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Abortire è sempre un male, anche se “pensi” che sia un bene

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Universitari per la Vita - pubblicato il 26/11/20

Il senso della parola aborto è e resta la soppressione di un essere umano: un male non può in nessun caso diventare un bene.

Di Gabriele Cianfrani

Torniamo tomisti: dai sensi, la conoscenza

Se è vero, come è vero, che la «parola» è il segno esterno del pensiero, la parola aborto – ma ve ne sono tante altre non legate necessariamente al tema in questione – meriterebbe di essere investigata e sottoposta ad esame critico. Ciò è importante soprattutto per prendere le distanze da posizioni che propongono il pensiero, o meglio, l’intera sfera intellettiva della persona umana come scollegata dalla realtà materiale: ossia una sorta di scollegamento tra piano sensitivo e piano intellettivo.

Ciò che fa poscia d’intelletto degno

Ma questo non è possibile, dato che la stessa conoscenza umana, la quale è concretamente sul piano intellettivo, non può prescindere da quelle informazioni che giungono mediante la parte sensitiva e che consentono il verificarsi della conoscenza stessa. Ad esempio, i cinque sensi (vista, udito, tatto, olfatto, gusto) sono imprescindibili per poter conoscere. San Tommaso d’Aquino, in particolare, ritiene i sensi della vista e dell’udito come maggiormente conoscitivi (Summa Theologiae, I-IIae, q. 27, a.1 ad 3um) anche se già Aristotele evidenziava l’importanza del collegamento tra il piano sensitivo e quello intellettivo.

La parola aborto e il tragico nesso con la realtà

Ma questo cosa avrebbe a che vedere con la parola aborto? A dire il vero ha molto a che vedere, soprattutto per quel che riguarda l’oggettività del dato conoscitivo, che fa parte della realtà.

La parola aborto rimanda certamente al latinoăbŏrior (tramontare, morire, venir meno). È interessante che nella parola ăbŏrior si trovi la preposizione ab («da», con la quale si esprime il complemento di moto da luogo) e dal verbo ŏrior, ossia «sorgo», per cui esprime «allontanamento da (la vita)». Questo allontanamento avviene troppo presto, proprio nel momento di sorgere. Anche un lavoro può essere considerato un aborto, se questo dovesse cessare prima di essere portato a termine. San Paolo definisce se stesso un aborto in quanto per ultimo Cristo è apparso a lui. Egli è il più piccolo degli apostoli e non si considera degno di essere chiamato apostolo poiché ha perseguitato la Chiesa di Dio sebbene, per grazia di Dio (Cfr. 1Cor 15,8-10), è l’apostolo delle genti.

Aborto: essere fatti morire prima di sorgere

Chiaramente con la parola aborto il pensiero va subito verso l’interruzione della gravidanza, sia essa spontanea o procurata. Ma il fatto è che si tratta proprio di un porre fine alla gravidanza. Se l’aborto avvenisse in maniera spontanea non vi sarebbero colpe, questo è evidente. Come anche se ciò avvenisse in seguito all’assunzione di farmaci necessari per la cura della madre e che potrebbero portare alla morte del feto (aborto indiretto).

Atto deliberato, materia grave

Ma se fosse procurata sì (aborto diretto), dato che si commetterebbe un atto intrinsecamente cattivo (intrinsece malum) quanto all’oggetto morale dell’atto, indipendentemente dall’intenzione di chi agisce e dalle circostanze. Breve precisazione: la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san Tommaso [Cfr. Summa Theologiae, I-IIae, q. 18, a. 6].

Per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l’oggetto dell’atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all’ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà. ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l’amore originario.


DEPRESJA

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La ragione che intende, la volontà che sceglie

Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, valutabile solo in base alle conseguenze che provoca. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto di volontà della persona che agisce (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, n. 78). È necessario che ogni atto umano, dipendente dalla deliberazione della ragione, nella sua individualità sia buono o cattivo (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-IIae, q.18, a. 9). Dunque con l’oggetto morale si esprime pienamente non solo la volontarietà dell’atto ma anche la sua qualificazione.

Un atto intrinsecamente cattivo non diventa mai buono

Le intenzioni e le circostanze non possono qualificare come buono un atto che è intrinsecamente cattivo per il suo oggetto, e questo vale semper et pro semper. In questo campo rientra l’aborto procurato, come anche il genocidio, l’eutanasia, l’omicidio, le torture al corpo, alla mente e altro (Cfr. Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, n. 80).

Ora, dato che è risaputo che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi), è importante che l’attenzione vada sia sull’atto interno che sull’atto esterno.

Pertanto, dal momento che la volontà segue l’intelletto, e in tal caso il riferimento è all’intelletto pratico (ordina le conoscenze per operare), non è possibile qualificare gli atti umani solo sul piano soggettivo, senza tener conto del risvolto oggettivo. Questo è importante poiché un atto intrinsecamente cattivo non può diventare buono, per una persona, solo per il fatto che questa «pensi» che sia buono. Ciò andrebbe anche a danno della persona che lo pensasse, dato che in tal caso il pensiero si scollegherebbe dalla verità delle cose. Perciò, l’aborto «procurato» non può non essere considerato come soppressione di un essere umano.




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QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNIVERSITARI PER LA VITA

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