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Confessione: si può cambiare l’atto di dolore?

Seal of Confession Under Attack Again Marcin Mazur – it

UK Catholic/Marcin Mazur

Toscana Oggi - pubblicato il 08/05/15

Sarà possibile riformulare questa preghiera in modo attuale?

Caro don Piero,
le espongo una semplice riflessione maturata in questo periodo di «prime Comunioni» vissuto anche direttamente da padre coinvolto. Si tratta del sacramento della Confessione. Mi pare che, giustamente, si cerchi adesso di presentare questa esperienza con forte valenza positiva, insistendo più sull’amore rigenerante di Dio Padre che sul meticoloso inventario dei nostri limiti. Maggiore dialogo umano e celebrazioni preparatorie comunitarie hanno aiutato a rimuovere quella patina cupa che caratterizzava la Confessione fino a pochi anni fa.

In relazione soprattutto ai bambini e in generale ai neofiti, mi pare pertanto che «un’ombra» in alcune espressioni dell’Atto di Dolore così come lo impariamo («… peccando ho meritato i tuoi castighi…»). Mi sembra che si veicoli un concetto fraintendibile di Dio che poco ha a che fare con quanto molti sacerdoti non si stancano di ripetere: Dio è amore e non meritiamo nessun castigo suo perché Egli mai lo infleggerà, offeso dai nostri peccati. Sarà possibile riformulare questa preghiera in modo attuale?
Giovanni Casini – Firenze

Risponde don Piero Ciardella, Docente di Filosofia teoretica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Beato Niccolò Stenone” di Pisa.
Le osservazioni dell’autore della lettera sono più che opportune e condivisibili. L’immagine di Dio che ci è stata rivelata in Gesù, e che la Chiesa con fatica ha finalmente riconquistato, non ci consente di parlare ancora di «punizioni» divine. Infatti il Dio di Gesù è un Padre il cui amore è più grande del nostro peccato, che soffre per l’uomo che si allontana da lui, che è pronto a correggerlo e attende con impaziente tenerezza il momento del suo ritorno, ma che in nessun modo ha in riserva per lui dei castighi. 

Questa ritrovata immagine paterna di Dio, ha proiettato in questi anni delle positive luci sulla celebrazione del sacramento della penitenza. Solamente sperimentando la gratuità dell’amore sanante di Dio, e non certo per la paura del «castigo», il sacramento può aprire all’uomo il cammino di un’autentica conversione. Proprio per questo sono d’accordo con il signor Casini che propone di sostituire la tradizionale formula dell’atto di dolore. Questo è ancora più auspicabile ed è concretamente possibile con il nuovo Rito della penitenza del 1974. Al n. 45 si legge: «Il sacerdote invita il penitente a manifestare la sua contrizione e il penitente lo fa recitando l’atto di dolore o qualche altra formula simile, per esempio…» e seguono ben otto preghiere alternative, che possono recitarsi in sostituzione di quell’unica formula che continua ad essere insegnata come esclusiva. Non solo, il rituale lascia intendere che il penitente può esprimere il suo dolore per il peccato e il proposito di una vita nuova (in questo consiste la contrizione), con altre preghiere, oltre a quelle esplicitamente indicate. Io credo che la soluzione auspicabile sia quest’ultima. I sacerdoti e i catechisti dovrebbero educare il penitente ad esprimere con parole proprie, e per questo più sentite e partecipate, magari con esplicito riferimento ai peccati confessati, questo particolarissimo momento. 

In conclusione desidero tornare brevemente sul tema del castigo, per ovviare a due possibili obiezioni. Infatti alcuni potrebbero giustamente osservare che nella Bibbia si parla del castigo di Dio («il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa…» Es 34, 6-7), e altri potrebbero pensare che la troppa insistenza sulla misericordia senza misura di Dio porti alla lunga a perdere il senso della gravità del peccato e della responsabilità dell’uomo. Rispondo in modo sintetico, richiamando alla mente la nota parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32). Nella insuperabile parabola è descritta la fuga del figlio che vuole emanciparsi da una relazione con il padre che egli considera opprimente. Egli è accecato dalla illusione di una libertà che promette molto di più di ciò che mantiene. Infatti il figlio minore, invece di trovare se stesso, lontano dalla casa paterna perde la sua dignità, si riduce alla pari degli animali. Questa situazione non è un castigo inflitto dal Padre che vuole la rivincita sul figlio disobbediente, ma la conseguenza della sua scelta. 

Soprattutto, però, nel racconto evangelico è messo in evidenza il dolore del padre che asseconda il figlio dandogli la libertà richiesta, e la misericordia con cui egli attende con impazienza il momento del suo ritorno. Qui abbiamo descritto il peccato di ogni uomo e il «castigo» che è inevitabilmente inscritto in esso, e che soltanto in questo senso può dirsi «meritato» («Chiunque commette il peccato ne diventa schiavo» Gv 8,34), ma soprattutto è celebrata la misericordia del Padre in virtù della quale, solamente è possibile il ritorno a casa.

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