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Teologia della Liberazione: una storia alla prova del mondo

GUTIERREZ MERINO

©MASSIMILIANO MIGLIORATO-CPP

Gilles Danroc - pubblicato il 07/01/20

Una grande ambizione pastorale mosse i pionieri della teologia della liberazione, nell’America Latina degli anni Sessanta. I teologi che tornavano dall’Europa pensarono la missione della Chiesa come a un esodo dalla schiavitù, esemplato sulla vicenda biblica di Israele. Le teorie mostrarono però i loro limiti, e così nacquero in seno alla Teologia della Liberazione diverse correnti.

Il Sinodo sull’Amazzonia ha manifestato nel modo più chiaro il passaggio da una teologia europea a una teologia mondiale – e ciò ben al di là degli attuali fenomeni di mondializzazione tecnico-economica. È possibile che la civiltà amazzonica, come ogni civiltà nata in condizioni di vita molto dure, sia una di quelle che la cultura europea non ha saputo accogliere veramente.

Il contesto amazzonico

Il sinodo che si è tenuto a Roma nel mese di ottobre, ancora di più di quelli dedicati all’Africa o all’Asia, pga mostrato l’evidenza di contrasti, tanto più che l’evangelizzazione di popoli sparsi in tanto grandi spazi ha riguardato la Chiesa in America e i popoli d’America. Il Nord, avendo quasi totalmente sterminato le popolazioni indigene, ha potuto lasciare ai colonizzatori europei uno spazio di espansione pressoché illimitato, una “via di fuga” nel momento in cui le rivoluzioni della modernità esigevano un nuovo rapporto con lo spazio.


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Stretta nelle sue frontiere come in una “colonizzazione interiore”, l’Europa (con una menzione a parte per la Russia) ha potuto trovare in Africa e nell’America del Nord le risorse e gli spazi necessari alla leadership della sua cultura e della sua civiltà. Ma l’America del Sud non potè essere il nuovo terreno della modernità: malgrado il forte meticciato preconizzato da Cortès, gli spazi inospitali delle Ande e soprattutto della foresta amazzonica hanno favorito una giustapposizione dei popoli che ha impedito la nascita di nazioni coerenti, e ciò tanto più che gli Stati e i governi non hanno lavorato a rispondere alla domanda sociale di tutti nel quadro di uno Stato di diritto.


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Il XX secolo si è dunque segnalato per il predominio della violenza sul diritto: le dittature militari di quasi tutti i paesi del continente non poterono risolvere le tensioni sociali, economiche e culturali. La politica comunemente adottata è consistita in un laisser-faire locale a fronte della scomparsa delle “popolazioni folkloristiche”.


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La Chiesa cattolica cercò di supplire a questo stato di fatto creando le prime istanze di protezione degli Indios, in particolare nel Brasile degli anni ’60. La questione del rispetto delle popolazioni indigene fu allora approcciata sotto i punti di vista della povertà e della violenza. Oggi si privilegia maggiormente la questione delle scelte culturali e quella dei diritti, in particolare del diritto alla terra, poiché quei popoli non hanno fondato un diritto di possesso agricolo (difficilmente conciliabile con le conformazioni andine e amazzoniche).

L’influenza della teologia tedesca

La teologia della liberazione è nata a questo crocicchio storico: si nota già che la prospettiva della povertà è distinta da quella del negoziato nonviolento, anche se le due non cessano d’intersecarsi. Il primo evento in cui venne a raccogliersi tutta questa diversità fu incontestabilmente la seconda conferenza CELAM (Conferenze Episcopali dell’America Latina e dei Caraibi) del 1968, a Medellin, in Colombia, mentre infuriava una dura guerriglia rurale (Farcs). L’influenza dell’Europa prevalse allora sul piano culturale. La maggior parte dei teologi d’America latina si era formata in Europa, soprattutto nelle università tedesche, che curavano le formazioni in teologia e negli studi biblici. I corridoi delle biblioteche laggiù erano pieni di Rahner, Barth, Bultmann, Metz e altri, più che di libri spagnoli o portoghesi.




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Mentre i Paesi del continente al tornante della metà del secolo vedevano moltiplicarsi gravi occasioni che mettevano alla prova le loro istituzioni, le teorie europee sembrarono proporre soluzioni agli inusitati sconvolgimenti delle campagne (che conoscevano un enorme esodo rurale) e delle città (in fase di urbanizzazione accelerata – numerose erano quelle che contavano già da dieci a venti milioni di abitanti). Il mondo rurale perdeva la sua cultura e la sua influenza in un modo sconosciuto in Europa.

Una priorità pastorale

Il primo atto della teologia della liberazione fu d’ordine pastorale. Alla fine degli anni ’60, a Lima, Capitale del Perù, quasi il 90% dei preti diocesani viveva in città, a contatto col 10% della popolazione. Le vaste aree di nuova urbanizzazione non ricevevano se non una visita pastorale per anno. Di fatto, la vita era molto difficile senza il conforto ecclesiale costante.




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Solo pochi missionari e alcune comunità di religiose estremamente motivati abitavano le bidonvilles: i teologi che tornavano dall’Europa pensarono l’avvenire della pastorale sul modello dell’Esodo d’Israele come di un’uscita dalla schiavitù, schiavitù che ha marchiato a ferro e a fuoco tutti quei Paesi. La liberazione della schiavitù nel paese d’Egitto divenne il nuovo paradigma ermeneutico. Lo studio della Bibbia, specialmente dell’Antico Testamento (fino ad allora quasi sconosciuto), motivò nuove legioni di catechisti e di gruppi di lettura fin nei contesti affetti da profondo analfabetismo.




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All’inizio, la corrispondenza letterale della situazione dell’esodo biblico con quello latino-americano bastava a spiegare tutti i contesti. Bisognò allora trovare delle mediazioni per aiutare a superare le enormi disparità culturali. Notiamo tuttavia che l’Amazzonia è rimasta nell’angolo cieco di tutto questo lavoro, mentre Lévi-Strauss pubblicava Tristi Tropici. Per mancanza di altre risorse, si andò a cercare le mediazioni nelle teorie venute da altrove: sfortunatamente, esse non ebbero il tempo di essere assimilate a mezzo di lenta concertazione e di coabitazione fra le culture – cose che richiedono un momento di rispetto e di apprendimento. La brutalità di quelle teorie mise a ferro e fuoco il continente, riattivando una violenza di guerriglie urbane o silvestri di cui alcune non sono ancora terminate.

Le Comunità Ecclesiali di Base

In questo contesto generale, che andrebbe raffinato di Paese in Paese e di decennio in decennio, si organizzò tutto ciò che l’Europa ha raccolto sotto al nome di “teologia della liberazione”. I pionieri trovarono discepoli ed elaborarono la loro riflessione sul campo, specialmente nelle Comunità Ecclesiali di Base (CEB). Esse reagivano al fallimento che le immense parrocchie registravano tanto in contesto rurale quanto nelle bidonvilles (alcune delle quali toccavano il milione di abitanti) e si diffondevano come in una reazione a catena.




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La terza conferenza CELAM, nel 1979, a Puebla (Messico), prolungò la grande esortazione apostolica sull’evangelizzazione dei popoli, Evangelii nuntiandi, del santo Papa Paolo VI. Evangelizzazione di prossimità, comunità ecclesiali raccolte nei quartieri e responsabili della propagazione della carità presso i poveri, operata da gruppi di lettura della Bibbia aperti agli analfabeti: l’incontro di Puebla fu sicuramente il grande tornante della teologia della liberazione, fino all’apprezzamento differenziato delle due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicate nel 1984 e nel 1986. Lo sguardo europeo cambiò: lì dove non si vedeva che un’unica e indistinta teologia della liberazione, si riconobbero diverse correnti, il che imponeva un adeguato discernimento.




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L’analisi di Gilles Danroc proseguirà la settimana prossima qui su Aleteia.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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