Da quello sguardo trasfigurato dal dolore si è aperta la domanda: come servire gli uomini perché arrivi loro l‘amore di Gesù?
Di Riccardo Aletti
Fin da piccolo, ascoltavo mio padre che, a tavola, raccontava del suo lavoro di ginecologo con Luigi Frigerio, in prima fila in ospedale a lottare per ogni vita nascente. Ogni paziente che decideva per l’aborto era per loro una ferita profondissima, qualcosa che non li lasciava tranquilli. In me, diventava sempre più chiaro che la vita è un bene, qualsiasi cosa possa accadere, perché c’è un Padre che ce la dona continuamente. A volte, il clima a tavola si faceva teso perché qualche rapporto in casa si incrinava: in dieci, c’è sempre un motivo per bisticciare. Mio padre interrompeva la diatriba e domandava a mio fratello Lorenzo: “Qual è la cosa più importante della vita?”. E non smetteva di domandare finché Lorenzo rispondeva: “Voler bene a Gesù”. Attorno alla tavola di casa mia, ho imparato che il perdono è sempre possibile se si ama Gesù. Le cose più importanti della vita accadono a tavola.
Ero in montagna con mia madre, mia nonna, mia sorella Luisa e un’amica quando ci è arrivata la notizia della morte di Stefano. Avevo tredici anni e avevo perso un fratello cui ero molto legato in un incidente al lago. Di quei giorni rimane non solo il desiderio di rivederlo e di poterci riabbracciare, ma anche la testimonianza di fede della mia famiglia. Ho visto la fede di mia madre e una possibilità di perdono impensabile. Poi ho visto mio padre pregare la Madonna per avere il corpo di Stefano che era rimasto in fondo al lago. Nei volti dei miei fratelli e degli amici, scorgevo la possibilità di una gioia ancora più grande del dolore. Cosa dà senso al vivere e al morire? Chi è più forte della disperazione e della morte?