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È lecito non andare alla messa domenicale per sfuggire il martirio?

christians egypt

Khaled DESOUKI / AFP

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 09/12/22

Se doveste andare qualche settimana in un paese dove i cristiani sono perseguitati, vi esporreste al rischio per il precetto festivo? È la domanda che un lettore coscienzioso si è posto, chiedendoci un nostro parere e proponendoci di condividere a nostra volta il tutto.

Dalla preistoria dell’internet… 

Erano i primi tempi di internet, quello che col senno di poi si sarebbe detto “Web 1.0” (o anche “0.5”, chissà), e in qualche modo mi capitò davanti una storiella che recitava più o meno così: 

Durante una celebrazione irrompe in chiesa un tizio incappucciato che impugna una pistola, si piazza davanti all’altare e mira dritto al prete; questo resta immobile, tra la determinazione al martirio e la paura paralizzante. 

«Resti in chiesa – intima l’uomo alzando il cane dell’arma – solo chi è pronto ad essere spedito seduta stante all’altro mondo». Immediato corri corri dai banchi, dopo una decina di secondi il prete ha davanti a sé appena qualche vecchietto (è lecito chiedersi se fossero lì per effettivo desiderio di passare al “livello successivo”, per dispetto verso la tracotanza dell’oppressore o perché non avevano ben sentito o ben compreso l’intimazione). 

«Bene – prosegue l’uomo con un tono trionfante che però sembra improvvisamente meno minaccioso –: adesso che vi ho liberati degli ipocriti potete proseguire. Scusi l’intromissione, padre». E il giustiziere mascherato si dilegua dalla porta furtivo come vi era entrato. 

Storiella agrodolce, che all’epoca mi suonò fascinosa, ma con un retrogusto che già non mi persuadeva: è davvero lo scopo della Chiesa, “scremare” qui ed ora tra i puri e gli impuri, tra i santi e i peccatori, tra i confessori e gli ipocriti? E chi può negare che qualcuno oggi ascrivibile a queste tre seconde categorie domani o dopodomani, crescendo e maturando nello Spirito, possa entrare nelle prime? «Cosa è l’uomo oggi – osservava acutamente il solito Agostino – a malapena lo sa l’uomo stesso: cosa sarà domani, neanche quell’uomo stesso». 

Non si era ancora aperta la stagione jihadista inaugurata dall’11 settembre: lasciamo stare le stragi di Nizza e del Bataclan, dove non erano stati uccisi degli uomini in quanto cristiani – ma non avevamo idea che di lì a pochi anni avremmo assistito allo sgozzamento del 21 martiri copti in Libia, e appena un anno dopo a quello del padre Hamel a Saint-Étienne-du-Rouvray. Quest’ultimo si preparava a passare del tempo con i suoi famigliari, in quei giorni: aveva la testa sul martirio? Che avrebbe detto, se lo avessero interpellato in merito il giorno prima? 

…al quesito di un nostro lettore 

Riflettiamo su questi casi perché ci è giunta in redazione una domanda di quelle che evocano risposte vaste, complesse e in ultima analisi (spoiler) non-risolutive. Ecco la lettera del nostro lettore, che condividiamo (omessa la firma) per favorire una riflessione comune (nonché per sviluppare un auspicio esplicito dello stesso lettore): 

Buonasera,
mi permetto di farvi una domanda sull’essere cattolico che, se vi sembra interessante, potreste far approfondire […]:
Dovrò recarmi per lavoro un paio di settimane in un Paese dove la professione della religione cattolica non è vista di buon occhio. Pur non essendo esplicitamente vietata, capitano purtroppo episodi di razzismo e peggio, attentati terroristici presso le Chiese cattoliche. Mi sto chiedendo, da cattolico praticante, se è doveroso e saggio partecipare alle funzioni religiose della domenica (la messa). I miei familiari e cari, mi suggeriscono di evitare di andare. Io mi faccio qualche scrupolo invece e sarei propenso ad andare, pur rischiando la vita. È forse un’esagerazione? Ne parlerò certo con un sacerdote, ma vi pongo il quesito, che forse potrebbe essere utile anche a qualche altro lettore di Aleteia.

Grazie e buon lavoro.

Cordiali saluti.
[firma] 

Che ci direbbe il succitato padre Hamel, per esempio, se gli ponessimo non in astratto una generica domanda sulla fuga davanti all’imminente pericolo, come nel caso ipotizzato dall’apologo ricordato in apertura, bensì il quesito del nostro lettore; e non immaginandocelo davanti il giorno prima del suo martirio, con la macchinetta del caffè accesa in sagrestia per il petit-déj dopo la messa. Che ci direbbe, il padre Hamel, se gli ponessimo la domanda del lettore? Ovvero se egli ci comparisse davanti con la gola aperta, ma ritto come l’Agnello dell’Apocalisse, e se ci apparisse dunque come uno di quelli «che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno reso le loro vesti candide lavandole nel sangue dell’Agnello» (Apoc 7,13-14)? Non basta già questa evocazione per alludere all’irriducibile maestà della confessione martiriale – cui sola spetta, per antonomasia, il titolo di “testimonianza”? 

Una “sensibilità africana”?

Ma quale sarebbe la domanda, allora? Perché è chiaro che se chiedessimo a un martire “che senso ha il martirio?” quello potrebbe riversarci addosso in tutta risposta un fiume di luce (come ha recentemente fatto, ad esempio, il giovane confessore nigeriano Manga, sopravvissuto alla decapitazione). La domanda del lettore, però, sembra in realtà ben più circostanziata: per un paio di settimane, non varrà la pena non dare nell’occhio evitando di andare a messa? 

Sembra che, da sempre, l’Africa abbia qualcosa da dirci, sul martirio: africano è il giovane confessore a cui facevamo or ora riferimento; africano era Agostino, che ancora nel V secolo (a un secolo dalla pace con l’impero) doveva gestire i dissidî con i donatisti (originati proprio dalla pretesa di essere gli unici a detenere degnamente il culto degli antichi martiri); africano era stato Cipriano, che aveva coraggiosamente aperto alla riammissione in Chiesa (previa penitenza) di quanti davanti alla persecuzione erano fuggiti; africano era, soprattutto, Tertulliano, che come e più di Cipriano era vissuto sotto le persecuzioni e non nella pace costantiniana. Africani erano, ancora pochi anni fa, quei meravigliosi copti uccisi nella domenica delle Palme del 2017. Indimenticabile la vedova di uno di loro, Nazím Al-Fayim, custode della cattedrale di Alessandria: 

Non sono arrabbiata con chi ha ucciso mio marito, e mi rivolgo proprio a lui: «Possa il Signore concederti il perdono. Figlio mio, credimi: stai sbagliando. Mio marito non c’è più, ma io chiedo a Dio di avere misericordia. Riflettete: quello che state facendo è giusto o sbagliato? Non vi abbiamo fatto nulla di male. Credetemi, vi perdono: avete portato mio marito in un posto che non avrei mai nemmeno potuto sognare. Credetemi: io sono fiera di lui e avrei voluto essere lì al suo fianco. E vi ringrazio».

Il cronista della tv, il musulmano Amo Adib, non riuscì a trattenere un gesticolare commosso, mentre veniva trasmesso nel servizio il video della vedova. Dopo qualche interminabile istante disse, centellinando le parole una ad una: 

I cristiani copti sono d’acciaio. Da centinaia di anni sopportano atrocità e disastri, e amano profondamente questa terra. Sopportano di tutto per la salvezza di questa nazione. Ma soprattutto, quanto è grande la capacità di perdono che avete! Se i vostri nemici sapessero non ci crederebbero! Se fosse stato mio padre, non avrei mai potuto dirlo! Questa è la loro fede! Questa è la loro religione! Questa gente è fatta di una sostanza diversa. Nazím è un eroe, un martire, un grande esempio per tutti noi, per tutti quelli che stanno seduti e criticano senza far nulla per il Paese. L’Egitto va avanti grazie alla pazienza, alla perseveranza e alla resistenza di questa grande donna e dei suoi figli, in cui vive ancora il padre. Cresciuti per essere veri uomini.

Difficile dire altro, difficile dire di più, difficile dire meglio. In definitiva, ad essere onesti, è “difficile dire” che sia obbligatorio esporsi al martirio, che i cristiani siano tenuti a questa misura massima e sublime di testimonianza: «Quando cominceranno a perseguitarvi – è Matteo che ci tramanda questo consiglio/permesso/imperativo di Cristo stesso –, fuggite da una città all’altra». Il versetto non sfuggì mai ai grandi autori che ricordavo sopra – da Tertulliano ad Agostino –, ma neppure quello apre la via a una soluzione univoca sul da farsi. 

Tertulliano aveva assistito alla passione di Perpetua e Felicita, aveva visto la ricca matrona resistere alle lacrime del figlio e agli ordini del padre per non rinnegare Cristo; Felicita si era mostrata degna sorella di quella che nel mondo sembrava la sua padrona – questa vera “trasvalutazione di tutti i valori” fu probabilmente lo shock che convertì lo stesso Tertulliano. Abbastanza normale, in tal senso, che l’iniziale moderazione (nel De corona, ad esempio) andasse mano a mano radicalizzandosi (si pensi al De fuga in persecutione) mano a mano che l’esperienza religiosa virava verso il montanismo. 

Il culto dei martiri e del martirio, però, non è tradito dall’estremità della testimonianza (una “testimonianza moderata” non si avvicina mai al martirio: fu estremo anche Thomas More, che salì al patibolo scherzando col boia), bensì dalla sua finalizzazione contro l’unità della Chiesa. Quando, cioè, si dice che “solo i martiri (o coloro che sono pronti ad essere tali)” sono membri di diritto della Chiesa, lì si pone una grave eresia foriera di immediate ripercussioni scismatiche: si fonda cioè una nuova chiesa (necessariamente con la minuscola), che mentre cerca di raccogliere l’eroismo sublime dei campioni di Cristo ne tradisce lo Spirito (lo Spirito che li fortifica fino all’effusione del sangue!), dal momento che quello stesso Spirito è stato effuso sul Messia per mandarlo «a chiamare i peccatori, e non i giusti». 

Andare o non andare a messa, la domenica? 

Se dunque la domanda è “mi è lecito sfuggire alla persecuzione?”, la risposta è un “sì” aperto a molte declinazioni. Se si suggerisce, però, che una di queste declinazioni possa suonare “mi è lecito sfuggire alla persecuzione non andando a messa la domenica?”, la risposta potrà suonare paradossale ma è un fermo “no”. O piuttosto, è a sua volta una domanda che la Chiesa fa al cristiano: non sappiamo cosa sia per te, nel tuo contesto, la messa domenicale, ma per noi è la pasqua della settimana, è ciò che redime il nostro tempo e in definitiva è una conditio sine qua non dell’essere cristiani. «Sine dominico – dicevano altri padri nella fede (anche quelli martiri, anche quelli africani) – non possumus»: e il “dominicus” in questione è tanto il corpo del Signore quanto il suo giorno. 

Non una risposta, dunque, ma piuttosto una domanda: «Ma tu riesci ad essere cristiano senza questa partecipazione?» Che vuol dire anche: «Sei in una città in cui hai dei fratelli, che rischiano la vita per la tua stessa fede, e non sei desideroso di conoscerli e di spezzare con loro il pane?». 

C’è un’espressione di Tertulliano, caustica come tante delle sue, che sembra precorrere quella del nostro “leoni da tastiera”: 

Certo, come hanno rifiutato le profezie dello Spirito Santo, si propongono anche di ripudiare il martirio. Mormorano infatti perché una pace così buona e così lunga è ora per loro compromessa. E non dubito che certi di loro già voltano le spalle alle Scritture, preparano i bagagli e sono pronti a fuggire da una città all’altra, giacché non si preoccupano di ricordarsi d’altro nelle Scritture. Conosco anche i loro pastori: sono leoni in pace e cervi in combattimento. 

Ringraziamo dunque l’amico lettore, perché condividendo le sue con noi, ci ha obbligato a far nostre delle domande in-quietanti – ma forse ineludibili. 

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