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Le danze irlandesi producono sorprendenti benefici per chi soffre di Parkinson

IRISH, DANCE, GROUP

Paule Sierra | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 23/05/19

Un altro incontro virtuoso tra scienza e tradizione: il ritmo dei balli comunitari irlandesi tramandati dal medioevo aiuta il cervello a superare alcuni impedimenti neurologici nell'andatura.

La tradizione è considerata spesso una fantasma da cui le nostre case dovrebbero essere disinfestate. Roba vecchia e stantia, zavorra ormai desueta di cui liberarsi. Chesterton era di altro parere e disse:

Tradizione non significa che i vivi sono morti, ma che i morti sono vivi (da Ortodossia)

Sì, è un uso sintetico, raffinato, paradossale della lingua. Sciolto in una frase più semplice significa: solitamente i vivi che apprezzano la tradizione sono considerati dei morti (legati al vecchiume), ma in realtà la tradizione è quel serbatoio di provviste che si dimostrano ancora vive e vivaci e che ci hanno lasciato gli uomini del passato, ormai deceduti.


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Solitamente mi trovo a confermare quest’intuizione nell’ambito dell’arte, ma è bello averne conferma dall’ambito medico-scientifico. A quanto pare, i balli irlandesi tradizionali (la giga e il

) hanno un effetto benefico sui pazienti affetti dal Parkinson e dobbiamo essere fieri di dire che questa scoperta è frutto di una mente italiana, il dottor Daniele Volpe.

E’ una storia affascinante, e comincia in un pub.

Dal pub all’università

L’osservatore e il ricercatore non sono solo anime da laboratorio, ma sentinelle all’erta in ogni angolo di realtà. E, d’altra parte, la realtà è una scena molto più ricca di indizi di quel che pensiamo. L’esperienza che ha portato il neurologo Daniele Volpe, Direttore  delDipartimento di Riabilitazione Centro Parkinson di Villa Margherita a Vicenza, lo conferma. Sono già trascorsi diversi anni da quando la camminata di un anziano attrasse la sua attenzione, e quello che ne è derivato è uno studio scientifico approfondito e documentato.


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Appassionato di Irlanda e musica tradizionale, il dottor Volpe si trovò a suonare in un un pub di Feakle (nella contea di Clare) e vide entrare un vecchio dalla camminata incerta; il suo occhio clinico riconobbe i segni del Parkinson. Ma poco dopo:

Dopo 20 minuti furono aperte le danze dalla band e Volpe fu sorpreso di notare l’uomo col Parkinson tra i ballerini. Ciò che seguì fu incredibile: la stessa persona che aveva camminato con passo così malfermo, non aveva bisogno di nessun aiuto nel ballo. Al contrario faceva tutti i movimenti senza sforzo, quasi fosse un altro. (da Irish Central)
IRISH, PUB, BAND
Rambling Fiddler | Youtube

L’orecchio del musicista creò un legame virtuoso e proficuo con l’occhio del medico, ne nacque un’intuizione istantanea e l’inizio di una ricerca:

Per molti con il Parkinson, il movimento da dietro in avanti degli arti inferiori nel momento oscillatorio di ogni passo è compromesso. Il ballo del Reel Step permette al ballerino affetto da Parkinson di superare gli impedimenti neurologici legati all’andatura. Pensando al Reel Step, [il dottor Volpe] che l’aspetto generale della danza irlandese segue uno schema, ma i passi non sono troppo ripetitivi. L’esecuzione dello schema chiede al ballerino di cambiare direzione frequentemente. Il cambio di direzione, a cui si aggiunge la necessità di mantenere una lunghezza abbastanza considerevole dei passi, impone al ballerino di trasferire costantemente il peso da una gamba all’altra.  L’effetto generale è un avanzamento notevole. (Ibid)

Il “segreto” risiederebbe anche nella musica che accompagna la danza, il cui ritmo serrato e allegro manderebbe certi segnali al cervello in grado di aggirare le disfunzioni prodotte dai gangli della base. Sulla soglia di questi affascinanti ma assai specifici input ci fermiamo, lasciando alle competenze mediche l’approfondimento di questo regno terapeutico in cui l’arte incontra la scienza, e non è l’unico caso … a conferma dell’unità profonda che lega ogni sfera del sapere umano.


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Anche l’indagine sulla malattia ci porta a osservare quanto la creatura uomo sia un unicuum in cui spirito e corpo, biologia ed emozioni collaborano; ed è un discorso agli antipodi dalla riduzione pericolosa di dire “non occorre curarsi con le medicine”.

Esperimenti danzanti

Ritornato in Italia, Volpe ha dato forma a un percorso di studio ed esperimenti sugli effetti della terapia della danza sui suoi pazienti. Il riscontro è stato positivo:

“Abbiamo reclutato 24 soggetti con Parkinson e li abbiamo assegnati in modo casuale tra un gruppo di set dance irlandese e un gruppo di fisioterapia convenzionale, con i soggetti valutati tre settimane prima e tre settimane dopo gli interventi.” La ricerca mostra un numero ridotto di cadute da parte dei pazienti che hanno partecipato allo studio. Non ci sono invece miglioramenti significativi nel gruppo fisioterapia convenzionale. (da Parkinson-Italia)

La ricerca ha coinvolto medici e musicisti irlandesi e italiani; è stata pubblicata sulla rivista specializzata Bmc geriatrics.  E non è l’unico caso. Esistono altre realtà che permettono ai malati di Parkinson di trarre beneficio dalla danza, non solo irlandese. Il ballo in generale migliora lo stato dell’umore e la memoria, oltre a favorire la compagnia e le relazioni. Tutto ciò, ovviamente, non esclude i percorsi farmacologici necessari e la fisioterapia. Si tratta di un percorso multidisciplinare che può completare la cura, attraverso un divertimento sano e propositivo.




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Un’altra perla medievale

Scorrendo anche solo per sommi capi il senso di questa ricerca medica, non ho potuto non pensare all’antichità e ai riti di cura: vere e proprie cerimonie che, oltre all’uso di farmaci, prevedevano anche il canto e il ballo. Non sto celebrando un ritorno a una visione mistica della medicina, non sto buttando alle ortiche il progresso scientifico. Ma proprio un avanzamento avveduto delle nostre conoscenze ci suggerisce di guardare al passato con occhio più ammirato di quanto sarebbe spontaneo. Ballare durante un rito di cura non era poi solo una formalità suggestiva, come sarebbe potuto sembrare.

Possiamo, cioè, intuire che ci sia una sapienza davvero profonda in certe tradizioni, anche se si parla di secoli in cui mancavano nozioni scientifiche arrivate più tardi. Che la scienza oggi recuperi certi tasselli artistici, culturali che tempi molto passati ci hanno tramandato è un segnale meraviglioso: perché il vero progresso non è solo approfondimento di cose inesplorate, ma anche accorgersi di tasselli preziosi che provengono dal passato e custodirli con una coscienza accresciuta.

IRISH, DANCE, REEL
shellyallenart | Shutterstock

Le danze irlandesi e celtiche, che hanno affascinato il dottor Volpe, affondano le loro origini nel Medioevo e sono nate come forme di ballo comunitario. E’ qualcosa in più di una nota folkloristica, nell’accezione più negativa di questa parola. Chi ha conservato questo ricordo non stava tramandando un vecchio passatempo. Oggi più che mai ci rendiamo conto che è un antidoto. E’ vera tradizione, cioè una dote tutt’altro che povera: alla nostra sempre più forte spinta all’isolamento, risponde la voce dei nostri avi che ballavano in gruppo. Era divertimento, ma era anche cura dell’anima. La nostra medicina aggiornata oggi conferma che era anche terapia per chi ha un disturbo neurologico.

Noi, che possiamo deridere certe ingenue credenze del passato, ci ritroviamo anche a piangere amaramente pensando che la fotografia umana di oggi è quella di un popolo di solitari depressi con lo sguardo abbassato sullo smartphone. La tradizione ci consegna una verità sempre più evidente: la cura è comunitaria, relazionale.


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Le scoperte scientifiche in merito agli effetti benefici della musica sono proprio una conferma del paradosso di Chesterton: consegnandoci tradizioni tutt’altro che stupide e naive, i nostri antenati si dimostrano tuttora vivi, e capaci di darci una vivace spinta vitale.

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