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“Ho meritato i tuoi castighi”….Dio, un giudice senza pietà?

Priest with Prayer book against dark background – it

Alexander Tihonov

don Antonio Rizzolo - Credere - pubblicato il 11/09/15

Come interpretare questa frase dell'Atto di dolore?

Caro direttore, perché nell’Atto di dolore si dice che a causa dei nostri peccati abbiamo meritato i castighi di Dio? Dio, infatti, non è un giudice che ci ripaga con la nostra stessa moneta. Non trova?

Francesca, Rimini

L’espressione “ho meritato i tuoi castighi”, presente nell’Atto di dolore, può in effetti far passare l’idea di un Dio che punisce soltanto, di un giudice senza pietà. Peggio ancora, può indurre a pensare che i mali che ci capitano siano da ricondurre direttamente a un castigo di Dio. E’ quello che dicevano gli amici di Giobbe: la sventura che lo aveva travolto era stata causata dai suoi peccati. Giobbe, invece, era un giusto e Dio aveva solo permesso che gli capitasse ogni genere di male. L’immagine di Dio che ci ha rivelato il suo figlio Gesù è invece quella di un padre misericordioso, che attende il ritorno, la conversione di noi peccatori, ed è pronto a riaccoglierci tra le sue braccia, come appare nella parabola del figlio prodigo (vedi Luca 15,11-32). Non bisogna, comunque, dimenticare che più volte nella Bibbia si parla dei castighi di Dio. Si legge, ad esempio in Esodo 34,6-7: “Il Signore, il Signore, Dio misericordio e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.

Come intendere allora l’espressione dell’Atto di dolore? Significa che io mi rendo conto della gravità dei miei peccati, li riconosco e ammetto di meritare un castigo. E’ una presa di coscienza soggettiva del male commesso e delle conseguenze negative che il peccato ha nella mia vita. Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia ha scritto che il peccato “finisce per rivoltarsi sempre contro colui che lo compie con una oscura e potente forza di distruzione” (n. 17).

Questa consapevolezza porta al cosiddetto “dolore imperfetto”, motivato cioè dal timore, dalla paura delle conseguenze. C’è però anche il “dolore perfetto”, motivato dall’amore verso Dio “infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”. Pensiamo a quanto ci faccia star male aver offeso o tradito un amico. Questo vale a maggior ragione con Dio, che ci ama senza misura, ci mantiene in vita, ha fiducia in noi, sa che possiamo scegliere il bene e vincere il male.

La formula tradizionale dell’Atto di dolore ha dunque ancora un valore. Tuttavia, in riferimento al sacramento della Penitenza, non dobbiamo dimenticare che nel Rituale sono presenti anche altre formule di preghiera per chiedere perdono. Alcune sono molto semplici, come la seguente: “Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Altre sono di ispirazione biblica: “Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre. Non ricordare i miei peccati: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”. Sarebbe bene insegnare anche queste, ad esempio ai ragazzi del catechismo. Senza dimenticare che il Rituale prevede anche che il penitente reciti l’Atto di dolore con parole sue.

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