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Nembrini: il talento fiorisce in un’esperienza di perdono (VIDEO)

FRANCO NEMBRINI

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Annalisa Teggi - pubblicato il 09/09/19

Educare è testimoniare ai ragazzi che la bellezza unica della loro persona inizia dalla misericordia, da uno sguardo di amore e premura che libera dalle gabbie dei propri limiti e debolezze.

L’educazione è un atto di perdono. È un’ipotesi che forse, di primo acchito, ci può lasciare perplessi. Siamo abituati ad affascinanti percorsi educativi fondati sull’idea che la conoscenza sia una crescita, un’aggiunta, un approfondimento di competenze; ed è senz’altro vero, ma – diceva Chesterton – l’uomo vede le stelle solo se il cielo è sgombro di nuvole. Il perdono è simile al temporale che pulisce il cielo, cambia il soggetto e lo predispone ad avere gli occhi più limpidi per vedere. Chi si fa portavoce di questa scommessa educativa è Franco Nembrini, insegnante e fondatore della scuola media libera “La Traccia” e poi diventato un amatissimo commentatore della Divina Commedia. In un breve video diffuso in occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico afferma:

Un talento vero, se è vero, non solo riconosce e valorizza i talenti degli altri ma addirittura li sa portare alla luce quando non si vedono ancora. Ci sono classi che a volte gli insegnanti rifiutano a priori; se entra uno che a quei ragazzi vuol bene, pur con fatica e con tutte le debolezze del mondo, ciascuno di loro rivela un proprio talento. Ho sempre detto che l’educazione è un atto di perdono, di misericordia. Tutta la Divina Commedia è costruita su questo: l’altro, quando viene perdonato, tira fuori il meglio di sé, cioé i suoi talenti.

Perdonare è pensare in positivo

Se vogliamo, è una logica opposta a quella dei talent show, il cui fragile credo è glorificare ciò che di un individuo spicca in modo eclatante: si isola un particolare di eccellenza (ritenuta tale rispetto a certi criteri di apparenza, logiche commerciali e tendenze) e ad esso si erige un altare di venerazione.


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Questa dinamica tradisce l’esperienza reale di vita di ciascuno di noi, associando al talento l’idea che sia qualcosa di parziale ed enorme, strabiliante, inarrivabile. Il valore di una persona non può ridursi a una piccola qualità in cui si eccelle, questa è la fragilità di un’idea umana fondata sull’apprezzamento e non sul perdono. Perché resterà a lievitare nell’anima quella domanda scomoda: “Che ne è di quella gran parte di me che è misera, brutta o anche solo normale?”

L’ipotesi alternativa parte dal basso: per fare un salto, occorre tenere i piedi su un pezzo di terra che permetta la spinta (immagine quanto mai semplice per ricordarci il valore positivo dell’umiltà). L’esperienza liberante del perdono è proprio come ricevere la spinta per saltare, uscire fuori dalla propria gabbia stretta e spalancarsi a tutto: non c’è ipotesi più entusiasmante che sentirsi amati da uno sguardo che non si blocca di fronte ai limiti e al male. Secondo Nembrini il punto di partenza del lavoro dell’insegnante è testimoniare questo slancio positivo che parte dalla piccolezza di ciascuno di noi, e dal bisogno che questa fragilità sia amata. Molto spesso siamo incapaci di misericordia con noi stessi, la parola che ci libera dalle catene deve venire da fuori, da un altro. L’ipotesi cristiana, che parte dalla presenza incontestabile del peccato, è portavoce di un cammino di vita molto più felice di tutte quelle teorie che lodano i nostri istinti così come sono (e poi ci abbandonano a rimuginare da soli sul dolore inevitabile che ci procurano le nostre colpe ).


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Portrebbe sorgere un’obiezione: cosa hanno da farsi perdonare i ragazzi? Non è pessimistico e umiliante proporre loro di partire dal ricoscimento di una loro incapacità o colpa? Immaginare l’età giovanile come spensierata ed entusiasta è riduttivo. Le ombre dell’ingiustizia, del male, del dolore, dell’insoddisfazione incombono anche sui ragazzi, in forme più o meno consapevoli. Cominciare un percorso di conoscenza di sé e del mondo dal perdono significa sconfiggere la solitudine; la proposta è quella di affidarsi alla voce di qualcun altro, mettere il piede nel territorio di una relazione lasciandosi alle spalle il deserto di un monologo interiore.

Orfani di relazione

Da circa un mesetto ho sulla scrivania un fascicolo che raccoglie alcuni interventi sul tema dell’educazione, s’intitola Chi sono i giovani che incontriamo oggi nella scuola. Sono pagine che tengo care nell’avvicinarmi ad affrontare da genitore un nuovo anno scolastico accanto ai miei figli.


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Educare non è dare informazioni e competenze a chi non le possiede, ma è innanzitutto proporre un cammino comune in cui il primo passo è avere premura della presenza gli uni degli altri. Nel suddetto libretto Silvio Cattarina, fondatore della comunità terapeutica per tossicodipendenti “L’imprevisto”, lo spiega così:

Quando penso di aver capito di più i ragazzi? Quando sono cambiato io, quando ho cominciato a conoscere il mio cuore, a capire il mio cuore. […] In tal modo ho cominciato a capire di più che i ragazzi sono sempre un grande bisogno, una grande attesa. Sono sempre dei piccoli. Sono sempre un grande bisogno dell’adulto. Sembra che non vogliano, che non stiano a sentire, che siano girati dall’altra parte. No, sono sempre una grande fame e una forte sete dell’adulto. Anche le parole ci aiutano a capire questo: “orfano” ad esempio viene dalla parola “orbo”. Quindi chi è orfano, in un certo senso, vede meno, non vede bene.
TEACHER AND STUDENTS
By sebra | Shutterstock

L’esempio dei ragazzi tossicodipendenti è forse un caso estremo per sottolineare quanto la voce del perdono sia essenziale nel rapporto educativo, sia per partire dall’ipotesi che il male non abbia l’ultima parola sul valore della persona, sia proprio per evitare il pericolo che i nostri figli diventino orfani, in senso lato. L’assenza di un legame vissuto, l’indifferenza verso il valore della loro persona li rende orfani-orbi, cioé incapaci di mettere a fuoco se stessi e tutto ciò che li circonda. A tal proposito Nembrini cita il caso di Dante, il cui viaggio nella Divina Commedia comincia solo dopo l’incontro con Virgilio: da solo nella selva era proprio orfano e cieco, e non è un caso che la prima parola detta a voce alta nel poema sia “Miserere di me“. Dopo aver pronunciato questa dichiarazione di miseria, di piccolezza, Dante si mette liberamente a seguire un maestro che lo porterà fuori dal buio.

Il talento, allora, non è una piccola parte luminosa della persona, ma è l’ipotesi che la presenza della persona dentro la realtà sia necessaria e luminosa nella sua interezza e singolarità. Snebbiata la vista dalle ragnatele dell’egoismo e del male, Dante diventa protagonista di una storia che solo lui può raccontare. Virgilio, che è il suo maestro, non raggiunge il Paradiso, si ferma molti passi prima: l’insegnante è parte di quel terreno solido che permette all’allievo di spiccare un salto altissimo.


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Stare accanto ai ragazzi, stare alle spalle dei nostri figli è introdurli con fiducia a un’avventura di cui possono essere protagonisti con la pienezza unica del loro essere: la voce che ci sostiene come adulti, e che dunque possiamo testimoniare loro con sincerità, è quella di un Padre che ha amato la nostra unicità, ritendendola indispensabile per far germogliare tutte le latenti potenzialità di bene che ci sono nel recinto di vita che ci ha affidato.

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