Nella Giornata contro la violenza sulle donne condividiamo una storia che comincia da uno stupro e prosegue nell’abisso dell’anoressia, della depressione e della bulimia. Ma poi l’abbraccio di Dio trasforma questo dolore in una rinascita.
Nadia Accetti è un vulcano di gioia e mi ha aperto il suo cuore con una fraternità sincera. Al mio timore di essere invadente con le domande ha risposto con la chiarezza di chi dà il nome alle cose, senza tergiversare ma neppure senza indugiare nella tentazione di gonfiare il peso della sua storia. Si definisce una donna dalle forme morbide, ma il suo cuore è leggero … come quello di chi ha fatto i conti con il buio pesto e non ne è rimasto schiacciato; anzi di chi si sente salvato non per merito suo. La violenza e la malattia hanno segnato la sua adolescenza, sono stati un calvario di 10 anni; poi l’incontro con la misura dell’unico Amore che cura, quello di Dio. Oggi Nadia si dedica all’associazione che ha fondato Donna Donna onlus, attraverso cui fa opera di apostolato per mandare un messaggio di bene: “Non è il cibo il nemico da combattere. È fame d’amore, di vita e di verità”.
Cara Nadia, oggi è la Giornata contro la violenza sulle donne; tantissimi hashtag riempiono i social, noi di Aleteia For Her vorremmo dare corpo e spirito a un tema doloroso come quello di chi attraversa l’inferno in terra, nelle mille forme che la violenza ha. La tua voce è un contributo prezioso, ti ringraziamo. Come ti presenteresti ai lettori di Aleteia For Her?
Sono di origini siciliane e oggi sono una donna innamorata della vita, dopo essere passata dal calvario dell’anoressia, della bulimia, della non accettazione del proprio corpo e da uno stupro a 16 anni non denunciato. Grazie alla fede, ho capito che dal dolore si può recuperare la gioia di vivere.
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La ferita più grande, quella su cui il resto del tuo dolore si è innestato, è arrivata quando tu eri davvero molto giovane.
Sì, la violenza sessuale è capitata che ero adolescente, ma quello che mi è stato chiaro da allora è che esistono tante altre forme di violenza. Le parole sono coltelli affilatissimi, che possono uccidere o metterti dentro un serpente che pian piano si impadronisce di te. La depressione, in cui sono sprofondata per 10 anni, è avere una voce dentro che annebbia il cuore, acceca la vista e altera tutti i sensi.
Qual è il nervo che resta più scoperto dal trauma dello stupro?
Non è tanto la violenza fisica, la violazione vera è il “no” che non è stato ascoltato. Quello ti riduce a oggetto, noi sei più un essere pensante. Resta una ferita profonda che va oltre le ferite fisiche che ho avuto. Questo evento ha sgretolato un mio sentire già ferito e fragile, perché anche se al tempo non si parlava ancora di bullismo, io ero già vittima di derisione per le forme del mio corpo, che non è mai stato esile. Oggi quando parlo di questi temi ai giovani insisto nel dire che ognuno di noi è diverso, ognuno ha la sua sensibilità e merita protezione: la stessa parola che a uno non fa effetto può uccidere un altro.
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Eri sola, ti sentivi sola a vivere questo inferno? La famiglia? Gli amici?
Totalmente sola, perché la trappola comincia isolandosi. Scatta il pensiero che nessuno ti può capire, ti nascondi. Peraltro questa è una società in cui più ti mostri fragile più ti senti giudicato e questo contribuisce a lasciare chiusi i mostri dentro. Le maschere che da allora ho indossato erano maschere di sopravvivenza; avevo paura della famosa domanda – che poi mi fu rivolta davvero! – “Come eri vestita?”. La violenza agisce in modo tale da farti sentire sporca, colpevole; e certe domande o giudizi di chi è vicino fanno ancora più male. A fronte di ciò, l’isolamento è l’illusione di poterne uscire senza parlarne, farcela da soli senza aiuto.
In questo periodo lungo di buio, tu eri credente?
Sono sempre stata cattolica, ero molto attiva nella parrocchia; però forse era una fede tiepida. Dopo la violenza mi allontanai dalla Chiesa, fu una conversione al contrario. Fu, in effetti, una ribellione infinita: venni bocciata a scuola, iniziai a vivere la notte, elemosinavo amore nelle forme sbagliate. La mia anima si è separata dal mio corpo che, violato, non era più la mia casa. Ero fragile come una foglia al vento, per grazia di Dio non sono caduta nella droga e nella prostituzione. Da questo ho imparato in seguito a non giudicare, ed è un pilastro dell’opera di apostolato che faccio: non sappiamo mai cosa c’è dietro il volto di una persona e tutti possiamo cadere nelle peggiori miserie.
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La violenza annichilisce l’io, lo convince di essere un nulla. E s’innesca una spirale che precipita sempre più a fondo.
Pensa che quando raccontai quel che mi era accaduto, lo feci con una freddezza assoluta come stessi raccontando la trama di un film. Era un modo per mostrarmi forte: “io ce la faccio”, “io reggo”. Quella freddezza non è sana ed è stato l’inizio di molte forme lente di suicidio. Entrai in depressione, dimagrii tantissimo, smisi di impegnarmi a scuola, mi allontanai dalla parrocchia. La vita cominciò a spostarsi altrove, però fu lento il cambiamento e quindi anche agli occhi esterni della mia famiglia fu difficile coglierlo. Il dimagrimento fu addirittura fonte di complimenti, perché non ero più robusta come prima. Anche se lentamente, però persi 35 kg. Ma non era il cibo il mio nemico, era altro e questo altro si manifestava anche in scelte distruttive, nel vivere tutto in modo esasperato.
Lo chiami suicidio …
Negli ultimi anni questo termine viene usato anche dagli esperti, atei o credenti che siano. È una parola finalmente, e purtroppo, usata per identificare questi disturbi; bisogna dare il nome alle cose. È una forma lenta e subdola di suicidio, la depressione è questo. Il rapporto con il cibo invece diventa una dipendenza e io dall’anoressia sono poi passata all’opposto, alla bulimia.
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A scuola non ero l’unica, anzi la bulimia era molto frequente tra le mie compagne perché fa stare bene e dimagrire; ma io non avevo questo scopo, io avevo bisogno di colmare un vuoto e non conoscevo altro modo. Rimaneva un bisogno insaziabile, solo dopo gli ho dato il nome giusto: era fame d’amore. Non era un capriccio per essere bella.
Qual è stato il punto più basso della parabola, e poi il cambiamento da dove è partito?
Non c’è un giorno in cui cadi e un giorno in cui ti rialzi; i contorni sono sfumati e non meccanici. Sono stati lunghi dieci anni di buio, ma sono stati anche fatti di altro: mi sono fatta aiutare da specialisti, cominciai la mia carriera di pittrice e attrice, lavoravo ottenendo dei successi; ma il punto è che dentro mi sentivo morta.
Ero un fantasma colorato, ho mantenuto a lungo l’illusione di farcela da sola. Comunque il mio fondo fu un tentato suicidio, per fortuna non fu una scelta senza ritorno. Presi delle pasticche dopo una litigata con il mio fidanzato; ero chiusa in macchina e, dopo molti anni, invocai l’aiuto di Dio. Urlai e mi arrabbiai anche. Sentii nel cuore un nome: Farfa. È un’abbazia vicino Roma. Ascoltai quell’intuizione, dicendomi che avevo provato tutto, anche il buddismo, e tanto valeva andare a vedere cos’era. Decisi di fare un ritiro spirituale, senza capire troppo cosa voleva dire.
Cosa accadde a Farfa?
Dovevo starci mezza giornata perché i monaci non avevano la possibilità di ospitarmi in convento; ma è finita che ci sono rimasta 33 giorni. Mi sentii in tutto simile a Marcellino pane e vino. Avevo lo stupore di una bambina, perché per me era tutto nuovo, dalle lodi alle preghiere in latino. Soprattutto ho conosciuto davvero per la prima volta il Sacramento della Confessione e lo associo al «vestire gli ignudi»; quei monaci mi hanno rivestito della dignità che io avevo venduto in tanti modi, ma prima mi era stata rubata. Ho ricominciato ad amare me stessa, ma non ho ricevuto solo la guarigione: prima di tutto quest’esperienza mi ha donato lo sguardo di Dio, come Lui guarda me. Si riesce ad amare se stessi solo se ci si guarda attraverso gli occhi di Dio Creatore, che ci ha voluti esattamente come siamo (anche con i difetti, i complessi che ci ritroviamo). È stata un’esperienza, non un indottrinamento.
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Nessuno dei monaci mi ha obbligato a pregare o andare in chiesa. Da qui poi, il mio desiderio di offrire anche agli altri questo dono gratuito di amore che ho ricevuto. Ho creato questa piccola realtà associativa perché sono stata talmente inondata dalla tenerezza dello sguardo di Dio che non potevo non restituirlo agli altri come mio ringraziamento.
L’io che credeva di sapere tutto e di reggere tutto, e in realtà stava morendo, è sbocciato di nuovo perché guardato da un Altro con un amore di cui non era capace. Sbaglio?
Io ho ricominciato a guardarmi allo specchio con amore, perché Lui mi ha fatta così come sono e perché Lui mi vuole così come sono. Sono creata a sua immagine, ma soprattutto a sua volontà. Questa è la cura, e non la trovi in farmacia o al supermercato. È il suo amore che colma le ferite, perché va oltre i tuoi errori. L’accoglienza che mi ha guarita è stata un’accoglienza umana, quella dei monaci, però lì la dimensione verticale di Dio si è incarnata nella dimensione orizzontale, reale, della mia vita: ho avuto un posto dove dormire e dove mangiare; sono stata trattata come Nadia, come persona, per la prima volta. Ero Nadia, la figlia di Dio, non la malata o l’attrice. Dio mi è venuto incontro attraverso la loro mano, e ha curato l’anima.
Perché tutte le malattie dell’anima sono malattie di senso, bisogno di un bene. Le malattie come la depressione sono più subdole di un cancro, ad esempio: l’impatto con una malattia visibile e invadente stimola una reazione concreta di lotta o di rabbia; le malattie dell’anima s’infiltrano in profondità senza che tu ne abbia consapevolezza. La trappola è proprio che l’io crede di gestire il malessere; io sono sopravvissuta, ripescata a un passo dalla fine. Ma tante persone soccombono.
E che messaggio diamo a chi è la fuori nel buio?
Il primo messaggio è rivolto non tanto a chi sta male ma a chi è vicino a una persona che ha questi disturbi. Bisogna imparare ad avere sguardi d’amore verso l’altro; non è banale: è lo sguardo dell’altro che aiuta colui che soffre ad aprirsi e a lasciarsi guardare. C’è gente che campa fino all’ultimo secondo di vita con questi mostri dentro l’anima e non è a un livello così grave da destare preoccupazione in chi gli sta a fianco. Ma quella non è vita; perché Dio ci vuole liberi e in pienezza, non ci vuole bloccati dalle catene di una qualche dipendenza. La schiavitù a qualsiasi livello resta schiavitù.
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Bisogna parlare a entrambi gli attori di questo percorso di dolore, la persona che è caduta e gli altri che sono attorno a lei. La malattia è un’estrema strategia di sopravvivenza, è diabolica in termini spirituali. Su questo aspetto è stato fonte di grande chiarezza per me l’incontro con un padre spirituale gesuita che mi ha introdotto al percorso ignaziano, che parla dello spirito dell’io, dello spirito del bene e dello spirito del male.
Dedichiamo l’ultimo tassello di questa chiacchierata a raccontare della tua associazione DonnaDonna onlus.
Dopo aver incontrato l’abbraccio così potente di Gesù, io non potevo stare zitta. Dovevo dirlo a tutti. Visto che sono attrice, realizzai un piccolo cortometraggio che si intitolava Donna donna, per te che sei bella come sei. Era dedicato al tema dello specchio, non come vanità ma come accettazione: amare il proprio corpo è amare la vita. Le forme del corpo raccontano questo, non sono solo occasione di oscenità. Volevo promuovere questo messaggio. Oltre al cortometraggio realizzai un calendario, in cui coinvolsi le donne che conoscevo e ad ogni foto era associata una ricetta, per veicolare il messaggio che non è il cibo il nemico da combattere.
Da questo mio piccolo contributo è nato via via altro. Ogni volta che mostravo il cortometraggio c’erano delle scuole che mi chiamavano a parlare; sono stata anche alla Camera dei Deputati. In tutte queste occasioni le persone si aprivano con me, perché non appena si porta uno sguardo diverso la gente lo accoglie con entusiasmo. Ne è affamata. Non dipende dalle mie qualità, anzi io mi aggrappo a Santa Teresina e al suo sentirsi un nulla. È proprio il cuore dell’uomo che è fatto per sentirsi accolto e amato.
Nel tempo questo impegno è diventato un apostolato. È una piccola missione che è diventata la mia vita. Donna Donna onlus è un’associazione che collabora col Vicariato. Andiamo nelle scuole, collaboriamo con la diocesi, abbiamo fatto una mostra itinerante negli ospedali. Facciamo innanzitutto informazione sulle malattie dei disturbi alimentari; tentiamo anche di stimolare chi è vittima di violenza (tutti tipi di violenza, non solo sessuale) a parlarne e a non cadere nella trappola della solitudine o nell’illusione del controllo. La rosa rossa di Santa Teresina è il nostro simbolo; ho avuto la grazia di incontrare il Santo Padre tre anni fa e a lui ho portato le nostre rose. Il mio sogno sarebbe quello di aprire La casa del sorriso, un centro di ascolto. Preghiamo, se Dio vuole.
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Adesso in cosa sei impegnata?
Stiamo promuovendo la mostra fotografica associata al calendario che ha per tema: il corpo della donna è vita, solo l’amore sazia. È una proposta interconfessionale che abbiamo presentato in anteprima ad Assisi. L’inaugurazione ufficiale è oggi, 25 novembre, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne presso il Santuario del Divino Amore. E proprio il Rettore del Santuario, Don Fernando Altieri, ci accompagna con queste parole:
In una giornata così importante di riflessione e sensibilizzazione il Santuario è il luogo ideale per celebrare la grandezza, la bellezza, la dignità e la profondità del cuore di ogni donna, perché qui c’è la Donna per Eccellenza, la Vergine Maria che accoglie tutti, uomini e donne, e mostra come Dio si sia innamorato di una donna! È l’Amore che regge il mondo e qui si può prendere quella forza e motivazione per imparare sempre più il rispetto e per poter condividere, credenti e non credenti, quella forza che prorompe da ogni donna è che dà vita all’uomo e al mondo.
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