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Perché il mondo ha bisogno di Humanæ Vitæ (e anche la Chiesa)

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 12/07/18
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Tutti parlano e straparlano di sesso, ma con tanta confusione da evidenziare l’emergenza di un’endemica povertà nella vita sessuale. A 50 anni dal ’68 alcuni celebrano il giubileo del Maggio, altri si vergognano anche solo di rileggere l’enciclica di Paolo VI sulla sessualità umana. Eppure di poche cose sembra esserci altrettanto bisogno…

Abbiamo letto sul Foglio un articolo di Simonetta Sciandivasci che condiva in un’insalata italiana quello che due giorni prima Hannah Jane Parkinson aveva scritto sul Guardian: «Il sesso migliore è quello lesbico» – questo il succo dei due articoli. Ora, verrebbe anzitutto da osservare che – se per “rapporto sessuale” si intende il contatto tra organi sessuali – quello lesbico (al pari di quello gay) non è “rapporto sessuale”. Difatti nei due articoli si parla soprattutto di masturbazione, e se la Sciandivasci ha rispetto alla Parkinson il merito di impreziosire la propria pagina con la nota citazione di Woody Allen in Io ed Annie – «Non criticare la masturbazione: è sesso con qualcuno che amo» – dovremo pure lucidamente ricordare che l’effetto comico della frase viene dal fatto che la masturbazione, propriamente parlando, non è sesso.



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O altrimenti, se non si vuole parlare propriamente, si finisce a sragionare in un circoletto che in uno stesso giorno parla di “sessodipendenza come disordine mentale” e mette in guardia dal “sesso d’estate” (se lo scopo è avere figli magri) [sic!]. «Finitela di parlare di politica senza avere le basi», sentenziava Peppone bacchettando le isterie dei compagni. Allo stesso modo è difficile discettare di sessualità in un contesto che non ha ben chiaro che cosa sia il sesso: inevitabilmente ci si ritrova a parlare come i Puffi, che ogni pufgiorno puffano una puffata diversa. E difatti The Guardian e Il Foglio parlano di masturbazione come se si trattasse di sesso. Uno sragionamento interessante.

La devastazione della sessualità nel “mondo”

Un punto di buongusto che la Parkinson riporta sulla Sciandivasci, perlomeno, è che non immischia “la scienza” nel discorso. Sul Foglio invece per tre volte leggiamo che “dice la scienza”, laddove per “scienza” s’intende “un sondaggio”. E il sondaggio (che non è scienza) è nella fattispecie un rilievo demoscopico del Kinsey Institute risalente all’anno scorso: vi si interpellavano 53mila americani. I nudi numeri riportati sono questi:

  • gli uomini eterosessuali raggiungono l’orgasmo il 95% delle volte che hanno rapporti sessuali;
  • le donne eterosessuali si attestano su un 65%;
  • le donne omosessuali sull’86%.

Senza chiedersi se tali dati siano omogenei (non lo sono, perché le lesbiche non fanno ciò che fanno le altre), sono andati a interpellare “l’esperta”, cioè Matty Silver, la quale ha svelato l’arcano:

È semplice: le donne lesbiche sanno dov’è il proprio clitoride e sanno cosa farci per ottenere un orgasmo. Non hanno bisogno di indicare alla loro partner lesbica cosa fare, e questo significa che la loro soddisfazione sessuale è maggiore.

Ci sono uomini che credono di poter dare alle partner un orgasmo solo avendo con loro un rapporto, ma questo accade solo col 20% delle donne. Spesso invece esse hanno bisogno di stimolazione clitoridea o di sesso orale perché ciò accada.

Peccato che la Sciandivasci non abbia riportato questo commento, che rivela molto del sottotesto dell’articolo: sorvolando sull’improprietà dell’ormai affermata espressione “sesso orale” (che non è sesso, in senso proprio), risulta evidente come non solo il metro di misura della vita sessuale sia il raggiungimento dell’orgasmo, ma come di fatto tale metro di misura e l’oggetto della misurazione siano tout court coincidenti.



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Se dunque l’orgasmo coincide con la vita sessuale è ovvio non solo che le lesbiche “abbiano rapporti sessuali”, ma che pure una persona che si masturba ne abbia (essenzialmente ogni rapporto omoerotico è masturbazione – simultanea o no, ma mutua). Questo basterebbe di per sé a capire perché nei rapporti lesbici le donne raggiungano l’orgasmo più spesso che nei rapporti sessuali (ovvero quelli tra due organi genitali): l’orgasmo è il fine stesso della masturbazione, e in tal senso, anzi, una percentuale dell’86% potrebbe essere valutata anche come drammaticamente bassa.



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La Parkinson si premura allora di renderci edotti sul trend della masturbazione femminile (fatto salvo il sommerso e/o il non dichiarato)

  • 1953: il 62% delle intervistate affermava di masturbarsi;
  • 1993: ad affermarlo era il 74%;
  • 2008: lo affermava il 92% (due terzi delle quali dettagliavano una frequenza masturbatoria di fino a tre volte a settimana).

La lettura degli “esperti” è che, ovviamente, sessant’anni fa c’erano inibizioni e «codici sessuali repressivi», mentre mano a mano l’umanità avanza più spedita sulla via della liberazione. Sembra che a nessuno venga in mente di chiedersi cosa sia la masturbazione e da quali domande inespresse nasca… come se la battuta di Allen dovesse davvero essere recepita per una risposta seria.

Peccato che l’articolista del Foglio non segua fino in fondo la traccia della collega d’Oltremanica: ci avrebbe spiegato altrimenti che «tutti gli uomini guardano pornografia» [?] e che «le donne […] che sono andate a letto sia con donne sia con uomini notano l’influenza negativa della pornografia nella loro esperienza di sesso eterosessuale» [corsivo d.R.], e difatti

queste donne non guardano la pornografia categorizzata come “lesbica” perché, fatta eccezione per un emergente mercato pornografico fatto esclusivamente da donne, la pornografia lesbica è perlopiù sviluppata da uomini.

Il problema, a quanto pare, è l’essere maschi. E nei termini più crudi, a sentire l’articolista del Guardian:

Quando gli uomini eiaculano, di solito hanno bisogno di una pausa perché la loro erezione torni buona (ciò è noto come “periodo refrattario”). Dall’altra parte, le donne possono avere orgasmi a ripetizione. Il clitoride ha 8mila terminazioni nervose – il doppio di quelle del glande – e pare che serva solo a procurare piacere. L’orgasmo delle donne dura 20 secondi in media, mentre quello degli uomini 8. Il record di orgasmi registrato da una donna in un’ora è 134 (16 per un uomo). Questo rende estremamente triste che così tante donne eterosessuali vivano esperienze sessuali ipostimolate.

“Estremamente triste” era in effetti un’espressione calzante, saliva alla bocca leggendo. La soluzione è naturalmente la masturbazione (vuoi ancora stare a domandarti da dove possa venirne l’impulso?), e lo stesso Kingsey Institute – che mal sopporta i panni asettici della mera indagine demoscopica – la raccomanda vivamente (insieme con altri consigli). E naturalmente c’è la femminista Carlin Ross che insiste coi podcast erotici [sic!] e con tanta “clitteratura”; la Parkinson prosegue la fanfara con l’elogio dei sex toys, che dal 2016 registrano un boom economico notevole. L’articolista nota che l’esplosione di mercato può essere connessa al fenomeno letterario di Cinquanta sfumature di Grigio – cioè alle fantasie delle signore che sognano di essere sculacciate da un giovane milionario – ma non sta ad annoiare il lettore chiedendosi se questo sia paradossalmente “poco femminista”. Del resto, se alle femministe non pone problema il fatto che i “sex toys” siano fondamentalmente surrogati dell’odiato feticcio fallico (certo, hanno il vantaggio di non conoscere il periodo refrattario)…


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La confusione dilaga, come si vede, e anche i dati di partenza (di per sé non privi di un qualche interesse) vengono coartati in letture a tesi irte di contraddizioni. E tutto questo diventerebbe ottimo materiale da polemica, buono soprattutto per alimentare flamewar sui social, se dovessimo restare nella cornice di un Kulturkampf in cui i cattolici si leniscono i complessi d’inferiorità e di persecuzione rispetto al mondo additandone le abissali miserie.



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La triste verità è che – come avviene per tutte le correnti radicali – non sono certo le sparute seguaci di Carlin Ross ad aver prodotto il boom delle Cinquanta sfumature, anzi uno degli aspetti della contraddizione è che molte lettrici della femminista siano anche divoratrici della saga: ecco, sono parecchie di più le lettrici di Cinquanta sfumature che vanno a messa tutte le domeniche.

La devastazione della sessualità fra cattolici

E se fosse solo questo… ci sono storie di bravi fidanzati che arrivano vergini al matrimonio e in cui la moglie si fa presto un amante dopo aver scoperto che il marito è pornodipendente (anche Concita De Gregorio pubblicò una volta una storia simile). C’è ormai una discreta letteratura, sui danni inferti dalla nostra società pornografica (perfino al di qua della vera e propria pornografia) all’intimità delle persone, ma di fatto ciò che si propone come cura è parte della malattia stessa: i “sex toys” sono un corollario del teorema pornografico, eppure talvolta li si ritrova nei candidi talami di sposi “credenti e praticanti”.



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Ciclicamente tornano poi alla ribalta i ritornelli di quanti sbandierano ai quattro venti “quanti cattolici fanno uso di contraccettivi” come se Humanæ vitæ non fosse mai stata scritta, e allora parte l’assalto al documento montiniano additandovi la causa della frustrazione delle coppie, e della loro stessa infelicità (con annessi tradimenti e perversioni): proprio mentre “i fricchettoni” della nostra epoca fanno inversione a U rispetto ai loro padri, scoprendo i metodi naturali, ecco che noi cattolici smaniamo per fare inversione a U e abbracciare nella pillola il sacramento della liberazione sessuale. Perlomeno i fricchettoni di cinquant’anni fa non avevano sotto mano le statistiche cliniche sui danni della contraccezione ormonale… a parità di errore, insomma, noi siamo meno ingenui e più stupidi.



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Ancora, i famosi “linguaggi affettivi alternativi” all’amplesso coniugale – quelli cioè che secondo l’insegnamento di Humanæ vitæ e della “Teologia del corpo” di Giovanni Paolo II si possono lodevolmente sviluppare nei periodi in cui di comune accordo ci si astiene dal coito – ricadono sovente nel sottobosco della masturbazione (talvolta con preventiva spesa al sexy shop). Non posso fare a meno di ricordare una pagina del blog di Thérèse Hargot in cui si affermava che talvolta «la teologia del corpo provoca sulla sessualità i medesimi effetti della pornografia». Il passaggio centrale diceva:

Bisogna riconoscerlo, che rivelazione scoprire il senso sacro della sessualità, per una generazione allevata a pornografia! Da sozzo, bestiale, utilitaristico ed eccitante l’atto sessuale diventa bello, umano, disinteressato e affascinante… a tal punto che solo il quadro del matrimonio sembra d’ora in poi convenirgli. La castità non è più vissuta, allora, per disgusto e paura del sesso, ma per rispetto del suo profondo significato: il mutuo dono degli sposi. Si parla perfino di un “atto liturgico” e di un “orgasmo sacro”. Wow, è superbo: l’aspirazione spirituale tocca finalmente l’esperienza più incarnata, la sessualità! Una riconciliazione che solo i cattolici sono capaci di operare… intellettualmente.

Ed è proprio lì il problema, il resto non è conseguito. L’ideale spirituale ha soppiantato l’indispensabile conoscenza del funzionamento delle pulsioni, dei fantasmi, delle emozioni… Insomma, della realtà nuda e cruda, imperfetta e vergognosa con la quale bisogna saper giocare abilmente per ottenere quella famosa sognata unione. Però per un candidato alla santità è molto più difficile fare bene l’amore che per un adolescente immaturo ma spontaneo. È molto più difficile, sì, perché l’intera parte oscura della sua persona gli sembra essere il ricettacolo di tutti i suoi peccati, eppure è passando di là che di fatto troverà la santità. È complicato, lo so. Tenete per certo che non c’è nulla di più noioso su questa terra che fare l’amore con un essere umano angelicato. Niente.

Thérèse la conosco abbastanza bene: sia perché ho tradotto il suo libro in italiano sia perché in questi anni di confronto e di scambio siamo in qualche modo diventati amici. So bene che non è una teologa, del resto non aspira affatto ad esserlo. Eppure in questa osservazione c’è più verità, proprio riguardo alla teologia del corpo, di quanta se ne trovi in certe esposizioni apollinee (guarda caso fatte da uomini che forse sanno di teologia ma non di matrimonio), e da brava consulente Thérèse aveva notato che questo genere di osservazioni veniva in gran parte da membri della comunità cattolica. I quali arrivano per altre vie ai medesimi problemi di chiunque, manifestando così che non basta andare in chiesa per vivere un’esistenza redenta, ovvero che diceva il vero Gesù affermando “non chi dice ‘Signore, Signore!’…” (Mt 7, 21).



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In una delle prime occasioni che ebbi di intervistarla le feci proprio una domanda relativa a quella pagina, chiedendomi di spiegarmi bene cosa intendesse. Riporto di seguito la risposta:

Era una provocazione, naturalmente. In realtà non è certo la Teologia del corpo ad essere problematica: è l’insegnamento della Teologia del corpo, semmai, ed è tale perché per la maggior parte i cattolici ricevono anzitutto una base di morale sessuale; poi si aggiunge una teologia della sessualità; il tutto senza sapere che cosa sia la sessualità. Voglio dire che non c’è una conoscenza adeguata del fenomeno sessuale: come si manifestano le dimensioni emozionale, affettiva e psicologica. Si passa direttamente alla dimensione morale e a quella teologica. Sono cose estremamente interessanti, la morale e la teologia, ma l’insegnamento va in cortocircuito sulla conoscenza fisica ed emozionale. Intendo dire che c’è una generazione di giovani – quella di cui parlo nel mio libro – che coinvolge naturalmente anche numerosi cattolici: venuti su al latte della pornografia come gli altri, crescono e ricevono un insegnamento che è molto molto bello e non hanno modo di viverlo. Entrano rapidamente in un’idea di ciò che la sessualità dovrebbe essere: la comunione degli sposi, la Trinità, la liturgia dei corpi… tutte idee che trovo molto affascinanti e belle… solo che poi ad esse non corrisponde la loro esperienza. E diventano frustrati: «Cavolo, la mia vita sessuale decisamente non è così… il sesso con mio marito non assomiglia proprio a questa roba…». E giù a deprimersi in un circolo vizioso, che si nutre del fatto che si ha scarsa o nulla conoscenza delle dinamiche personali della sessualità: perché abbiamo dei fantasmi, come funzionano le pulsioni sessuali; e quindi la masturbazione, il piacere…

Ecco che cosa accomuna i cattolici che rimbalzano tra i “si-può-non-si-può” e i “tana-libera-tutti-tanto-Dio-è-buono” – e nel frattempo covano vite doppie (e triple) – e i seguaci di Sex and the City che vanno in cerca di esperienze così strambe da essere anche difficilmente raccontabili: gli uni e gli altri mancano fondamentalmente di un’etica della sessualità. I primi camuffano quel vuoto con una morale eteronormativa che resta disincarnata e su quel pagliericcio stendono un velo di spiritualità a mimare solidità; gli altri esibiscono sboccatamente i nonsense in cui precipitano con l’arroganza sottile di chi ha in mano le leve della comunicazione e può dettare il mantra “non perdere tempo a uscire dal tunnel: arredalo”.



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Mentre il tunnel è davvero lo stesso per tutti, e anche ai cattolici non farebbe male un bel bagno di umiltà, in questo cinquantesimo di Humanæ vitæ – che tutto ci chiede (se abbiamo una vita vera) tranne che dividerci nelle solite due squadrette che giocano in periferia e si raccontano di essere alla finale dei mondiali. Le operazioni (anche recenti) di chi ha leve istituzionali dell’informazione cattolica e spinge per un’erosione del magistero di Humanæ vitæ – un po’ perché “i tempi cambiano” e un po’ perché “già ai tempi tanti non la volevano” – non manifestano né intelligenza teologica né acume ecclesiale. Lo stesso si deve dire però dei soliti che si rifiutano di inserire anche quel documento nell’onnicomprensiva dinamica «della riforma nella continuità dell’unica Tradizione» (J. Ratzinger/Benedetto XVI).



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In Francia c’è stata una polemica tra un monaco di un’importante abbazia e la mia amica Thérèse: non entro nel merito, anche perché auspicavo che il dibattito si risolvesse in modo proficuo per tutti (ciò che poi non è stato, quindi transeamus); dico che però la Chiesa tutta potrebbe davvero imparare qualcosa, da chi si mette ad ascoltare i problemi e le aspirazioni della gente in fatto di sessualità, perché lì si toccano delle corde che facilmente risultano sensibili alla missione fondamentale della stessa Chiesa. Questo è tanto vero che il bellissimo incipit della Gaudium et spes si legge facilmente pensando alla vita sessuale della gente (se è vero ciò che ne dice la Teologia del corpo di Giovanni Paolo II…):

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

Sono molto poveri, in fatto di sessualità umana, gli uomini del nostro tempo, e se pure la Gaudium et spes è forse il documento conciliare che più rapidamente sta invecchiando (non potrebbe essere altrimenti: parla di un mondo contemporaneo di mezzo secolo fa…) la fotografia della sessualità umana che ne affiora è bella, fresca e impegnativa. Non c’era ancora la Teologia del corpo, non c’era neppure la Humanæ vitæ, tutti i padri conciliari erano “uomini preconciliari”… eppure sentite che grande chiarezza risuona in questa manciata di paragrafi:

Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi (116) anzi, diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio. È ben superiore, perciò, alla pura attrattiva erotica che, egoisticamente coltivata, presto e miseramente svanisce.

Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi. Quest’amore, ratificato da un impegno mutuo e soprattutto consacrato da un sacramento di Cristo, resta indissolubilmente fedele nella prospera e cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni divorzio. L’unità del matrimonio, confermata dal Signore, appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale che bisogna riconoscere sia all’uomo che alla donna nel mutuo e pieno amore.

Per tener fede costantemente agli impegni di questa vocazione cristiana si richiede una virtù fuori del comune; è per questo che i coniugi, resi forti dalla grazia per una vita santa, coltiveranno assiduamente la fermezza dell’amore, la grandezza d’animo, lo spirito di sacrificio e li domanderanno nella loro preghiera. Ma l’autentico amore coniugale godrà più alta stima e si formerà al riguardo una sana opinione pubblica, se i coniugi cristiani danno testimonianza di fedeltà e di armonia nell’amore come anche di sollecitudine nell’educazione dei figli, e se assumono la loro responsabilità nel necessario rinnovamento culturale, psicologico e sociale a favore del matrimonio e della famiglia.

I giovani siano adeguatamente istruiti, molto meglio se in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell’amore coniugale, sulla sua funzione e le sue espressioni; così che, formati nella stima della castità, possano ad età conveniente passare da un onesto fidanzamento alle nozze.

Gaudium et spes 49

“Il generoso suo esercizio”: mi sorprende sempre il considerare come quegli uomini anziani e celibi avessero ben chiaro in mente che fare l’amore non è affatto una passeggiata, ma un’ascesi che richiede dedizione generosa. In quella dimensione intima e segreta affiorano i traumi, i complessi, i sensi di colpa, le potenzialità inespresse e negate: basta un errore millimetrico per provocare danni immani, le cui riparazioni (ove possibili) richiedono tempi lunghissimi e faticosissimi sacrifici. In tal senso mi pare che la mia amica Thérèse, che non è affatto una teologa, abbia afferrato il cuore della Teologia del corpo più dei teologi che ne fanno dorati panegirici.



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Ecco perché mi permetto di non condividere l’entusiasmo delle femministe sulla percentuale di orgasmi raggiunta dalle lesbiche che si masturbano rispetto alle donne che hanno rapporti sessuali: l’86% è un dato sensibilmente più alto del 65%, ma la masturbazione è esplicitamente mirata all’orgasmo (cosa non automatica nel rapporto sessuale), dunque un 14% di fallimenti è un margine impressionante. La prova del nove si ha con l’omoerotismo maschile, che più di quello femminile mima il vero e proprio atto sessuale: lì lo scarto è appena dell’1%, perché le coppie gay sembrano attestarsi sull’85% (sono tutti dati che ricevo dal Guardian e che prendo per buoni, non mi invento niente).

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Del resto il dato più eloquente fra quanti sono riportati dal quotidiano inglese mi pare un altro: stando a una statistica britannica condotta su 7mila donne, la metà delle donne intervistate e comprese fra i 25 e i 34 anni non è soddisfatta della propria vita sessuale; la percentuale di quelle che rispondono così crolla “sorprendentemente” al 29% tra i 55 e i 64 anni. Sorprendente? Se si fa dell’orgasmo il metro di valutazione della vita sessuale e anzi lo si fa coincidere con essa, sì, la cosa potrà sorprendere (perché è davvero difficile che una sessantenne abbia una vita sessuale più attiva di quella di una trentenne…). La lettura che però offre la sapienza della Chiesa cattolica, «esperta in umanità», mi sembra più ragionevole in quanto più aderente all’esperienza. Scrive Yves Semen al termine dei suoi due volumi di rielaborazione della Teologia del corpo di Giovanni Paolo II:

Eppure l’imbarazzo che può incombere sull’uno o sull’altra a seguito di baci o di carezze intime non è l’unica misura di ciò che conviene o di ciò che dev’essere evitato. Quest’imbarazzo può semplicemente provenire da un’insufficiente accettazione del proprio corpo e da una reticenza a consegnarlo completamente. È vero che questo addomesticamento del proprio corpo e di quello altrui è il più delle volte un’opera di lungo respiro, che la conquista di una vera libertà dei corpi domanda un apprendimento paziente e che non vi si giunge che dopo molti anni, talvolta decine di anni, di vita coniugale. È tanto più vero che ci saranno stati, nella storia dell’uno o dell’altro sposo, dei traumi di ordine sessuale che impiegano lunghissimi anni a guarire totalmente.

Yves Semen, Le mariage selon Jean Paul II, 446
(esiste tradotto in italiano, ma questa traduzione è mia e il riferimento di pagina è all’edizione originale)

Ecco, quello che Thérèse Hargot auspica è che siano in molti a fare il lavoro che fa Yves Semen. E Thérèse non ha mancato di sorprendermi dicendo che, nelle terapie di coppia, gli uomini vengono magari malvolentieri la prima volta ma poi – rotto il ghiaccio – sono quelli che vogliono davvero cogliere l’occasione di crescere, di scoprirsi insieme con l’altra, mentre insieme si matura nella vita sessuale. Penso che il Papa abbia in mente anche questo quando ribadisce – ormai l’ha ripetuto più di qualche volta – che «l’uomo rende più donna la propria donna, la donna rende più uomo il proprio uomo». Orbene, da dove si comincia? Ecco, Giovanni Paolo II, leggendo la Bibbia sulla scorta principalmente di Tommaso, di Scheler e della Stein, diceva che il punto di partenza è la “solitudine originaria”. Quella di Adamo senza Eva, che resta a sé stesso una domanda insolubile, un enigma sterile piuttosto che un mistero fecondo. L’arrivo di Eva – così “genialmente” differito dal racconto biblico – è la pro-vocazione a uscire dalla solitudine originaria. L’invito a un esodo pieno di incertezze, che potrà anche rivelarsi amarissimo ma per il quale è già preparato un esito luminoso.



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Ovvio che si può sempre declinare l’offerta e restarsene seduti a masturbarsi. Se nell’articolo di Simonetta Sciandivasci abbiamo forse perso qualcosa, per le parti dell’articolo originario da lei omesse, abbiamo di sicuro guadagnato molto nelle tre righe finali, che sembrano tutta farina del suo sacco (oh, avesse scritto così tutto l’articolo!) e che appare in perfetta sintonia con quanto venivamo dicendo noi:

All’uomo tocca il destino che abbiamo assegnato alla complessità: la rimozione di un intralcio troppo faticoso da raddrizzare (e, in fondo, inutile: ora che la scienza ha provato anche la superiorità e l’autarchia del piacere femminile, cosa ce ne faremmo?). 

Le perdoniamo anche il terzo accenno a “la scienza”: è risibile e difatti ormai sembra ironico. L’alternativa è ancora (e sempre) quella edenica: si può affrontare “la rimozione dell’intralcio faticoso da raddrizzare” (troppo, se non si dà un Redentore)… oppure congelarsi per sempre nella solitudine originaria.



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