I documenti “gender-free” che il ministro sessantottino dei Paesi Bassi ha promesso per l’Anno 2024/2025 inquietano e scandalizzano, ma curiosamente il dibattito sembra farsi più fuori che dentro la Nazione. Ripercorrere alcuni grandi tratti della storia europea può aiutare a capire alcune ragioni di questa pretesa demiurgica, ma gli ideologi del fronte Queer proclamano ormai apertamente di voler fare “tabula rasa” di tutta la civiltà nota, a cominciare dalla famiglia. Quale dialogo è possibile a partire da tali premesse?
Non molti giorni fa, lasciandoci guidare da Pierluigi Consorti nell’affascinante selva del Diritto Ecclesiastico, scoprivamo l’origine di uno dei miti della nostra epoca:
L’indeterminatezza di una definizione giuridica esaustiva dell’identità personale non ha […] impedito alla Corte costituzionale di considerare apertamente il “diritto alla identità” come un diritto garantito dall’art. 2 Cost. (sentenza 3 febbraio 1944, n. 13); con esiti ancora ambivalenti, dato che il diritto in parola non si presenta tanto come quello di vedersi rappresentati come si desidera, ma più precisamente di vedersi rappresentati come si è.
I passaporti di Jean Valjean e di Asia Bibi
In parole povere, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale la Civiltà Occidentale cercò di ricostruirsi ponendo a proprie fondamenta (sebbene quasi solo in linea di principio e nelle Dichiarazioni) i “diritti dell’uomo”, tra cui quello all’identità personale. Il che significa il diritto ad essere quel che si è senza venire più ridotti a un pre-giudizio altrui. Proprio in questi giorni finalmente riesco a leggere per intero il libro di Asia Bibi scritto con Isabelle Tollet, Enfin, libre !, e quando ero solo a metà della prima metà mi si è parato davanti un paragrafo tremendamente eloquente per la mia coscienza di europeo:
Noi [cristiani] non siamo percepiti come una minaccia ma non siamo considerati come degli esseri rispettabili. O piuttosto, diffidano di noi perché non crediamo nel loro Dio, Allah. Quando facciamo i nostri documenti d’identità, siamo obbligati a dichiarare la nostra religione. Il nostro passaporto ha perfino un colore particolare, è nero: già prima di aprirlo, sanno subito che siamo cristiani. È come se ci mettessero un marchio in mezzo al viso e, in Pakistan, questo non è un vantaggio. La nostra comunità soffre ogni sorta di disprezzo, e quest’attitudine è assai radicata nelle menti: del resto siamo soprannominati “choori”, nomignolo estremamente dispregiativo, diciamo pure insultante, che designa “chi pulisce le latrine”.
Colta giornalista francese (spesso gli esergo dei capitoli sono estratti da grandi autori del patrimonio letterario nazionale d’Oltralpe), Isabelle Tollet ha certamente sentito la toccante assonanza di questo passo con quello di Victor Hugo nei primi capitoli dei Miserabili:
«[…] Avete sentito? Sono un galeotto. Un forzato. Vengo dalle galere». Estrasse dalla tasca un grande foglio di carta gialla che dispiegò: «Ecco il mio passaporto. Giallo, come vedete! Serve a farmi cacciare dovunque io vada. Volete leggere? So leggere, io! Ho imparato al bagno penale: c’è una scuola per quelli che vogliono. Ecco, leggete cosa hanno messo sul passaporto: «Jean Valjean, forzato liberato, nativo di… vabbe’ di questo non v’importa… È rimasto diciannove anni al bagno penale. Cinque per furto con effrazione, quattordici per aver tentato di evadere quattro volte. Quest’uomo è molto pericoloso». Ecco, tutti mi hanno buttato fuori. Volete accogliermi, voi? Ma questo è un albergo? Volete darmi da mangiare e da dormire? Avete almeno una scuderia?
Valjean non lo sapeva ancora, ma davanti a lui c’era Myriel, il vescovo che avrebbe cambiato la sua vita trasformandola nell’immenso romanzo universalmente noto e amato: questo potrebbe essere impugnato come facile (e un po’ banale) argomento di apologetica, ma proprio leggendo la fiera testimonianza cristiana di Asia Bibi si vede come nel suo caso la pietà salvifica fu esercitata insieme dai Papi cattolici e dagli amici musulmani (avvocati, cittadini, compagne di prigione…). Quel che conta dunque è piuttosto come torni a riaffiorare, nelle nostre società, l’incubo del passaporto per cui si viene discriminati.
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Dall’Affaire Dreyfus al gender, passando per i Diritti e Simone Weil
L’incubo è così vivido e angoscioso che, nel sonno della ragione, ogni distinzione è suscettibile di essere vissuta – e quindi denunciata – come un’odiosa discriminazione. Hugo sarebbe morto neanche dieci anni prima dello scoppio dell’Affaire Dreyfus, ma intellettuali di calibro come Stapfer ebbero a dire che le singole eventuali frasi antigiudaiche del grande autore non sarebbero bastate a porlo “dalla parte sbagliata” di quella barricata: il diritto dell’uomo – disse proprio Stapfer nel 1900 – sarebbe prevalso, in Hugo, e i pregiudizî sugli ebrei di cui anche lui era stato imbevuto non l’avrebbero condizionato nel condannare un innocente.
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Simone Weil aveva avvertito l’ambiguità fondativa dei diritti, e difatti aveva proposto di ricostruire l’Occidente non sui diritti, bensì sui doveri, che a giudizio dell’acuta filosofa (ebrea anch’ella) precedono e fondano gli altri. La filosofa non fu ascoltata (ahinoi, aggiungeremmo) e si cercò di imbastire tutto il vivere civile sulla categoria di diritto, senza fondamenti e con esili contrappesi.
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La notizia è che la titolare del “Ministero dell’Emancipazione” (!) olandese, Ingrid van Engelshove, ha annunciato non molti giorni fa che dall’anno civile 2024/2025 la menzione del sesso scomparirà dalle carte d’identità olandesi (non dai passaporti, ché per l’Unione Europea il sesso non sembra ancora retaggio da rottamare). In un eccellente articolo pubblicato su Le Figaro (e tradotto su Breviarium), Laure Mandeville ha spiegato che sì, naturalmente si fa cenno alle lungaggini burocratiche e si ripete il mantra dello snellimento, ma dalle parole del Ministro trapela neppure velata la matrice ideologica del provvedimento:
I cittadini devono avere la possibilità di modellare [façonner] la propria identità.
La lezione di Hannah Arendt e il reportage del Figaro
E immediatamente mi è tornata in mente una visionaria pagina di Hannah Arendt:
Gli stessi governanti non pretendono di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi, ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del movimento di qualche forza sovrumana, la natura o la storia.
Il terrore come esecuzione di una legge del movimento, il cui fine ultimo non è il benessere degli uomini o l’interesse di un singolo, bensì la creazione dell’umanità, elimina gli individui per la specie, sacrifica le “parti” per il “tutto”. La forza sovrumana della natura o della storia ha un proprio principio e un proprio fine, di modo che viene ostacolata soltanto dal nuovo inizio e dal fine individuale che è la vita di ciascun uomo.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 637
Plasmare e formare, sformare e riformare, creare l’uomo nuovo, a prescindere dai morti che questo possa lasciare sul campo – è l’impressione che ancora una volta si ricava dall’articolo di Laure Mandeville, la quale puntualmente documenta come molti transessuali non siano affatto concordi con l’idea di veder vanificate le loro aspirazioni di una vita:
Maxim Februari ci tiene a dare il suo parere riguardo la soppressione del genere nelle CdI. Sin dall’inizio quello che sottolinea – ed è un’informazione che non circola – è che nella comunità transgegender non c’è una linea comune sulla questione.
Io sono per la semplificazione amministrativa – dice Maxim –. L’attuale tendenza a chiedere il nostro sesso nei documenti è ridicola.
Ma spiega altresì che la menzione del sesso sulle CdI
non è un problema per i transessuali, che non desiderano un mondo sessualmente indifferenziato. Sono passato attraverso tante prove per diventare un uomo, sono attaccato a questa famosa “M” di maschile!
La stampa ha un ruolo essenziale ed è per questo motivo che vi parlo. Non c’è sulla questione che vi pongo un reale dibattito nei Paesi Bassi.
Non se ne parla sui giornali, non se ne parla in giro, ma la stessa Judith Butler
dal 2015 [avrebbe] innescato la marcia indietro. Oggi dichiara che avrebbe potuto fare più attenzione al fatto che le persone avrebbero desiderato «vedersi riconoscere il proprio sesso» e che «non voleva dire che il genere è fluido e mutevole».
La Butler – dice Februari – «teme di aver seminato la tempesta»! Frattanto un trans che si presenta come una delle bigliettaie della stazione di Amsterdam osserva:
«Io, ci tengo alla mia titolarità di Donna!», dichiara, precisando che “non le è piaciuto” di apprendere che le Ferrovie dello Stato avevano deciso di non rivolgersi più ai passeggeri chiamandoli “Signore e Signori”, formula sostituita con “cari viaggiatori”. «Ma, non ho nulla contro, se questa espressione può essere d’aiuto a coloro che non si sentono né uomo né donna», aggiunge frettolosamente l’impiegata. Una caratteristica modalità accomodante, in un paese che sempre si è ritenuto come il paradiso della tolleranza.
Rompe però l’inquietante velo di quiete artefatta e politicamente corretta Kleis Jager, corrispondente a Parigi del quotidiano olandese Trouw:
[…] gli olandesi sono molto pragmatici. Non vedono in che cosa questa decisione potrebbe danneggiare la loro vita, per cui la accettano senza discutere. Il clima è anti-intellettuale da noi […]
O, come avrebbe chiosato Geerten Waling, giovane storico del ’48 olandese: «Siamo un Paese senza idee, ma che applica metodiche rivoluzionarie». L’assenza di dibattito però allarma lo studioso, perché così si accresce lo scarto
tra gente comune, che si accorge del cambiamento della realtà nella quale non si riconosce più, e l’élite, che invece di ascoltare il malcontento, cede alle minoranze più dinamiche. […] Se si va avanti così, ne subiremo il contraccolpo.
Laure Mandeville ricorda pure come nel “paradiso della tolleranza” «le voci cristiane siano state messe a tacere» (parola di Sonja Dahlmans, intellettuale ortodossa che prova a parlare di medio-oriente in Olanda), e il malcontento rischia di essere catalizzato politicamente da movimenti spesso altrettanto grossolani di quelli che avversano, i quali finiscono talvolta con l’assumere – parafrasando Waling – «metodi controrivoluzionari senza idee».
«All’inferno delle verità io mento col sorriso»
Quest’attitudine aberrante sembra in realtà diffondersi ben oltre gli angusti confini dei Paesi Bassi: l’assenza del dibattito, l’azzeramento del livello speculativo e dell’onestà intellettuale, il corrispettivo innalzamento della bruta ideologia sembrano assurgere a tratti comuni di quel che vive nel mallo della civiltà occidentale. Proprio in Francia in questi giorni si è registrato un impressionante caso di censura giornalistica il cui “braccio secolare” è stato Facebook, e malgrado qualche pur importante articolo di giornale non si sono viste cadere teste, né sono stati uditi distinguibili mea culpa.
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La verità è che (specie nell’epoca digitale) le democrazie occidentali sono ancora inesperte quanto ai mezzi per una gestione del dissenso che permetta un sano pluralismo (quale tutti sembrerebbero auspicare, in teoria…) schivando le derive, uguali e contrarie, dell’anarchia e dell’autarchia.
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Quella del “cambiare i documenti delle persone” è una via breviore che ha costantemente costituito una tentazione del potere, ma si tratta di provvedimenti dal respiro corto, ché facilmente ogni generazione ventura si ribellerà alle “politiche del passaporto”; l’alternativa, seguendo la lezione di Hannah Arendt, sarebbe costruire delle società in cui proprio alle generazioni venture vengano sempre di nuovo forniti i criterî per scegliere, ma liberamente, come Myriel davanti a Valjean; come quelli che – cattolici o musulmani che fossero – hanno aiutato Asia Bibi a sopravvivere alla prigionia e a tornare libera.
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Il problema è che un simile proposito (serio e civile) deve necessariamente passare per l’istituto che naturalmente presiede alla nascita, alla vita e alla morte delle persone, ossia la famiglia. Il che cozza brutalmente con le lucide dichiarazioni della
“filosofa attivista” queer Simone van Saarloos, la quale spiega il senso del suo libro sull’«oblio queer», e che al telefono dice:
La struttura della famiglia è trasmettere. È il patriarcato. Io voglio rompere tutto questo. Noi abbiamo bisogno dell’“oblio queer” per rompere queste abitudini. È una strategia: dimenticare di creare una famiglia e di trasmettere un retaggio, un’eredità. Dimenticare ci dona un potenziale di radicalità, l’opportunità di avere una pagina bianca.
E davanti a posizioni come queste è davvero dura intravedere spiragli per un (pur necessario) dialogo. L’alternativa è una futuribile guerra, forse non troppo distante e certamente dissimile da tutte quelle finora note all’umanità.