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Siamo in tanti a soffrire di attacchi di panico, ma guarire si può

PANIC

Di Ursula Ferrara - Shutterstock

BenEssere - pubblicato il 26/07/19

E' un disturbo che interessa circa l'8% della popolazione e colpisce una fascia di età sempre più bassa; è importante riconoscerlo e scegliere la terapia giusta per liberarsene. L'approccio più efficace ad oggi è una psicoterapia cognitivo-comportamentale.

di Carlotta Zanaboni Dina

Cinque milioni di italiani soffrono di attacchi di panico, un dato preoccupante almeno quanto il disturbo stesso! “Panico” deriva dalla mitologia greca, precisamente dalla figura di Pan, semidio dei pascoli, che veniva rappresentato con busto umano e gambe caprine. Il mito racconta che Pan era solito spaventare le ninfe del bosco, apparendo all’improvviso, e suscitando in loro un vero e proprio terrore paralizzante. Le ninfe che vi si erano imbattute ne rimanevano così colpite da sviluppare un forte timore per il ripetersi dell’incontro. Quindi, tornando a oggi, che cos’è un attacco di panico?




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È uno stato d’intensa paura che raggiunge il suo picco nel giro di 10 minuti, spesso accompagnato dalla preoccupazione di avere altri attacchi e da comportamenti quali l’evitare situazioni simili a quella in cui si è sperimentato il primo episodio. Se ad esempio il panico di una giovane donna si è presentato la prima volta in un centro commerciale in compagnia di un’amica, è probabile che da quel momento in poi quella donna limiterà le sue visite di quel luogo o eviterà del tutto i centri commerciali. È possibile addirittura che la frequentazione dell’amica possa subire dei cambiamenti, a seconda della gravità del caso.

Come si riconosce l’attacco? Sintomi fisici e cognitivi

Durante l’attacco si sperimentano sintomi psicosomatici (come aumento del battito cardiaco, respirazione accelerata o aumento della sudorazione) oppure sintomi cognitivi come paura di morire o di impazzire, senso di sbandamento o di “testa leggera”. È dunque un apparente disturbo fisico, quando invece sottende un disturbo psicologico. Infatti tipicamente il paziente chiama un’ambulanza o si reca al Pronto soccorso; in queste circostanze il disturbo si esaurisce prima dell’incontro con il medico, che è allora in grado di confermare la diagnosi e disincentivare visite di controllo con il presentarsi di successivi attacchi.

Il disturbo da panico: quando ci pensiamo sempre o quasi

È quando gli episodi si fanno più frequenti che si parla di “disturbo di panico”, cioè una condizione d’ansia per cui la persona in seguito a tali stati rimane preoccupata, per almeno un mese, di averne altri e delle conseguenze che potrebbero insorgere. In secondo luogo, è possibile identificare un’alterazione del comportamento sulla base della convinzione che si possano prevenire altri momenti di terrore. La persona allora cercherà di controllare ogni sua azione e di avere a disposizione un accompagnatore, reputando erroneamente che l’altro possa prevenire o alleviare nuovi attacchi. Nei periodi in cui si è affetti dal disturbo, ogni azione fuori dalla routine spaventa e sarà raro vedere il soggetto sbilanciarsi su decisioni importanti o in là nel tempo, come intraprendere viaggi o procedere a cambiamenti lavorativi.

Chi colpisce? Età dell’insorgenza sempre più precoce

Il paziente-tipo è un adulto di età compresa fra i 25 e i 45 anni, più spesso donna e residente in città, con familiarità per disturbi affini o sottoposto a stress. Attualmente il disturbo si sta facendo sempre più precoce: sono gli insegnanti delle scuole superiori coloro che riportano spesso i primi segnali. Scelte comuni da affrontare per chi fosse interessato da questi problemi sono l’eventuale comunicazione della diagnosi ad amici e parenti e, altre volte, ai responsabili della propria scuola o luogo di lavoro. L’obiettivo è evitare di essere etichettati come assenteisti quando invece si è impossibilitati a muoversi da un posto all’altro con facilità. Il problema, infatti, può essere accompagnato dalla paura per gli spazi aperti e affollati o per quelli piccoli, stretti, da cui sembra mancare una veloce via di fuga. La gravità del disturbo porta a distinguere tra chi semplicemente preferisce un mezzo di trasporto a un altro perché suscita meno disagio o non ama le code alla cassa di un negozio e chi si trova a vivere “barricato” in casa, convinto di trovarsi nel luogo sicuro per eccellenza. Rimarrà perplesso il paziente che, con questa convinzione, vivrà d’un tratto un attacco anche in casa. Sono, appunto, convinzioni o comportamenti erronei a mantenere il disturbo.

La psicoterapia si pone dunque l’obiettivo di “smussare” gradatamente questi comportamenti fino ad abbandonarli, sostituendoli con pensieri  realistici e riportando la vita alla normalità (che, ahimè, non prevede la possibilità di controllare completamente ciò che ci accade). La persona vivrà una nuova libertà, quando prima si trovava costretta a rinunciare a impegni piacevoli o a dipendere da un accompagnatore, e sarà in grado di tornare a svolgere le proprie attività con programmi ampi e a lungo termine.




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La soluzione c’è

Come scegliere la psicoterapia? Quella più indicata secondo le evidenze scientifiche internazionali è la cognitivo-comportamentale. Ha durata media, ovvero per un disturbo di panico di media-recente insorgenza si possono mettere in conto circa 8-12 mesi di trattamento a cadenza settimanale. È comunque complicato poterlo prevedere prima di incominciare. Fondamentale è rivolgersi allo specialista non appena si avvertono i sintomi e provare a non rimandare gli appuntamenti. Per quanto riguarda il “fai da te” è bene che il paziente si informi sulla patologia accedendo a fonti serie, grazie all’aiuto del proprio medico di medicina generale. Difatti, non di rado si verifica un rifiuto rispetto al voler conoscere da vicino questo problema; viceversa, si può verificare un eccesso di approfondimento sulla materia, senza che la persona sappia discernere le fonti. Se nel paziente complesso sono necessarie terapie farmacologiche, oltre alla psicoterapia, nei casi molto blandi e iniziati da poche settimane lo psicologo tratta il problema illustrando alla persona il funzionamento dei meccanismi che stanno alla base di questo disagio. Per questo motivo anche la prevenzione, a partire dalle scuole secondarie di primo grado, meriterebbe di essere affrontata apertamente e senza avere inutili “timori”!

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