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Abbiamo (troppi) pregiudizi sulle donne disabili che diventano madri?

WOMAN, PREGNANT, BED

Natalia Deriabina | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 09/08/21

Si parla spesso del bello di essere madri imperfette e ci si riferisce a piccoli inciampi emotivi o caratteriali. Ma possiamo osare un passo di realtà oltre lo stereotipo di una disabilità asessuata e inadatta alla procreazione?

È davvero molto raro (uso un eufemismo) pensare a una madre e figurarsi l’immagine di una donna disabile. Perché? Innanzitutto perché siamo restii a uscire dalla nostra comfort zone, fatta di abitudini e stereotipi. Ed è un atteggiamento inconsapevole… fino a un certo punto.

La mamma è un pilastro di affetto e sicurezza, la si deve pensare come una tenera-roccia a cui appoggiarsi e da cui farsi abbracciare. E quando ci adoperiamo a scrivere articoli sul bello di essere madri imperfette, ci riferiamo sempre a difettucci caratteriali, stanchezze da eccesso di impegni, spigolosità. Forse occorre fare un passo di realtà più spinto e onesto.

Ma la donna disabile può e vuole procreare?

La scarsa confidenza con l’immagine di una madre disabile dipende da un pensiero implicito – brutto, taciuto e però frequente. A un disabile (uomo o donna che sia) la sessualità è preclusa. Solo a causa di questo pregiudizio, ne desumiamo altrettanto automaticamente che i disabili siano quantomeno lontani dal tema della procreazione. Tenuti lontani, pensati lontani – è meglio dire.

Mi ci ha fatto riflettere, grazie alla sua affilata ironia, Marina Cuollo che cura la rubrica Area Marina su Vanity Fair. Affetta da un’osteodisplasia scheletrica, la Cuollo ha imparato sulla pelle a guadagnare uno sguardo sulla disabilità fuori dagli schemi e ne parla con una franchezza che è molto seria soprattutto quando strappa una risata. Folgorante la sua battuta sul femminismo:

le loro lotte spesso non erano le mie: mentre parlavano di aborto, io stavo ancora a pensare se mai sarei riuscita a fare sesso, perché per me era precluso. – Marina Cuollo

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Ed è stato proprio il suo pezzo recente, intitolato Perché a una donna con disabilità non si pensa mai come una madre?, a suscitare in me domande e ipotesi.

La nostra società glorifica la maternità?

A onor del vero le persone con cui non c’è perfetta sintonia d’intenti stimolano riflessioni proprio perché ci permettono di uscire dal ‘solito brodo’ autoreferenziale. L’incipit del pezzo di Marina Cuollo mi ha fatto scuotere vigorosamente la testa. Per una persona mossa dalla premura di abbattere stereotipi e pregiudizi mi pare uno scivolone ripetere il ritornello in base a cui il nostro paese impedisce la libertà di aborto perché ci sono troppi medici obiettori.

E c’è un altro pensiero che non mi trova allineata:

Vivere in una cultura che glorifica la maternità ha un impatto enorme sulle donne, che troppo spesso sentono di dover assolvere in tutto e per tutto al ruolo di madre anche se questo non rientra minimamente nei loro desideri.

Da Vanity Fair
MOTHER AND LITTLE DAUGHTER,

La nostra cultura attuale glorifica la maternità? Davvero? Questo non è il ritratto del paese reale, dove – invece – la trama più frequente è quella di donne che vengono tenute alla larga dalla maternità sia da ostacoli reali (lavorativi ed economici) sia da un tam tam ideologico che vuole imporre un’agenda di realizzazione della femminilità su basi esclusivamente egocentrate (carriera, realizzare se stesse, liberarsi da una cultura patriarcale). Gli algidi tassi di natalità parlano in modo eloquente.

Ormai, diciamolo, è il pensiero di ‘vivere in una cultura che glorifica la maternità’ a essere un quadro astratto e falso. Ma proprio per questo c’è da aspettersi che frammenti di vita reale fuori da ogni stereotipo – ad esempio proprio quello delle donne disabili – facciano rinascere un’ipotesi di maternità capace di scuotere il nostro cinismo e la rassegnazione.

Donne disabili, asessute e inadatte a essere madri?

Il mare mediatico in cui sguazziamo ci riempie di sessualità fin sopra i capelli, e sempre secondo un copione in cui i partners – occasionali o meno – devono essere capaci di grandi performance. Il corpo attraente è quello procace e muscoloso. Se un po’ tutti ci sentiamo esclusi da questo racconto, la disabile e il disabile ne sono cacciati fuori a spinta.

Non solo il tema della sessualità dei disabili è un tabù, ma a noi fa comodo pensarli come asessuati, vale a dire privi o insensibili al desiderio di essere amati nella carne. Chissà poi perché è ben piantato questo pregiudizio nella nostra testa? Ed è avviandosi su questo sentiero che Marina Cuollo ingrana la quinta e ha grandi spunti su cui farci pensare:

Quindi, se il lavoro di cura è quasi esclusivamente appannaggio femminile, come si fa ad associare la maternità alle donne disabili, ovvero gli oggetti di cura per eccellenza? Semplice, le due cose non si associano affatto.
L’essere donna, unitamente all’essere “fisicamente difettosa”, provoca un senso di forte disagio in una società che esalta la perfezione del corpo. Le donne con disabilità devono fare i conti con uno stigma che impone loro di essere fragili, bisognose di cure e attenzioni, e già che ci siamo pure asessuate.

Ibid.
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Colpito e affondato. Eppure tante storie di fragilità ci dimostrano l’opposto.

Se penso a una donna disabile, è vero che il primo lungo treno di immagini spontanee la associa a difficoltà, paure, disagi, ma facendo un passo oltre mi rendo conto che si tratta di persone predisposte ad abbracciare proprio gli aspetti della maternità che oggi sono obiezioni.

Chi vive una patologia fisica o intellettiva sulla sua pelle guadagna sul campo di battaglia tre ipotesi che sfuggono ai normodotati: le giornate lisce non esistono, si trovano vie creative per reagire agli ostacoli, chiedere aiuto non è un difetto. Ci sono alleati migliori di queste ipotesi per una donna che sarà madre?

La vera cura – poi – nasce dalla premura di chi sente su di sé la certezza di non essere autosufficiente e risolto.

Aborto e disabilità, un circolo vizioso

E allora succede che se una donna vuole interrompere una gravidanza ci saranno persone che tenteranno in tutti modi di convincerla a non farlo, ma se viceversa è una donna disabile a desiderare un figlio avverrà esattamente l’opposto.

Ibid.

Marina Cuollo perdonerà se dissento, proprio per darle ragione sulla riflessione precedente. In tema di donne, disabilità e aborto l’urgenza reale è altrove: portare in grembo una femmina è una delle ragioni di aborto più diffuse al mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo; la diagnosi prenatale di disabilità è un’altra ragione di aborto diffusissima. Da una donna disabile mi aspetterei una profonda indignazione per questi due dati orribili. E mi pare irrealistico dire che una donna che vuole abortire è circordata di persone che tenteranno in tutti i modi di convincerla a non farlo. Il quadro è proprio da ribaltare, se vogliamo stare piantati nella realtà.

E vogliamo starci piantati, proprio dando voce a chi con la sua presenza dissipa le cortine fumogene di certa ideologia che calpesta i presunti scarti, i presunti deboli. Una madre con disabilità che sta raccontando pubblicamente la sua storia è Laura Coccia (affetta da tetraparesi spastica). Lo fa perché è un terreno da dissodare pesantemente, sia per tutto quanto detto sopra, sia per fare rete sulle conquiste e sui bisogni della quotidianità.

Spesso mi chiedo cosa risponderò quando Giacomo mi chiederà: “Mamma perché cammini così?”. Poi penso che non me lo chiederà, perché io sono la sua mamma e sono bionda e disabile. Semplicemente – Laura Coccia

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