Le pastaie con strani intrallazzi col fisco
Nel senso che, in virtù dello speciale rispetto che si tributava alla Chiesa, la vendita di alimenti prodotti all’interno dei monasteri godeva di una tassazione agevolata rispetto a quella riservata ai ‘comuni mortali’. In quei centri cittadini in cui la produzione di pasta costituiva un gettito importante per l’economia locale (uno tra tutti, la città di Napoli) capitava di frequente che i pastai laici scendessero in piazza per protestare contro questa concorrenza sleale… senza mai ottenere risultati concreti, per la verità.
Anzi: la produzione di pasta e panificati – beni di consumo di largo uso, dunque in grado di garantire guadagni ingenti – era una fonte di reddito importante per i monasteri, dove le suore si dedicavano sì alla produzione di pasta tipo cenci o vermicelli, ma erano particolarmente versate anche e soprattutto nella cosiddetta “pasta modellata” – cioè quelle pagnotte che ancor oggi vediamo in qualche gastronomia, fatte di pasta di pane intrecciata a formare figure varie. Il classico cuoricino di pane per San Valentino o il bagel tirolese, per capirci.
Le libere professioniste dedite al lavoro in proprio
…che per una suora non è tanto tanto bello.
Nonostante il voto di povertà, che in teoria avrebbe costretto le monache – beh – alla povertà, va detto ahimè che alcune suore medievali si infischiavano allegramente di questo precetto (su cui invece calcò moltissimo la Chiesa della Controriforma, usando il pugno duro per cancellare questo tipo d’abuso). E così, capitava spesso che la suora – magari divenuta nota per le sue capacità professionali in virtù dei servigi prestati presso la bottega del convento – accettasse dei piccoli lavoretti “in regime libero professionale”, da svolgere nella sua celletta nelle ore dedicate al riposo. A Firenze, ad esempio, una religiosa delle Convertite, celebre per la perizia con cui ricamava con filo d’oro, guadagnò la somma ragguardevole di 55 fiorini, che trasformò nel 1511 in un vitalizio di 5 fiorini annui, per le sue personali necessità.
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Se questo è un caso estremo, era invece abbastanza frequente per le monache confezionare merletti, piccoli accessori, dolciumi, e oggettini d’uso comune, da rivendere poi a conoscenti, parenti e amici. Scopo: mettere da parte qualche spicciolo, per se stesse o per parenti in difficoltà. Una infrazione al voto di povertà che si tentò spesso di contrastare, sia con provvedimenti interni ad opera della singola badessa, sia con vere e proprie leggi cittadine che vietavano alle consacrate questa singolare forma di… libera professione.
Come già detto: sarà la Chiesa della Controriforma a mettere fine con durezza a questo tipo di abuso. Che abuso era. Epperò la dice lunga, sul grado di libertà con cui le suore medievali potevano muoversi, e guadagnarsi, tra le mura del convento, un (rispettabilissimo) posto nel mondo.
