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Vita e opere di sant’Ilario di Poitiers, “Atanasio di Occidente”

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Anne Bernet - pubblicato il 26/08/22

Il santo patrono del Poitou non è un cristiano venuto da lontano, inviato da Roma per evangelizzare la regione. Ilario è un ricco ereditiere locale, scelto nel IV secolo dalla popolazione locale come vescovo di Poitiers. Strenuo avversario dell’arianesimo, sarà riconosciuto dottore della Chiesa nel 1851.

A vista umana, tutto sembrava andare bene a Ilario, in quegli anni ’40 del IV secolo. Ereditiere di una ricca e potente famiglia dell’aristocrazia dei Pictoni (l’attuale Poitou), proprietario di vasti possedimenti agricoli, le cui rendite gli avrebbero permesso di vivere con ogni agio come avesse voluto, sposato a una giovane che amava, padre di una figlia unica (Abra) che vezzeggiava teneramente. Retore e avvocato brillante, attraeva ai suoi corsi una folla di studenti, nonché una massa di curiosi avidi di ascoltare un oratore descritto come “il Rodano dell’eloquenza” (cosa che in un’epoca in cui quel fiume non aveva ancora argini e chiuse, ma era un vasto e tumultuoso torrente, la dice lunga sulla foga della sua parola). Quest’uomo, sulla trentina, doveva essere felice. E non lo era. 

La folgorante risposta 

Ilario era troppo intelligente per ignorare la fragilità di quell’apparente felicità che il destino poteva in ogni momento fracassare senza pietà. La lettura dei filosofi, di cui s’era imbottito, non gli aveva mai dato risposta soddisfacente al mistero del destino umano, non più di quanto gli avesse offerto veri motivi di consolazione davanti al dramma della morte e del lutto. Si può essere felici pur sapendo effimera la felicità? Ilario pensava di no. 

Non è nel paganesimo famigliare che trovava consolazioni. Anche lì, era troppo intelligente per accontentarsi dei vecchi miti e dei loro regolari aggiornamenti, che tentavano di replicare alle difficoltà poste dall’espansione, poi dal trionfo (col suo riconoscimento ufficiale, nel 313) del cristianesimo. Ilario cercava la chiave della vera felicità, quella che non finisce e che la morte non annienta. Un giorno, procuratisi i Vangeli, aprì la prima pagina di quello di san Giovanni e lesse: «In principio era il Verbo, e il Verbo si è fatto carne». Per lui fu un’illuminazione, la folgorante e prodigiosa risposta a tutte le sue domande. Ilario si fece istruire nella fede cristiana e chiese il battesimo. L’intelligenza, i doni, i talenti che fino a quel momento aveva profuso nell’esercizio delle scienze profane li mise d’ora in poi ad approfondire le verità della fede e ad insegnarle. Quest’uomo onesto, dai costumi gravi, si attenne da quel momento in poi a una vita quasi ascetica, divisa fra lo studio, la preghiera e l’elemosina. Si sapeva, si vedeva. 

Vescovo di Poitiers 

Nel 353, in seguito a una lunga malattia il vescovo di Poitiers morì. Per la comunità cattolica della città, il problema della sua successione neanche si poneva: il nome del futuro pastore s’imponeva da sé ed era quello di Ilario. Certo, era un laico, era sposato e padre di famiglia, ma all’epoca questo non era un problema insormontabile: l’ordinazione episcopale fu conferita rapidamente, dietro la promessa che con la moglie sarebbero vissuti come fratello e sorella. Vedendo in questa scelta la volontà divina, Ilario vi si impegnò a fondo, così come in foro interno si impegnò per diventare un vescovo esemplare, innocente, virtuoso e dotto, una qualità che sembrava essenziale a quell’intellettuale tanto più nel momento in cui il cattolicesimo subiva da decenni gli assalti degli eretici ariani, negatori della divinità del Logos, divenuti molto potenti in Oriente dopo l’ascesa alla porpora imperiale (previa uccisione dei fratelli) dell’imperatore Costanzo II, uno dei figli di Costantino. Questi era tanto fanaticamente dedito all’arianesimo che non cessava di perseguitare i cattolici, colpendo con l’esilio i pastori fedeli alla confessione nicena e pretendendo di imporre a tutta la Chiesa le sue vedute in materia religiosa. 

Ora che Costanzo regnava anche sull’Occidente, c’era molto da temere – e Ilario lo sapeva. Già nel Mezzogiorno di Francia l’imperatore era riuscito a imporre, attorno a uno dei suoi protetti (il vescovo Saturnino di Arles), una canaglia depravata, una ridda di prelati passati alla religione imperiale – vuoi per sincera adesione all’eresia vuoi per carrierismo e desiderio di piacere vuoi per viltà. Ilario non rientrava in alcuna di queste categorie, e presto se ne sarebbero accorti tutti. Al concilio convocato ad Arles da Costanzo, questi professò così forte e chiara la sua fede nella divinità del Verbo che si guadagnò l’epiteto di “Atanasio di Occidente”, con allusione al grande patriarca di Alessandria che, per primo, aveva condannato la dottrina di Ario, collaborato all’affermazione del Credo niceno incorso per questo nella collera imperiale e nell’esilio. 

Esiliato 

Ilario sapeva bene a cosa andava incontro: grosse rogne, l’esilio all’altro capo dell’impero, forse anche il martirio, oppure un “incidente” (che può sempre capitare agli oppositori troppo ostinati)… Per ora non si era arrivati a quel punto e Costanzo II preferirebbe di gran lunga evitare di mettersi contro, in quelle provincie galliche da lui poco e mal conosciute, una personalità di primo rilievo e il suo pacchetto di clientele. Si lasciò allora intendere a Ilario che ci si sarebbe potuti accomodare, che tutti avrebbero avuto da guadagnarci, che poi sarebbe rimasto libero di predicare e di scrivere quanto avesse preferito, restandosene a casa sua: si sarebbe solo dovuto limitare a evitare le dispute pubbliche, perché i suoi avversari, meno brillanti di lui, non avrebbero saputo replicare ai suoi argomenti. Una proposta che in sé stessa significava non conoscere il vescovo di Poitiers, più eccitato che spaventato dalla prospettiva delle sofferenze e del martirio. Gli si chiedeva di diventare discreto e di lasciare che i nemici della fede diffondessero indisturbati i loro veleni? Quello ribatté fieramente: 

Aderisco al Nome di Dio e del mio Signore Gesù Cristo, dovesse tale confessione attirarmi ogni male. Respingo la comunella dei cattivi e il partito degli infedeli, quand’anche dovessero coprirmi di beni. 

Una risposta chiara e netta, senza ambiguità e concessioni. Ripeté la sua professione di fede anche nel concilio regionale di Béziers, nel 356. Questa volta, esasperato, su richiesta di Saturnino di Arles Costanzo II ordinò la deportazione di Ilario in Frigia (nell’odierna Turchia). Imperturbabile, il vescovo condannato all’esilio scrisse: 

Duri in eterno il mio esilio, purché la verità sia predicata; i suoi nemici possono esiliarne i difensori, ma potranno forse esiliare anche quella? 

Con lui, diverse figure della Chiesa della regione vennero colpiti dal bando (fra gli altri il diacono di Ilario, un certo Martino che avrebbe fatto molto parlare di sé e che per qualche tempo tornò nella sua natale Pannonia, l’Ungheria, per tentare di convertire i suoi antichi parenti). Queste partenze non cambiarono in nulla la resistenza dei cattolici del Poitou, tanto unanime che bisognò rinunciare alla nomina di un successore più compiacente sulla sede di Poitiers. 

La fede allo stato puro 

Del suo esilio Ilario fece un trampolino: benché continuasse, nella misura del possibile, a governare la sua Chiesa lontana, dispose (dacché i servizi postali erano relativamente lenti e rari) di molto tempo per scrivere. Compose così la sua opera principale, il De Trinitate, che confuta le teorie ariane, e poi un trattato Sui Sinodi. Dapprima basito dal disordine che regnava nelle Chiese orientali e dagli insegnamenti talvolta deliranti che vi si dispensavano ai fedeli, predicò la fede cattolica nella sua purezza, tra il più vivo stupore del clero e dell’episcopato che, spesso, si lasciavano convincere dai suoi argomenti e tornavano alla sana dottrina. Un’intera famiglia, rimasta pagana, toccata dalla sua foga e dalla sua santità, gli chiese il battesimo. La figlia maggiore, Florence, convertita, non avrebbe più lasciato Ilario e lo avrebbe seguito più tardi a Poitiers, dove avrebbe preso il velo (sarebbe diventata anche una delle sante patrone della città). 

Invitato per errore al concilio regionale di Seleucia d’Isauria, nel 360, confuse con la sua solita verve vescovi e teologi ariani: 

La fede non è più nei Vangeli ma nello spirito del tempo; ci sono tante fedi quante volontà, tante differenti dottrine quante di costume, tante bestemmie quanti vizî. […] Non c’è altro mezzo di uscire dall’impasse che tornare al porto della fede nella quale siamo stati battezzati. 

Ed esigette di recarsi a Costantinopoli per un confronto con l’imperatore e i suoi sodali, a cominciare da Saturnino di Arles, il responsabile del suo esilio. Comprendendo che non avrebbero potuto avere la meglio nel dibattito con quel fine dialettico, gli ariani – anche preoccupati dei “danni” che stava facendo in Oriente, e che certamente avrebbe continuato a fare – chiesero a Costanzo di rimandarlo a Poitiers. Lo avrebbero rispedito nelle Gallie. 

La riconquista delle anime 

La morte di Costanzo, nel 361, avrebbe liberato i cattolici orientali dai tentativi di conversione coatta all’eresia, ma i danni fatti erano enormi, poiché anche il Papa aveva accettato, in un momento di debolezza, di sostituire il Credo di Nicea con una formula detta “di Rimini” che non confessava più la filiazione divina del Verbo e seminava il dubbio nelle coscienze. 

Per dedicarsi a questo immenso cantiere, bisognava essere liberi. A Poitiers, Ilario ritrovò la moglie e la figlia. Un primo progetto di matrimonio per Abra era fallito, e il padre temeva di vedere la propria figlia unica preferire, malgrado i suoi scongiuri, le ricchezze ingannevoli del mondo ai tesori dell’Eterno. Egli implorò dal Cielo che l’adolescente fosse preservata da quelle tentazioni mortifere. Poco dopo, Abra si spense dolcemente, e sua madre la seguì presto nella tomba. 

Libero da questi ultimi legami carnali, Ilario si dedicò alla riconquista delle anime, percorrendo l’Italia per combattervi l’arianesimo nei suoi ultimi bastioni occidentali, come Milano, ma anche quanti tenevano un’ortodossia oltranzista che, dietro il vescovo Lucifero di Cagliari, pretendevano di rifiutare ogni riconciliazione con il clero già ariano che chiedeva reintegrazione nella Chiesa. 

Ilario non sarebbe tornato nell’amato Poitou se non nel 364. Logorato dalle prove, morì nel suo episcopio il 13 gennaio 368. Per la sua diocesi rimase – lungo la storia e le crisi talvolta violente che scossero la regione (si trattasse dell’occupazione visigotica o della riforma protestante) – il faro di un cattolicesimo regolarmente combattuto e mai vinto, come durante la sua vita. Ciò gli valse di essere dichiarato dottore della Chiesa da Pio IX. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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