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L’Europa è ancora cristiana? Oggi ne parlano due filosofi francesi

Chartres

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 07/02/19

Il filosofo Pierre Manent rivendica la “marca cristiana” delle nazioni europee. Egli pensa che i cattolici possano essere il ponte tra i musulmani e la République. Il ricercatore Olivier Roy, invece, esamina la delicata questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità, e avverte dei pericoli che a suo avviso comporta una visione identitaria del cristianesimo. Un utile sostegno alla riflessione dopo la firma del documento di Abu Dhabi.

La firma del Documento sulla “Fratellanza umana per la Pace mondiale e la convivenza comune, che Papa Francesco e Ahmed al-Tayyeb hanno apposto insieme, è un fatto storico la cui portata epocale sarà testata e verificata nei decenni a venire: certamente chi maneggia le categorie storico-politico-dottrinali sottese al testo non può che restare a bocca aperta davanti all’equilibrio audace di quanto contiene.


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È infatti un documento politico ma con inevitabili implicazioni dottrinarie, tra cui spicca – rispetto alla dogmatica islamica – l’affermazione per la quale tutti gli uomini sono fratelli fra loro1, e – rispetto alla fede cattolica – l’implicita ammissione che anche l’Islam rientri in una qualche disposizione della Provvidenza2: ciò che il contraente cattolico “porta a casa” con questo documento è (sulla carta, certo) la condanna scritta, solenne, nero su bianco, di ogni forma di violenza e di coercizione in nome di Dio. In tal senso, il testo firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso è il trionfo diplomatico più luminoso che la (stoltamente) vituperata e incompresa lezione di Ratisbona di Benedetto XVI potesse sperare.




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Naturalmente nessun passaggio di quel testo può prescindere, nella sua ricezione cattolica, da raccomandazioni come quella che Giovanni Paolo II scrisse nell’Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa:

Come per tutto l’impegno della « nuova evangelizzazione », anche in ordine all’annuncio del Vangelo della speranza è necessario che si abbia a instaurare un profondo e intelligente dialogo interreligioso, in particolare con l’Ebraismo e con l’Islam. « Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione »(99). Nell’esercitarsi in questo dialogo non si tratta di lasciarsi catturare da una « mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra” »(100)3.

Altre considerazioni più generali ho già esposto due giorni fa. Ora vorrei invece proporre alcuni passaggi di un’intervista doppia che compare stamattina in Francia sulle pagine di Le Figaro: il capo-servizio politico dialoga con due pensatori – uno credente e uno non credente – entrambi dediti a considerare l’attuale destino culturale e geopolitico dell’Europa, soprattutto in considerazione del crescente tasso di islamizzazione della società europea e di quello – per aspetti diversi uguale e contrario – di secolarizzazione.

A Giovanni Paolo II stava a cuore il dato misterico della presenza islamica nella storia: difatti nella sua Esortazione Apostolica si riprendeva il passaggio della Dichiarazione finale del Sinodo del 1991 per cui il dialogo coi musulmani «deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli»4. Subito dopo però aggiungeva di pugno suo:

È necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano(104).

Viceversa, lo stesso Papa polacco aveva già ricordato in quello stesso testo che le radici dell’Europa – ancorché trovino nell’apporto giudaico-cristiano un contributo di primo rilievo per la formazione della cultura continentale – non possono ridursi esclusivamente a un contributo, quasi che gli altri potessero essere trascurati:

Sono molteplici le radici ideali che hanno contribuito con la loro linfa al riconoscimento del valore della persona e della sua inalienabile dignità, del carattere sacro della vita umana e del ruolo centrale della famiglia, dell’importanza dell’istruzione e della libertà di pensiero, di parola, di religione, come pure alla tutela legale degli individui e dei gruppi, alla promozione della solidarietà e del bene comune, al riconoscimento della dignità del lavoro. Tali radici hanno favorito la sottomissione del potere politico alla legge e al rispetto dei diritti della persona e dei popoli. Occorre qui ricordare lo spirito della Grecia antica e della romanità, gli apporti dei popoli celtici, germanici, slavi, ugro-finnici, della cultura ebraica e del mondo islamico. Tuttavia si deve riconoscere che queste ispirazioni hanno storicamente trovato nella tradizione giudeo-cristiana una forza capace di armonizzarle, di consolidarle e di promuoverle. Si tratta di un fatto che non può essere ignorato; al contrario, nel processo della costruzione della « casa comune europea », occorre riconoscere che questo edificio si deve poggiare anche su valori che trovano nella tradizione cristiana la loro piena epifania. Il prenderne atto torna a vantaggio di tutti5.

Il documento di Abu Dhabi sembra andare (virtualmente) nella direzione di un’inedita appropriazione del portato comune da parte di una cultura per certi versi refrattaria alla contaminazione come è quella islamica: il Grande Imam ha sottoscritto in pratica le affermazioni di Manuele II Paleologo citate da Ratzinger a Ratisbona – la violenza e l’irrazionalità sono contrarie alla natura di Dio. Certo, non c’immaginiamo i “lupi solitari” che si riferiscono idealmente all’Isis nel pianificare e perpetrare le loro stragi folgorati dalla lettura di questo documento, ma intanto a tutte le donne e agli uomini desiderosi di vivere in pace è stato offerto uno strumento non indifferente per riuscirci.

Le radici cristiane

La questione europea, tuttavia, permane posta e bruciante: Pierre Manent e Olivier Roy ci aiutano ad addentrarci nelle pieghe di considerazioni a cui forse i manicheismi funzionali a certa politichetta ci avevano disabituati. Fin dalla prima domanda, ad esempio, Eugénie Bastiéincalza i pensatori sul concetto di “radici cristiane”, chiedendo loro se siano concordi nell’utilizzarlo. Olivier Roy ha preso qualche distanza:

Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della Chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario.

E viene da ricordare che qualcosa del genere aveva detto anche Benedetto XVI nella sua storica allocuzione al Collège des Bernardins:

Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: “quærere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo.

Pierre Manent, invece, ha sfumato il proprio consenso evidenziandone le fecondità:

Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. […] Due grandi sfide hanno mal conciato la matrice cristiana. I totalitarismi hanno voluto distruggere fino alla radice ogni riferimento alla coscienza personale. Oggi l’esacerbazione dei diritti soggettivi la priva di impiego, mentre priva la polis delle ragioni e dei motivi comuni. La proposta cristiana è davanti a noi, per ciascuno di noi come per le comunità politiche nelle quali cerchiamo il bene comune.

“Il grande divorzio”

Proseguendo nella conversazione i tre individuano negli anni ’60 «la grande rottura tra cultura dominante e cultura cristiana», e su questo punto Roy si addentra in una sorprendente esaltazione della forza profetica di Humanæ Vitæ:

Negli anni 1960 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con Humanæ vitæ, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato di “pagana”.

Cristianesimo identitario

Molto fecondo il confronto anche nell’affondo sul “cristianesimo identitario”, prima squadrato da Roy e poi bilanciato da Manent. Il primo infatti ha detto:

Per me, il cristianesimo identitario è quello che non prende che i segni… e non i valori. Faccio l’esempio del ministro-presidente della Baviera, che ha deciso di installare dei crocifissi negli edifici pubblici invocando dei simboli culturali. Cosa a cui l’arcivescovo di Monaco ha risposto: «Non si capisce che cosa sia la croce se non la si vede che come simbolo culturale». Ma la critica non va alla Chiesa, la quale è perfettamente cosciente dei pericoli. Essa riguarda i cristiani che vogliono fare un’alleanza con gli identitari per far avanzare i loro punti di vista su alcuni argomenti. Come ad esempio gli evangelici americani si schierano politicamente con Trump, che non è affatto cristiano, semplicemente perché per loro l’obiettivo è il controllo della Corte suprema, dunque della legge. In Italia al contrario, le comunità cristiane hanno preso posizione contro il governo populista su di un punto: la libertà di esercitare la carità. Non dicono che hanno un programma, non reclamano leggi ma chiedono la libertà di esercitare la carità.

Sembra che la questione nostrana del raddoppio dell’Ires sia stata letta in Francia in un modo così idealizzante da risultare quasi romantico, ma l’immagine esemplifica utilmente il concetto: del resto l’essenza del cristianesimo non consiste più in segni che in valori – essa coincide con la persona del Cristo. Manent da parte sua è intervenuto per osservare dialetticamente:

Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.

Legge senza libertà Vs libertà senza legge

E sempre a Manent, in chiusura, è capitato di dire le parole riassuntive, quelle che possono e debbono interrogare la società e la Chiesa, specialmente quando s’interrogano sull’identità e sul destino dell’Occidente:

Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. Il cristianesimo, nel suo stesso principio – un principio mai dimenticato anche se qualche volta è stato oscurato – fa appello a una libertà sotto la legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.

1.Ma non si dice che essi siano figli di Dio, né compare nel testo la parola “padre”.
2.Ma non si parla di rivelazione, né di ispirazione, né di fede teologale.
3.Ecclesia in Europa 55.
4.Ecclesia in Europa 57.
5.Ecclesia in Europa 19.
6.Pubblicato su Le Figaro online il 6 febbraio 2019 alle 18:24, nonché nell’edizione cartacea di oggi.

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