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Immagina sant’Ireneo di Lione davanti al presepe

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MonDoMD | CC BY-SA 4.0

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 29/11/21

Nella “Esposizione della predicazione apostolica” Ireneo di Lione riserva un paragrafo all'ineffabile generazione del Salvatore secondo Isaia: è l'espressione dello stupore che quindici secoli dopo avrebbe commosso sant'Alfonso.

L’anno liturgico appena iniziato porterà verosimilmente alle Chiese, fra gli altri, il dono del riconoscimento di sant’Ireneo di Lione come dottore della Chiesa invocato col titolo di “doctor unitatis” – dottore dell’unità. Lo ha annunciato il Santo Padre in persona, il 7 ottobre 2021, durante l’udienza al gruppo misto di lavoro ortodosso-cattolico che del grande apologista e vescovo di Lione porta il nome: 

Il vostro patrono, Sant’Ireneo di Lione, che volentieri dichiarerò Dottore della Chiesa prossimamente con il titolo di Doctor unitatis, è venuto dall’Oriente e ha esercitato il suo ministero episcopale in Occidente, è stato un grande ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali. Il suo nome, Ireneo, porta impressa la parola pace. Sappiamo che la pace del Signore non è una pace “negoziale”, frutto di accordi per tutelare interessi, ma una pace che riconcilia, che reintegra nell’unità. Questa è la pace di Gesù. Cristo — scrive l’Apostolo Paolo — «è la nostra pace, […] colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Cari amici, anche voi, con l’aiuto di Dio, lavorate per abbattere muri di separazione e per innalzare ponti di comunione.

L’unità che non teme di abbattere e di costruire

Unità fra Oriente e Occidente cristiano, dunque, ma unità anzitutto all’interno della comunità – non per nulla Ireneo dedicò i massimi sforzi della sua attività pastorale e intellettuale alla riparazione delle fratture causate dalle sette gnostiche. 

È difficile sintetizzare per i profani della materia che cosa sia lo gnosticismo – di cui pure tanto (non sempre a proposito) si parla – meglio di quanto nel 2007 fece Benedetto XVI in una delle sue memorabili catechesi: tale congerie di chiesupole 

affermava che la fede insegnata nella Chiesa sarebbe solo un simbolismo per i semplici, che non sono in grado di capire cose difficili; invece, gli iniziati, gli intellettuali – gnostici, si chiamavano – avrebbero capito quanto sta dietro questi simboli, e così avrebbero formato un cristianesimo elitario, intellettualista. Ovviamente questo cristianesimo intellettualista si frammentava sempre più in diverse correnti con pensieri spesso strani e stravaganti, ma attraenti per molti.

Benedetto XVI, Catechesi in piazza San Pietro, mercoledì 28 marzo 2007

Il magistero di papa Francesco non ha mai cessato, dal canto suo, di ricordare quanto “la tentazione gnostica” sia tutt’altro che eclissata dal nostro contesto culturale ed ecclesiale: tanto basta a intendere che la gioia di ricevere in dono Ireneo quale “doctor unitatis” contenga anche un utile paradigma di dialogo ecumenico e intra-ecclesiale (diciamo anche “sinodale”, visto che il termine è particolarmente in uso). 

Ireneo fu tale – cioè “pacifico” – di nome e di fatto, ma non fu un irenista, cioè non fu un pacifista buonista: al contrario tutto il suo impegno testimonia che 

  1. la testimonianza della verità cristiana può richiedere sia lo sforzo del sostenere il conflitto con quanti la contraffanno sia quello di approfondire la comprensione dei suoi enunciati; 
  2. per tutto questo si può essere chiamati a pagare personalmente, anche molto (e senza escludere l’estremo prezzo del martirio cruento). 

La trasparente unità della Chiesa e la sua radice mistica in Cristo

L’unità di cui Ireneo viene proclamato dottore è dunque anzitutto quella della dottrina cristiana, circa la quale si conserva “una frase molto preziosa” nella sua opera: 

La Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, custodisce con cura [la fede degli Apostoli], come se abitasse una casa sola; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e lo stesso cuore; in pieno accordo queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della Tradizione è unica e la stessa: le Chiese fondate nelle Germanie non hanno ricevuto né trasmettono una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo. 

Ireneo, Contro le eresie I,10,1-2 

Tale unità si ritrova poi, ultimamente, in Gesù Cristo, del cui “mistero” e della cui “economia” – i due termini usati da Ireneo per dire la preesistenza eterna del Figlio in Dio e la sua manifestazione nella storia della salvezza – il Vescovo fu appassionato espositore. Appunto nella Esposizione della predicazione apostolica, ad esempio, si legge dopo un riferimento alle virtù salvifiche della Passione di Cristo: 

In seguito [il profeta Isaia] dice: «Chi narrerà la sua nascita?» [Is 53,8]. Ciò è detto per metterci sull’avviso, affinché non lo disprezziamo come un uomo insignificante e di poco conto a causa degli avversari e dei dolori della sua passione. Colui che ha sofferto tutto ciò vanta una origine ineffabile. Infatti per “nascita” intende la sua origine, ossia suo Padre ineffabile e indescrivibile. Riconosci dunque che tale è l’origine di Colui che ha sopportato questa passione e non disprezzarlo per la passione che ha intenzionalmente sofferto per te; ma temilo per la sua origine. 

Ireneo, Esposizione della predicazione evangelica 70 

Dal XIX secolo in qua ricorre, almeno in certi contesti ecclesiali, l’adagio per cui sarebbe dato di riscontrare qua e là recrudescenze di “arianesimo”: una dottrina ancora di là da venire, per il II secolo di Ireneo, nel quale il pericolo prevalente sembrava essere al contrario quello di un forte deprezzamento dell’umanità – tanto sacra quanto vera – del Cristo

L’unità poetica della Chiesa in tutti i secoli

Era stato già Paolo a indicare nella Passione di Cristo il sasso d’inciampo per cui alcuni avrebbero negato la verità dei patimenti (Cristo avrebbe avuto un corpo solo apparente) e altri la dignità del Sofferente (Cristo non sarebbe stato vero Dio). Fin da questo grande principio della regula fidei il doctor unitatis ci guida nel tenere insieme gli estremi della dottrina evangelica: Cristo è veramente il Figlio di Dio, e altrettanto veri sono i patimenti mediante i quali Egli ha ottenuto il riscatto del genere umano. 

Così facendo egli ha incoraggiato le Chiese del suo tempo a tenere aperta la domanda della fede – anche la Fede domanda! – per tutti i secoli del loro pellegrinaggio temporale. Sembra di presentire il commosso stupore di sant’Alfonso, che davanti a un presepe napoletano (a Nola o forse nel Foggiano) quindici secoli dopo avrebbe scritto, fra i gemiti: 

Tu lasci il bel gioire
del Divin Seno [che è quello del Padre, non quello della Madonna! N.d.R.]
per venir a penar
su questo fieno. 

Dolce amore del mio côre,
dove amor ti trasportò? 

O Gesù mio!
Perché tanto patir? Per amor mio! 

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Tu scendi dalle stelle, 1754
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