggio psicologico forte. Siamo in Brasile da quasi tre mesi e quindi ci siamo adattati a stare insieme qui. Posso però dire che mi ritengo fortunata perché dove abito c’è un asilo, dove manderemo i bimbi, gestito da suore brasiliane. Immagino che sarà bello per Caio e Gabriel, perché anche l’impatto con la lingua italiana non sarà facile e quindi avere vicino chi parla brasiliano non è un dono da poco.

Un’ultima cosa, in tutta questa tempesta umana, il rapporto tra te e tuo marito Ponziano è cresciuto?

Assolutamente sì. Siamo diventati più uniti. Eravamo due adulti che per quanto si volessero bene potevano decidere della propria vita con molta libertà; cose semplici tipo: se devo andare a un incontro, ci vado. Ora siamo più vicini, e non perché ora ci sono i bambini ma per quello che abbiamo vissuto insieme.

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