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Quale “Sex Education” vogliamo per i nostri figli

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Netflix

Maeve - Sex education

Mathilde De Robien - pubblicato il 03/02/20

“Sex education”, una serie per adolescenti… decisamente non per adolescenti.

Le locandine pubblicitarie scabrose davano il La, e gli indecenti incipit di ogni episodio mantengono la promessa: la seconda stagione della serie britannica Sex Education, disponibile su Netflix dal 17 gennaio, mette in scena (in primissimo piano) una sessualità completamente sconnessa dal suo fondamento che – osiamo ricordarlo a rischio di passare per incurabili retrogradi – l’amore. Scene di carattere pornografico, visione mozza della sessualità, personaggi intriganti ma caricaturali: il format cerca più di scioccare che di insegnare.


SEX EDUCATION

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Proponendosi di fare educazione sessuale per dei giovani telespettatori (dai 16 anni in su, secondo le raccomandazioni di Netflix), Sex Education si vanta di «parlare di sesso senza tabù e di toccare i fondamentali per una sessualità più realizzata», come annuncia sul suo account Instagram Charlotte Abramow, autrice della campagna pubblicitaria. Se l’obiettivo – parlare di sessualità agli adolescenti – è lodevole, la messa in scena scantona qua e là nel vero e proprio film pornografico. E per quanto riguarda i contenuti, poiché si prescinde da quella fondamentale nozione che sarebbe l’amore, esso è di una tristezza spaventosa. Si tenga a titolo di esempio questa risposta graffiante dell’intrepida Maeve (Emma Mackey):

Noi scopiamo e basta: non ti serve sapere dove dormo.

Eppure la serie non è priva di un certo humour, bisogna dirlo. Si sorride quando il giovane Otis (Asa Butterfield), che si vergogna dell’attività di sua madre (sessuologa senza peli sulla lingua), cerca di nascondere ogni indizio del suo mestiere quando aspetta un compagno di classe per fare i compiti insieme. Si sorride dell’imbarazzo del ragazzino quando durante un corso di educazione sessuale deve infilare un preservativo su un fallo gigante. Si sorride ma è un sorriso amaro dato da questa gioventù che si vuole sessualmente liberata ma che sembra tutt’altro che a proprio agio. E poi si sorride soprattutto perché abbiamo dieci, venti o trent’anni più di lui e abbiamo (noi adulti) la distanza necessaria per operare una lettura su più livelli. Gli adolescenti, però – alcuni dei quali ben informati –, ricevono in faccia e senza protezioni tutte queste immagini, queste strisce d’informazione, queste negazioni dell’amore, senza spiegazioni accessorie e senza necessariamente conoscere il senso che danno alla sessualità un uomo e una donna che si amano.




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È necessario mostrare tutto per educare alla sessualità?

È necessario svelare tutto in maniera tanto cruda, come fa la serie, per toccare i temi della sessualità? Per quanto riguarda le immagini, certamente no. «La pornografia non è qualcosa», scrive il filosofo Martin Steffens in L’amour vrai (Salvator):

Non è un film, dei film, milioni di film sul grande schermo. Sono gli occhi che vi si posano: occhi che mai nessuno potrà ripristinare, che il grande schermo non restituirà mai più. Esso li avrà condotti da qualche parte, in quella regione in cui sarebbe stato meglio essere ciechi, se valesse a non entrare mai.

Catturando, congelando lo sguardo, la pornografia ferisce l’anima. È quindi inutile, anzi pericoloso, inoltrare il giovane telespettatore in scene più che erotiche.


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Quanto al vocabolario impiegato, se talvolta è necessario essere realisti (e in qualche caso perfino crudi), non si vede perché Sex Education senta il bisogno di versare nella più esacerbata volgarità: «Vigiliamo sul restare delicati nelle nostre parole», consiglia Inès de Franclieu, educatrice all’affettività e alla sessualità nel suo Amour et sexualité (Quasar):

E nondimeno, la delicatezza nel linguaggio non deve mascherare la realtà delle cose: con gli adolescenti ci si può qualche volta permettere di usare alcune parole più crude per far comprendere loro che sappiamo bene di cosa parlano.

«Se mi manca l’amore»

Che cosa vogliono i giovani liceali di Moordale? Ragazze e ragazzi, fighi o sfigati, etero- oppure omosessuali, riservati o sfacciati, il loro santo Graal è il godimento. A ogni costo. Da soli (masturbandosi), a due o in più larghe compagnie. L’atto sessuale è presentato come una performance da eseguire, un piacere autocentrante ma anche una fonte di pericoli: malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze indesiderate… Decisamente non rilassante, come approccio. È questa la visione della sessualità che vogliamo trasmettere ai nostri figli? Non è di gran lunga più edificante presentare l’unione carnale come un linguaggio dell’amore, invece che come mera attività ginnica?


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Conoscere e padroneggiare tutte le posizioni del Kamasutra non è sintomo di una sessualità realizzata, non ce ne voglia Charlotte Abramow. La sessualità è realizzante quando è coronamento di un amore profondo, sincero, disinteressato. Precisa Inès de Franclieu:

La riuscita di una relazione sessuale viene dal fatto che essa significa l’unisono dei cuori: non ci sono tecniche da imparare. Il che è molto rassicurante: quando ci si è scelti per quello che si è, si trovano facilmente i gesti per dirsi quanto ci si ama.

Si torna dunque all’ingrediente fondamentale per una sessualità realizzata: l’amore. Cosa che ricorda in qualche modo le prime parole dell’inno paolino alla carità: «Se mi manca l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». Un ingrediente, questo, che Charlotte Abramow sembra aver omesso di scrivere sul triste volto di Emma Mackey:

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[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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