Attendendo la luce verde alle messe con partecipazione di popolo, è opportuno ritrovare il senso reale di questo dono di Dio. Prima di essere un diritto, la messa è un dono di Dio, un’opera di Cristo stesso.
Diverse personalità del mondo medico, benevole verso la Chiesa e talvolta cristiane esse stesse, mi hanno fatto prendere coscienza del silenzio della Chiesa sulla specificità della messa e sulle ragioni che potrebbero giustificare che si aprano di nuovo le celebrazioni eucaristiche alla partecipazione dei fedeli. Se la loro fede in Gesù non è condivisa, la questione del soccorso spirituale merita di essere posta. Dove i francesi attingono la fiducia necessaria per affrontare i terribili effetti della pandemia sulla società? Quando si trova davanti alla propria estrema vulnerabilità, l’uomo si rivolge verso Dio: non è una fantasia dei pusillanimi, è una realtà comune a tutti gli uomini, credenti o no.
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Perché? In ragione del fatto che un grande dolore rivela in ogni uomo uno spazio intimo donde sgorga un grido. Che sia un grido di paura, di collera o di domanda, in ogni caso l’uomo sa di non poter bastare a sé stesso. Egli cerca un soccorso nell’al-di-là-dal-mondo che improvvisamente gli è diventato ostile: si rivela un essere in relazione, un essere che non può vivere se non in relazione.
Quel che si produce nelle anime
I Vescovi di Francia e alcuni sacerdoti sostengono con insistenza una richiesta al governo perché le messe siano accessibili ai fedeli [in quanto cittadini, ovviamente]. Alcuni hanno ritenuto che il tempo sia durato abbastanza, che i cristiani abbiano fatto la loro parte, ma che a un certo punto si possa riprendere l’esercizio del fondamentale diritto alla libertà religiosa. È vero. Tanto più che il progetto di riapertura dall’11 maggio [in Francia, N.d.R.] è mosso da ragioni economiche. Anche questo è vero, ma è proprio questo l’argomento che rattrista. Non è anzitutto perché si riaprono le scuole [in Francia, N.d.R.] che bisogna riaprire le chiese: se fosse questo il ragionamento, perché non riaprire anche gli stadî e i cinema?
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Cerchiamo quindi di suggerire un motivo che faccia leva non su un’uguaglianza di trattamento di diverse attività della vita sociale, ma che sia una giusta risposta a quel che produce nelle anime questa spaventosa epidemia: ancora di più, bisogna imparare a spiegare perché la messa offre una consolazione agli effetti disastrosi che il confinamento ha avuto sulla società. Il fatto è che a messa si va a ricevere un “pane” che non possiamo produrre noi stessi! Il pane della fiducia e dell’unità.
Sull’altare, in ogni celebrazione eucaristica, la consacrazione e poi la frazione del pane preludono all’incontro del termine del nostro cammino terreno: la nostra morte. Chi non ha pensato alla morte – alla propria morte! –, dall’inizio dell’epidemia? In questo tempo così difficile, in cui i giorni sono scanditi dal trend delle cifre che dicono i morti di Covid-19 (un rituale che ci vede purtroppo sempre meno coinvolti, sul piano emotivo), aiutare le persone ad appropriarsi della loro condizione mortale non è un lusso. Tutto quel che potrebbe aiutarci ad accettare la possibilità di morire domani dovrebbe essere per noi una priorità. Evidentemente, questo contravviene alle nostre mentalità gelose di preservare la vita ad ogni costo… ma in fin dei conti qual è il fine della vita?
L’incontro visibile con l’Amore del Padre
Per le persone di confessione cattolica, la messa è il preludio dell’incontro con Colui che vedremo al termine della nostra vita terrena. Egli ci fa commensali con la condivisione del pane che diventa in noi la sua presenza continua. Gesù è detto “il Verbo di Dio”, il “Verbo incarnato”. Quando mangiamo questo pane, di fatto, assimiliamo la Parola che egli impersona in senso proprio e stretto. Per comprendere l’importanza della messa, bisogna associare “parola” e “persona” come costituenti una medesima realtà.
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Come Gesù è la Parola del Padre in persona, analogamente anche noi siamo “parola”. La nostra vita parla, essa esprime un messaggio, può esprimere una lode, un ringraziamento… per i cristiani, l’intero scopo del loro passaggio sulla terra sta qui: diventare una parola vivente di Dio unendosi alla sua unica Parola incarnata. E quel che Gesù viene a dire come persona (non soltanto nei suoi discorsi) è che l’umanità è amata dal Padre al punto che egli le rende la vita donandole la sua Parola e il proprio Soffio. L’incontro con Gesù nel sacramento dell’altare è l’incontro con l’Amore del Padre. Da allora, nella messa i battezzati assimilano l’amore di cui sono amati da Dio. Mica male, per darsi coraggio nella prova! L’altare è una mensa santa in cui l’uomo nutre la propria anima con una parola divina.
Una parola-presenza
Quando giungiamo a concepire interiormente la Parola ed essa si forma in noi (nel nostro intelletto e nella nostra volontà), allora veniamo davvero nutriti da un pane assolutamente unico. Forse non abbiamo tutti un immenso bisogno di essere nutriti da parole che fanno bene? Esse sono già nella quotidianità della nostra vita la condizione dell’esistenza umana. Non si può nutrire solamente il corpo, per vivere. A messa è una Parola di Vita eterna quella che andiamo ad assimilare. È per aiutarci a cogliere l’importanza e la necessità di nutrire l’anima che Gesù stesso si è detto “pane disceso dal cielo”. Dio vuole dare il soccorso di una Parola-presenza capace di fortificare le anime. È una realtà essenziale.
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Nei riti della messa, Dio si fa nutrimento per la vita eterna. L’orizzonte delle nostre esistenze si apre a una relazione che conforta e libera dalle angosce. Si può comprendere che non ci sia niente di più essenziale, per i cattolici. Aver partecipato alla messa non è soltanto aver ricevuto fisicamente l’ostia consacrata: è aver incontrato la Parola che salva e la Presenza che rialza. Aver comunicato anche mediante il desiderio è aver lasciato che la Parola si faccia corpo in noi. Riecheggia in noi gioiosa l’eco della Parola del Padre: «Tu sei il mio figlio prediletto!». A cui possiamo rispondere: «Padre, nelle tue mani affido la mia vita». Aver fatto la comunione significa diventare quel che abbiamo ricevuto per poter amare a nostra volta quelli che restano nell’ignoranza dell’amore di cui il Padre li ama in Gesù.
Accogliere il Sommo Sacerdote
Allo stesso modo, l’elevazione del calice significa che siamo davvero alla presenza dell’unico Sommo Sacerdote, che realizza in noi mediante il dono del suo proprio sangue (la sua vita) l’ufficio divino: l’Eucaristia (azione di grazie). La nozione di “Sommo Sacerdote” non ci è famigliare e resta difficile da cogliere senza un minimo di studio, in particolare delle pratiche cultuali al tempio di Gerusalemme. La struttura stessa del Tempio di Gerusalemme descrive l’essenza della natura umana e il modo in cui Dio prepara il suo rivelarsi. Queste nozioni sono ancora poco toccate, nelle catechesi a cui siamo abituati. Il Sommo Sacerdote è colui che nel Tempio di Gerusalemme entra ritualmente nel Sancta Sanctorum per versarvi il sangue che prefigurava il perdono dei peccati.
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Questo spazio del Tempio era interdetto a ogni altra persona, per indicare che esiste un luogo in cui l’uomo non può penetrare. Esiste un luogo inaccessibile all’uomo, e tale è il mistero della sua propria interiorità. Bisogna che per lui vi penetri qualcun altro. Ora, è necessario che qualcuno penetri nell’intimo della nostra coscienza per «purificarla dalle opere morte che la rendono inquieta», come dice l’autore della Lettera agli Ebrei (Eb 9,14). Bisogna dunque che qualcuno sia abilitato a entrarvi. È precisamente questo il ruolo del Sommo Sacerdote, che designa Colui che agisce nella nostra propria natura. In questo tempo di pandemia, la partecipazione alla messa permette di accogliere in sé colui che ci offre la pace con Dio, fra di noi e con noi stessi.
Il segno della nostra interiorità
Il Sommo Sacerdote che una volta officiava nel Tempio è figura di una funzione della natura umana, vale a dire della coscienza, che risponde a Dio e che ne cerca la luce quando l’ordinaria penombra in cui versa si fa tenebra. Una natura umana non è soltanto quel che si è – maschi o femmine – ma anche quel che si fa… per natura. Ora, la peculiarità della natura umana è che risponde all’interlocuzione di Dio, la capacità di corrispondere al suo amore per noi. Gesù, il Sommo Sacerdote, sarà dunque in noi la nostra perfetta risposta all’amore infinito con cui il Padre ci ama.
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Nella nostra natura umana, così com’essa è attualmente e come la conosciamo, tale risposta era come morta, muta, impercettibile. Ecco perché diciamo che la natura stessa è “caduta”: lo vediamo bene quando constatiamo che cosa l’umanità sembra nella notte dell’ignoranza di ciò che essa è chiamata a diventare. E Gesù è venuto a rialzarla, a risvegliarla, insomma è venuto a risuscitare l’uomo con la parola. Egli diventa la parola dell’uomo. Con lui l’uomo potrà dire a Dio “Abbà”, potrà chiamarlo “Padre”. La messa in una chiesa apre dunque un altro orizzonte di vita, non soltanto dopo la morte, ma anche in ciascuno di noi. Del resto una chiesa è il segno visibile della nostra interiorità.
In questi tempi così difficili, l’umanità è ancora ben lungi dall’essere entrata nella coscienza di essere “figlia di Dio”. L’umanità avanza laboriosamente verso la sua forma compiuta mano a mano che torna capace di cantare l’amore di cui Dio la ama. La Chiesa è questa porzione di umanità, anche piccola, formata da tante persone di ogni età attraverso i secoli, nella quale l’umanità si è riconosciuta amata. La Chiesa è l’umanità che si conosce come Dio la conosce. Essa trascina tutta l’umanità a diventare quel che è: la prediletta di Dio.
L’opera di Cristo stesso
Quantunque per parecchi osservatori non cristiani i preti “dicano messa”, bisognerà spiegare che la messa non è opera umana. Il prete compie un rituale di parole e di gesti che lo precede nel tempo e nell’ordine: è un po’ come se suonasse una partitura già scritta perché venga evocato e reso presente l’autore stesso della partitura. Certo, sono riti umani, formalizzati e realizzati da agenti umani: essi significano però l’opera dello stesso Gesù Cristo. In questi riti è l’azione di Dio per noi che lasciamo trasparire. In questi riti è Dio stesso che si unisce a noi. Donde l’importanza delle celebrazioni di messe: sotto forma di rito, rendiamo visibile e accessibile l’amore di Dio per noi e per tutto il mondo. Certamente è compito dei cattolici spiegare bene quel che vivono in chiesa.
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Se le nostre autorità civili non possono condividere la nostra prospettiva, nondimeno tutto il corpo sociale può risultarne rinvigorito: dopotutto, infatti, chi dà alla nostra società la forza di far fronte a tutto quel che ci aspetta da qui a poco? Donde i cittadini potranno attingere l’energia necessaria per edificare un mondo comune e vincere lo spettro della frammentazione? Dove si trova la sorgente della fiducia per raccogliere e rialzare tutta insieme un’umanità falcidiata dal passaggio del virus? Questa prospettiva di un beneficio spirituale merita di essere presa in considerazione nell’ordine delle misure del deconfinamento.
Il dovere della prudenza
Evidentemente, solo una buona valutazione del contesto permetterà di evitare la precipitazione. Chiedere la ripresa delle liturgie nelle chiese non vi dà né diritto né ragione, e non deve portare a sottovalutare quanto le autorità civili stesse avanzino a tentoni verso la fine della quarantena. Fino a dove la domanda di riapertura delle celebrazioni, col carico di pressione sui poteri pubblici, rischia di aggravare gli effetti della nota e diffusa impreparazione? La quarantena non ha adempiuto il suo obiettivo che a metà, poiché al contempo bisognava fare test alla popolazione in vista della Fase 2. Questo il governo non l’ha fatto… per tutte le note ragioni di ritardo e di lentezza amministrativa.
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Se la gestione estemporanea della crisi sanitaria dovesse proseguirsi, questo potrebbe chiamare i cristiani alla prudenza e non a reclamare diritti. La libertà religiosa è un diritto fondamentale. La pratica di tutti i culti è stata sospesa e ciò è stato accettato per spirito di responsabilità: facciamo in modo che la responsabilità possa durare perché non aumenti il rischio di nuove ondate di contagio e rinunciamo alla rincorsa concorrenziale tra le attività commerciali e spirituali proprio perché la messa merita di meglio (abbiamo provato a spiegarlo).
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Verrà l’ora, e ciascuno farà di quest’attesa un tempo per rinnovare la gioia di ricevere la messa come un dono.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]