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È peccato chiedere a Dio di morire in un momento di depressione?

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Toscana Oggi - pubblicato il 29/10/17

Ho scoperto da poco, su internet, la vostra rubrica, e volevo porre una domanda. Ma se uno in momenti forti di depressione e frustrazione chiede a Dio di farlo morire, commette peccato? È lecito pregare dicendo: Signore portami in cielo?

Lettera firmata

Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

È necessario rispondere in maniera articolata. Bisogna premettere che la vita è un dono di Dio e, allo stesso tempo, è un compito, il compito fondamentale che Dio stesso ci affida. Abbiamo quindi il dovere di amare la vita e dobbiamo impegnarci incessantemente a ritrovarne il senso qualora, per qualsiasi ragione, l’avessimo smarrito. Proprio perché il Figlio di Dio ha assunto la nostra vita e la nostra sofferenza, il cristiano è chiamato alla consapevolezza che non esiste situazione umana che non possa essere riempita di senso.


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Tuttavia non si può negare che esistano casi limite, ovvero situazioni soggettivamente sperimentate come davvero difficili da sostenere. Una depressione, ad esempio, non è necessariamente una colpa, anzi credo che difficilmente lo sia. Tuttavia una depressione può far percepire la vita come insopportabile. È vero che esiste il dovere di curarsi, ma non sempre le terapie risultano efficaci e normalmente non lo sono in tempi brevi. Il suicidio non sarà mai lecito, come non lo è l’eutanasia. Ma se, in preda alla depressione, o in una situazione di grave frustrazione esistenziale, oppure senza più forze perché molto anziano, o magari nella fase terminale di una malattia incurabile, uno semplicemente chiede a Dio di farlo morire, non direi proprio che con questo commetta peccato. Anzi, dire: «Signore portami in cielo…» in certe condizioni può essere un atto di speranza. Tale richiesta, tuttavia, non potrà mai ovviamente divenire un pretendere che Dio faccia la nostra volontà. Ad ogni preghiera di domanda bisogna sempre aggiungere: «però sia fatta la tua volontà, Signore».




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Si deve inoltre puntualizzare che il desiderio di morire, se di per sé non è cattivo, e anzi, come si è detto, in determinate condizioni può essere del tutto ragionevole, non può tuttavia sicuramente essere buono quando si possiedono ancora energie da spendere, quando si hanno responsabilità importanti nei confronti di altri e quando si è consapevoli di doveri importanti da portare a compimento. Il criterio guida delle nostre scelte e dei nostri desideri deve essere sempre la carità. Sarebbe forse da egoisti desiderare di morire, e magari chiedere la morte nella preghiera, dimenticando i bisogni degli altri e tralasciando di considerare quello che ancora possiamo essere chiamati a fare. Viceversa, quando si prospettasse come prossima l’eventualità della morte, ad esempio per una malattia non curabile, non dovremmo reagire con un attaccamento alla vita esasperato e angosciato a motivo della preoccupazione per gli altri. Dovremmo ricordare che tutti siamo utili e nessuno indispensabile, e saper quindi affidare i nostri cari alla provvidenza del Signore. Il cristiano è capace di non fuggire la morte proprio perché è capace di non fuggire la vita, e viceversa.




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Per concludere possiamo considerare alcuni esempi, fra gli altri, di desiderio della morte e, al contempo, di disponibilità alla vita, presenti nella Scrittura e nella tradizione cristiana.

Nell’Antico Testamento c’è il caso di Giobbe che provato dal dolore invoca la morte (Gb 12,4-5; 13,4-13) e di Elia che frustrato, spaventato e stanco chiede al Signore di morire (1 Re 19,4). Per entrambi però il Signore ha in serbo un altro progetto: Giobbe viene risollevato ed Elia rinfrancato ed inviato a portare a compimento la sua missione.

Nel Nuovo Testamento possiamo considerare invece il caso del santo vecchio Simone al quale, secondo il Vangelo di Luca, era stato predetto che non sarebbe morto finché non avesse visto il messia, ma, una volta riconosciuto Gesù, egli può pregare chiedendo in effetti al Signore di farlo morire: «Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola…» (Lc 2,29). Il racconto evangelico non lo rivela, ma si può presumere che il Signore lo abbia esaudito.




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Sempre nel Nuovo Testamento abbiamo l’esempio di Paolo che, pur non pregando direttamente il Signore di prenderlo, esprime chiaramente ai cristiani di Filippi il desiderio di morire per essere con Cristo. Ma questo desiderio è tuttavia subordinato alla disponibilità a vivere ancora per lavorare con frutto per il bene della Chiesa: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,21-26).

Nella tradizione cristiana troviamo un atteggiamento analogo a quello di Paolo in San Martino di Tour il quale, secondo il racconto di Sulpicio Severo, sentendosi vicino alla morte e pur desiderando raggiungere il Signore, di fronte allo sgomento dei suoi figli spirituali, prima di morire pregava così: «Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: sia fatta la tua volontà» (Lett. 3: SCh 133,343).

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