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Sopravvissuta al crollo della scuola di San Giuliano, oggi Veronica è diventata maestra

VERONICA, D'ASCENZO, SAN GIULIANO

LA7 Attualità | YouTube

Annalisa Teggi - pubblicato il 04/11/19

Aveva 7 anni quando rimase per 8 ore sotto le macerie: oggi è diventata maestra, porta nel cuore le vittime come sue cugino Luigi e si batte per una scuola sicura. Siamo certi che il suo esempio suggerisca quale sia il valore di un educatore.

Erano le 11.32 del 31 ottobre 2002 quando un terremoto di magnitudo 6 fece crollare la scuola elementare Jovine a San Giuliano di Puglia, in Molise. Col tempo ci sarebbero rimaste sulla bocca solo le polemiche per la mancanza di sistemi antisismici e gli slogan per le campagne di sicurezza scolastica; temi senz’altro prioritari, ma non fu quello l’impatto vero della tragedia. Morirono 27 bambini e una maestra: l’intera generazione 1996 cancellata dal paese.

Quello che senz’altro ricordiamo con più accoratezza sono le ore che passammo incollati agli schermi televisivi a sperare che da quelle macerie uscissero corpi feriti ma vivi. L’esultanza commossa di poter dire: ne hanno salvato un altro. Contemporaneamente facevamo i conti con un’ipotesi terribile: mandare i figli a scuola e non rivederli mai più. Davvero siamo incapaci di proteggere fino in fondo i nostri bambini dall’imponderabile. I media ci aiutarono a tamponare questo terrore incanalandolo nel contenitore delle polemiche per il mancato adeguamento antisismico. Doveroso discuterne, senz’altro. Però anche quando l’umanità avrà dato il meglio di sé nei sistemi di sicurezza non illudiamoci di essere al riparo dall’evidenza che vita e morte non sono nelle nostre mani. Dopo di allora Rigopiano e il crollo del ponte Morandi ci hanno ripiombato di fronte al medesimo punto orribilemente dolente: sì, la mano dell’uomo può sbagliare e si possono spezzare vite senza il minimo preavviso.


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Dalle macerie di San Giuliano, a 17 anni di distanza emerge una testimonianza che parla dell’altro paradosso che ci riservano le tragedie più brutte: la possibilità che dalla morte fiorisca un’ipotesi di vita nuova. Per commemorare il triste anniversario del crollo della scuola Jovine è stata ospite di Tiziana Panella a Tagadà su LA7 una sopravvissuta di quel giorno: Veronica D’Ascenzo. Aveva 7 anni e rimase sotto le macerie 8 ore, accanto a lei due amiche: una, Rachele, ne uscì viva; l’altra, Martina, non ce la fece.

Il tavolo e la voce di Rachele

Mancava un’insegnante, quella mattina del 31 ottebre 2002. Il racconto di Veronica comincia da questo dettaglio che fu determinante per ciò che accadde in seguito: i bambini di seconda elementare furono trasferiti in altre classi, lei e la compagna Rachele furono accolte nella classe prima. Fu questa la circostanza per cui, quando il terremoto fece crollare l’edificio scolastico, Veronica si trovò proprio nel luogo che fece più vittime (tutti i bambini di prima elementare). L’osservatore può già decidere che sentiero seguire di fronte alla storia che si spalanca: dietro ogni piccola coincidenza c’è solo un caso che semina con suprema indifferenza morte o salvezza? Altri dettagli nella storia di Veronica ci interrogano.

In quella medesima aula era stato messo, solo per quel giorno, un tavolo per far svolgere un’attività creativa agli alunni.

Un tavolaccio che si trovava lì, quasi per caso: «Ricordo di essermi pure lamentata perché era troppo alto e non riuscivo a poggiarci i gomiti». (da Corriere)

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Al momento del crollo Veronica riuscì a salvarsi proprio grazie alla protezione di quel grosso tavolo. Una coincidenza l’aveva portata nel posto che si sarebbe rivelato il più esposto alla tragedia, un’altra coincidenza la preservò dalla morte istantanea. La comprensione di questi elementi è arrivata a posteriori, lei stessa racconta di come la sua percezione di bambina di 7 anni non potesse essere pienamente consapevole dell’accaduto. Per 8 ore sotto quelle macerie ci fu solo la compagnia della voce di Rachele; pregarono e si rassicurarono a vicenda, certe che i soccorsi sarebbero arrivati; nei loro pensieri non c’era spazio per un’ipotesi diversa anche se l’altra compagna, Martina, si spense a un passo da loro.

Quando ho visto una spiraglio di luce, mi è sembrato di rinascere. Dopo è stato detto che se fossero passati altri 15 minuti non ce l’avrei fatta. Ho chiamato aiuto con tutte le mie forze (da Tagadà).

Fuori è dura

Tutti scavarono per lunghissime ore a San Giuliano, pompieri e gente comune. Pareva impossibile trovare dei bimbi ancora vivi dopo così tanto tempo sotto le macerie, eppure è stato possibile. I giorni successivi, di fronte alle molte bare bianche un’altra domanda ci assillò: perché queste morti innocenti? Quesito inevitabile e dalla risposta aperta, non risolvibile solo nel novero delle colpe. Ai sopravvissuti, cui il dono della vita è stato rinnovato, è spettato anche il carico di molti dubbi e le morse di un senso di colpa nei confronti degli amici che non ce l’hanno fatta.

Tutto può crollare addosso. Come si regge il peso di una memoria così spaventosa? Chi è vivo deve meritarsi questa occasione in più. Come non cadere nella trappola di questo ricatto emotivo?

Veronica D’Ascenzo oggi ha 24 anni e ha trovato una sua strada: segnata dal dramma che ha vissuto, ha scelto di farne una memoria positiva per gli altri. Si è laureata di recente alla LUMSA con una tesi che entra a gamba tesa nella sua ferita più grande: «Didattica e pedagogia al servizio dei bambini con disturbo post-traumatico da stress: l’esperienza di San Giuliano». Ci sono voluti molti anni di aiuto e supporto psicologico per guardare all’accaduto senza rimanerne travolta. Si può essere estratti vivi da una trappola di morte ma non uscirne davvero.




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Veronica racconta di aver fatto i conti col peso della morte del cugino Luigi, di aver fatto sedimentare le paure lasciatele in dote dal trauma del terremoto, di aver pianto gli amici perduti: ricominciare a vivere probabilmente ha significato trasformare la propria identità dal singolare al plurale, in modo virtuoso. Ciascuno di noi non è solo se stesso, ma è anche le molte voci incrociate lungo la strada:

La mia è stata una infanzia difficile – ha concluso Veronica – ho dovuto lavorare sulla perdita di mio cugino e dei miei amici. La fortuna è stata avere vicino persone che ci hanno arricchito, come il personale della Protezione Civile e i vigili del fuoco che mi hanno salvato, se sono viva è anche grazie a loro. Per questo quando mi sono trasferita a Roma per l’università ho voluto fare un lavoro che mi desse modo di ricambiare la solidarietà ricevuta: l’insegnante. (da Tagadà)

«Segnati dunque insegnanti»

Il professor Roberto Filippetti mi scrisse questa frase, per autografarmi un suo libro nel periodo in cui ero supplente di scuola secondaria: «Segnati dunque insegnanti». Non si diventa educatori in virtù di qualità mentali o didattiche eccelse, innanzitutto deve esserci il desiderio di mostrare qualcosa che ci ha “segnati”. Solo lì dove la vita ci ha fatto tremare, piangere e gioire in prima persona c’è il seme giusto da donare agli altri. Veronica D’Ascenzo avrebbe potuto costruire il suo futuro agli antipodi delle aule scolastiche, invece oggi è maestra elementare presso l’Istituto San Giuseppe al Trionfale, Opera don Guanella a Roma. E non credo affatto che questo percorso sia motivato dalla volontà di esorcizzare le paure. Segnata, è diventata insegnante.


FRANCO NEMBRINI

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Sono senz’altro d’accordo con Veronica quando sottolinea il suo impegno instancabile a favore di una scuola che sia attenta alle norme di sicurezza, ma sono certa che la sua presenza come maestra testimoni ai suoi alunni qualcosa in più. A scuola c’è qualcosa che va davvero preservato dal crollo ed è l’anima di chi ci entra entusiasta da bambino e spesso finisce per uscirne sbuffando da ragazzo. Gli angeli di San Giuliano erano tutti in prima elementare, all’inizio di un viaggio che doveva portarli a conoscere se stessi e il mondo, a porsi domande, a farsi compagnia nello studio, a fare ipotesi sul cammino da intraprendere da grandi.

Custodire la loro memoria non è solo preservare da tragedie simili gli studenti di oggi, ma è anche proporre risposte all’altezza del perché ciascuno di loro era felice di andare a scuola.

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