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Due prof si presentano in classe con la gonna. Ed è subito inclusione?

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Borja Velázquez @borjamusico via twitter

Paola Belletti - pubblicato il 10/06/21

In una scuola elementare di San Esteban a inizio maggio è avvenuto un piccolo episodio, come ne succedono ogni giorno: alcuni compagni hanno preso in giro un bambino per la felpa che indossava. Gli insegnanti ne fanno un caso, eludendo invece il loro compito educativo: si presentano indossando la gonna per mostrare ai bambini cosa significano rispetto e inclusione.

A scuola con la gonna per dire cosa?

Si sono presentati in classe indossando la gonna due giovani insegnanti spagnoli all’indomani di un fatto che davvero non merita la ribalta di tutti questi hashtag, foto, video virali furbissimi, articoli (compreso il nostro, a meno che non possa suggerire un punto di vista diverso).

L’atto dei due prof iberici è scritto con la cancellabile tra le gesta eroiche di questi tempi insulsi; e invece doveva meritarsi poco più che una pernacchia.

Creativi, innovativi, capaci di dialogare davvero coi ragazzi, voi sì che siete veri educatori, coraggiosi, aperti. Commenti di questo tipo – ma anche parecchi di segno opposto e di squisito buon senso – accompagnano gli articoli a corredo di una notizia che non esiste ma fa il solito baccano arcobaleno.

I fatti, poverini, sono solo questi

Siamo in Spagna, dicevamo, in una scuola primaria, significa che abbiamo a che fare con bambini piccoli, dai 6 ai 10 anni circa.

E’ il 1° maggio quando un bambino, maschio (spero ancora ignaro delle venefiche possibilità che questa manica di adulti impazziti vuole sottoporgli come nei menu a tendina, manco la vita fosse un application form) arriva a scuola, la Virgen de Sacedón – almeno la Vergine veglia su di loro – a Pedrajas de San Esteban indossando una felpa con dei disegni manga.

E così si attira le antipatiche, diciamo pure moleste, possiamo anche immaginare mortificanti battute di scherno di alcuni compagni; su El Pais si legge la formula magica: si trattava di un “insulto omofobo”. Non regge all’assalto e decide di sfilarsi la felpa.

La reazione dell’insegnante

E l’insegnante che fa? Vede la sofferenza del piccolo: possiamo pensare che fosse sopportabile, superabile, digeribile, dimenticabile? o addirittura occasione di crescita. Per l’insegnante di sicuro. Poiché i rimproveri fatti a caldo non sortiscono l’effetto di una conversione istantanea – dice che hanno imparato sicuramente a casa, in famiglia ad odiare così e a fare male con le parole – si organizza con il collega, un altro bel marcantonio, per mettere in atto un’azione (ri)educativa di grande impatto.

A scuola con la gonna per insegnare l’inclusione

Ed eccoli, il 2 maggio presentarsi impresentabili davanti a questi bimbi, che sono lì per lì parecchio sorpresi: Manuel Ortega sfoggia una bella salopette blu con minigonna e Borja Velázquez un kilt scozzese con una t-shirt nera.

Il giovane Ortega avrebbe tanto voluto incontrare un insegnante come ora lui può essere per i suoi bambini, perché si sa che prima si comincia ad indottrinare meglio è.

Speriamo in una rapida eterogenesi dei fini

O forse no? Può essere che questo continuo, insistito martellamento a cui sono sottoposti i nostri figli da quando escono dalla sala parto (vedi cuffiette rainbow ai bimbi in neonatologia nella giornata mondiale contro l’omotrasfobia), se non prima attraverso le membrane materno-fetali, ottenga in questa generazione di sopravvissuti all’individualismo, alle nuove povertà, all’ipotesi sempre pasciuta dell’aborto, un rifiuto categorico, energico e definitivo di tutto ciò che è ambiguo, indefinito, fluido, ungendered e soprattutto senza nesso con la verità.

Libertà non è confusione

Presto o tardi si troveranno a cercare l’esatto opposto di questa melassa indistinta di si può fare senza sapere più perché o per chi o anche contro chi fare qualsiasi cosa; vorranno misurarsi prima o poi con volti dai tratti precisi, dall’espressività chiara e non ambigua, virile o muliebre; vorranno trovare il loro vero volto, umano. Forse qualcuno, a forza di Puoi essere tutto ciò che vuoi, riscoprirà il fascino della divisa e il valore di un’appartenenza.

Gli abiti che fanno i monaci che fanno gli abiti

L’abito tornerà presto a dire cose vere? come quando il suo significato è tanto grande da dover affiorare fino in superficie: ci sono cerimonie di ingresso nella vita consacrata che sono uno spettacolo per la mente e gli occhi.

Gli abiti religiosi, con tutte le loro variazioni e simbologie, con gli abbinamenti cromatici suggeriti in sogno a madri di fondatori, sono l’approdo più salutare che mi viene in mente dopo questo naufragio planetario. Un abito che racconta, contiene e comunica un’interiore decisione di servizio a Dio e agli uomini.

Negli abiti religiosi ogni dettaglio ha un significato: tessuto, lunghezza, corde, velo, croce. Ed è di questo che abbiamo estremo bisogno, di significato. E’ in un senso reale della vita che vogliamo sentirci inclusi, non in questo recinto di buoni armati fino ai denti.

Prevedibile viralità

Da quell’episodio piccolo è partito com’era prevedibile un movimento che vanta il suo bravo hashtag: #LaRopaNoTieneGenero, ma quanto durerà? il tempo di passare dai Per Te di TikTok e poco altro, anzi siamo già in coda al fenomeno.

Buone pratiche di pessimo indottrinamento

I due insegnanti raccontano soddisfatti di avere notato subito dopo la loro bella trovata un bel cambiamento nei bambini delle loro classi. Una cosa tipica dell’impegno educativo insomma: faccio A e immediatamente e senza fatica ottengo B.

E io che credevo che la vocazione dell’educatore fosse tutta sacrificio e gettar semi senza vedere spesso altro che timidissimi germogli ma continuando a sperare nella pianta adulta capace di frutto.

Costoro si mettono due sottane e tac i loro bimbi diventano rispettosi, aperti, pronti a scusarsi, capaci di immedesimarsi negli altri.

Dal giorno successivo, i due docenti sono andati a scuola in gonna per aprire un dibattito sulla tolleranza e la diversità e fare capire che «le parole possono fare male». Ortega e Velázquez assicurano di aver notato dei cambiamenti nei loro ragazzi: più rispetto verso chi ha vedute differenti e una maggiore propensione a riconoscere i propri errori e a scusarsene. Dalla scuola un piccolo grande passo verso una maggiore tolleranza.

Vanity Fair

Come ti educo al vittimismo

A me pare che con questo spettacolo da drag queen menu bimbi i due docenti con la gonna abbiano detto una cosa sola al piccolo e a tutta la classe: sei fragile, le offese ti schiacciano, l’incomprensione ti annienta e la colpa non è nemmeno tua ma del mondo che è tanto, tanto cattivo e parecchio ignorante.

Ora ci pensiamo noi adulti, ancora tutti sconvolti dai nostri personali vissuti adolescenziali legati all’orientamento sessuale, a rivendicare il tuo diritto a non essere offeso.

Ma che diritto è mai questo?

Servono comandi, anzi comandamenti. L’altro, che è persona, merita un unico trattamento all’altezza della sua dignità: l’amore. Questo semplice articolo di legge scritta nel cuore di ogni uomo spazzerebbe via in un attimo tutti i piani educativi e i laboratori sperimentali e i progetti pilota su inclusione e simili.

Soffocare in un pozzo di empatia

Da quando profondersi in dimostrazioni di empatia estrema e fare da cassa di risonanza ai dolori dei bimbi che ci sono affidati in quanto educatori significa fare bene il proprio mestiere o meglio rispondere alla propria vocazione? Li soffocheremo dentro a questo pozzo di sentimentali immedesimazioni, di grossolana solidarietà nella tristezza di vivere, nella approssimativa e generalizzata denuncia di un mondo che è tanto stupido da non capirli.

Servono dei sì e dei no chiari

Se non trovano di fronte a loro gente che oppone un muro solido di “si fa così perché è giusto così” – se lo costruiranno da soli. Se non trovano resistenza sul terreno in cui poggiano i piedini, cercheranno forse piazze su cui marciare?

Quale tipo di effetto pensano di avere ottenuto coi loro quadricipiti affioranti dalle gonne se non una maggior confusione e il solito rassicurante desiderio, nei bambini, di compiacere gli adulti?

“Evviva la gonna, mettiamoci la gonna. Se la mettono anche gli scozzesi, o altri popoli”.

Ma certo che lo fanno ed esattamente per il motivo opposto a quello che continuate a rilanciare nei vostri tweet e a raccontare nei vostri progetti per l’inclusione gestiti da consulenti LGBTQI: per il significato preciso che hanno, per lo scopo che quell’abito persegue e comunica.

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