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Quando della confessione avvertiamo un bisogno quasi fisico

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 30/03/20

Venerdì scorso Papa Francesco ha incantato e commosso tutto il mondo, coinvolgendo perfino non cattolici, non cristiani e non credenti. All'indomani di quell'evento, tuttavia, possono sorgere in alcuni delle domande su come perfezionare il dono di grazia ricevuto.

L’altro ieri ho telefonato al mio parroco per sentirlo e per farmi sentire: penso che sia una delle cose più ovvie che possiamo e dobbiamo fare per significare loro che non li consideriamo dei meri erogatori di servizi e che anche in questo periodo di distanza fisica siamo loro grati per il sacrificio della loro presenza, perfino da assenti.




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Dopo qualche minuto di conversazione mi ha detto di dover andare. Normalmente, quando “deve andare” si sta recando al vicino cimitero a dare una rapida benedizione alle bare arrivate di recente (non tutte di vittime del Covid-19, chiaramente); stavolta doveva andare velocemente al cimitero e poi tornare in chiesa ad ascoltare una confessione. Sono rimasto sorpreso e – lì per lì – avrei voluto dire: «Ah, che bello! Vengo pure io!». Ovviamente non l’ho fatto: incontrare a distanza ravvicinata un uomo che non vive in casa con me e che ogni giorno (pur con tutte le precauzioni del caso) incontra altre persone non è cosa sicura, in momento di pandemia, e io devo fare la mia parte per proteggere mia moglie e le mie figlie dal contagio – insomma devo stare a casa. Niente “ma solo due passi”, niente “ma c’è un così bel sole”, niente “il movimento mi tiene sano”: a-ca-sa.


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Io personalmente sono tra i meno colpiti dall’isolamento, anzi potrei anche trarne qualche piccolo vantaggio personale: ogni volta che io me ne andassi a pattinare, però, o a fare una visita al Santissimo, come ogni volta che vado a fare la spesa (cosa però inevitabile) io introdurrei un comportamento irresponsabile destinato (quando non ad incrementare il contagio) ad aumentare i tempi di quarantena. I quali non danneggiano me, principalmente, ma la fiorista sotto casa, il venditore di sanitari, l’erborista e mille altri. I denti dobbiamo stringerli tutti insieme, sennò a breve la fiorista, l’erborista e tante altre persone giustamente costrette a tenere chiuso il negozio cominceranno a dare fisicamente la caccia a chi se ne va a zonzo. E pur non giustificandoli non saprei non comprenderli.


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Eppure una bella lavata all’anima non mi avrebbe fatto male, arrivati a questo punto della Quaresima: la quarantena è cominciata proprio alla vigilia dell’occasione che intendevo sfruttare per confessarmi, peraltro, quindi è anche “relativamente molto” che non mi confesso e mi sento come uno che non si faccia la doccia da parecchio. I “peccati di casa”, come dicevano una volta i confessori con fare colloquiale (l’ho sentito dire anche dal Papa!), sono diventati tutti i peccati, e il silenzio coatto della quarantena ci sta lentamente mostrando che essi non sono affatto più lievi e veniali di quelli che commettiamo fuori: come in ogni ritiro, scopriamo come sia vero che “l’occasione fa l’uomo ladro”, ma soprattutto che «dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive […] e contaminano l’uomo» (Mc 7,21.23).


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Ho ripensato alla persona che ha chiamato il mio parroco ad ascoltare la sua confessione, e anche alla disponibilità del parroco, che giustamente è andato: non posso azzardarmi neanche a sfiorare con la mente il pensiero che il penitente sia stato un irresponsabile – che so io di quel che ha vissuto, del bisogno che aveva? – ma se faccio salva l’eccezione individuale confermo (per via di astrazione pratica kantiana) che la norma generale deve andare in senso contrario. E dunque benedico il penitente e il confessore, perché dove si riversa la grazia su un fratello anche io ne beneficio, ma resto personalmente fermo nel proposito di non mettere a rischio neanche uno sconosciuto passante, e insisto nel dire che se tutti ci attenessimo a questa disposizione col più stretto rigore faremmo veramente quanto è in nostro potere per porre presto fine alla quarantena.




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Che faccio dunque per me? Si può dire a uno che non si fa la doccia da un mese “làvati a secco”? Se in quel posto non ci fosse acqua, o ce ne fosse solo poca e potabile, glie lo si dovrebbe dire, ma non è neppure questo ciò che ci è stato detto: il diluvio che venerdì sera pioveva su Piazza San Pietro mentre Papa Francesco impartiva una storica benedizione Urbi et Orbi parlava potentemente di un invisibile scroscio di grazia, quella che a Pietro è stato permesso di “sciogliere e legare”.


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Certo, l’Indulgenza Plenaria dev’essere perfezionata da una confessione sacramentale: e lo faremo tutti, lo farò io, appena ciò sarà possibile senza mettere a rischio la salute del prossimo. Stamattina parlavo con una collega dell’antica dottrina del votum sacramenti, e mi trovavo a ribadirle che – a scanso di ricezioni cavillose di quella dottrina – si deve sempre ricordare come il votum, cioè il desiderio di salvezza, sia anzitutto di Dio: esso ci viene rivelato da Cristo e mediato dalla Chiesa, la quale è costituita capace di agire perfino al di là dei suoi mezzi visibili.




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Quel che dunque venerdì la Chiesa – per bocca di Pietro – ci ha detto è proprio, restando nella metafora: «Non puoi farti la doccia ma guardati: sei veramente pulito e profumato come se te la fossi fatta, anzi perfino di più». Se dunque ci viene offerta un’erogazione straordinaria del tesoro dei meriti di Cristo e dei santi ci viene richiesto in contropartita (e ancora una volta offerta dall’Alto) un piccolo surplus di fede: era Lutero quello che venne condannato, fra l’altro, anche perché riteneva che la Riconciliazione fosse più o meno effettiva a seconda dell’intensità del sentimento del penitente. La fede invece ci chiede un salto, come quando all’ufficiale del re che Giovanni narra implorare la guarigione del figlio Gesù dice: «Va’, tuo figlio vive» (Gv 4,43-54). Altre volte Gesù va, viene visto e riconosciuto, compie perfino gesti singolari che attirano l’attenzione, dice parole che restano impresse… e accade il miracolo, quello che Giovanni preferisce chiamare “segno”. Stavolta no: a noi come all’ufficiale del re viene solo detto che su di noi è riversata la grazia di Dio, e non importa come ci sentiamo o quel che ci piacerebbe vedere e fare. La fede può esprimersi mediante tutto ciò… ma anche farne a meno, e di questa differenza il fedele deve essere pienamente avvertito. Nel frattempo, naturalmente: fare penitenza e convertirsi.

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