Si parla spesso del bello di essere madri imperfette e ci si riferisce a piccoli inciampi emotivi o caratteriali. Ma possiamo osare un passo di realtà oltre lo stereotipo di una disabilità asessuata e inadatta alla procreazione?
È davvero molto raro (uso un eufemismo) pensare a una madre e figurarsi l’immagine di una donna disabile. Perché? Innanzitutto perché siamo restii a uscire dalla nostra comfort zone, fatta di abitudini e stereotipi. Ed è un atteggiamento inconsapevole… fino a un certo punto.
La mamma è un pilastro di affetto e sicurezza, la si deve pensare come una tenera-roccia a cui appoggiarsi e da cui farsi abbracciare. E quando ci adoperiamo a scrivere articoli sul bello di essere madri imperfette, ci riferiamo sempre a difettucci caratteriali, stanchezze da eccesso di impegni, spigolosità. Forse occorre fare un passo di realtà più spinto e onesto.
La scarsa confidenza con l’immagine di una madre disabile dipende da un pensiero implicito – brutto, taciuto e però frequente. A un disabile (uomo o donna che sia) la sessualità è preclusa. Solo a causa di questo pregiudizio, ne desumiamo altrettanto automaticamente che i disabili siano quantomeno lontani dal tema della procreazione. Tenuti lontani, pensati lontani – è meglio dire.
Mi ci ha fatto riflettere, grazie alla sua affilata ironia, Marina Cuollo che cura la rubrica Area Marina su Vanity Fair. Affetta da un’osteodisplasia scheletrica, la Cuollo ha imparato sulla pelle a guadagnare uno sguardo sulla disabilità fuori dagli schemi e ne parla con una franchezza che è molto seria soprattutto quando strappa una risata. Folgorante la sua battuta sul femminismo:
le loro lotte spesso non erano le mie: mentre parlavano di aborto, io stavo ancora a pensare se mai sarei riuscita a fare sesso, perché per me era precluso. – Marina Cuollo