La Civiltà Cattolica ha messo ieri in chiaro (e pubblicherà sul numero 4040 della Rivista) la trascrizione dell’incontro del Santo Padre coi confratelli della provincia lituano-lettone avvenuta a Vilnius il 23 settembre scorso. Diversi i temi trattati, tutti raccordati dall’esigenza di riportare ogni cosa a una originale e autentica esperienza di “familiarità col Signore”. Coi debiti accorgimenti, quasi tutti questi spunti possono essere fruttuosamente adattati ad ogni stato di vita.
Il dialogo del Santo Padre con la provincia lituano-lettone della Compagnia di Gesù, avvenuto nella Sala della Nunziatura di Vilnius il 23 settembre scorso, è prezioso: lodevole l’iniziativa de La Civiltà Cattolica di divulgarne i contenuti non solo nel prossimo numero (4040), ma anche in chiaro sul sito.
Vari i temi toccati, e a lettura ultimata ci si può legittimamente porre la domanda sulla perspicuità della scelta redazionale di titolare con la citazione “Credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa”. Naturalmente bisognava scegliere un approccio, fra i vari possibili, ma senza contesto prossimo quell’affermazione rischia di essere presa (non sarebbe la prima volta, purtroppo) come generico plauso a isterismi eversivi. Nulla di più lontano dalle dichiarazioni di Papa Francesco, che testualmente ha affermato:
Quello che oggi bisogna fare è accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Io credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. Ho detto tante volte che una perversione della Chiesa oggi è il clericalismo. Ma 50 anni fa lo aveva detto chiaramente il Concilio Vaticano II: la Chiesa è il popolo di Dio. Leggete il numero 12 della Lumen gentium. Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono 100 anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa.
Il cambiamento che Papa Francesco ritiene sia richiesto da Dio alla Chiesa coincide dunque essenzialmente con un rinnovamento spirituale, e a differenza di “innovazione” “rinnovamento” non è una parola eversiva, perché invita a ripristinare una novità che è stata già data, semel pro semper. Il rinnovamento significa progresso, sì, ma nel cammino da discepolo di Gesù e non nell’agenda del mondo. E il cammino del discepolato esclude al contempo e con pari forza sia le pulsioni egotiche sia le pressioni rispondenti agli interessi di piccoli o grandi gruppi: gli interessi di Dio sussistono nella Chiesa in quanto «sacramento di salvezza di tutti gli uomini», dunque il rinnovamento e il discepolato possono darsi esclusivamente come momenti di vita ecclesiale. Il Santo Padre l’ha spiegato mirabilmente rispondendo alla domanda di un giovane gesuita:
Santo Padre, lei ha detto che dobbiamo scendere per strada, dove c’è la gente. Ha detto che la Chiesa è un ospedale da campo. Ha detto che non dobbiamo avere paura del caos. E il mondo oggi sembra nel caos. Come possiamo affrontarlo senza avere paura?
Ed ecco dunque la risposta:
Guarda, se tu nel caos ci entri da solo, è meglio che tu abbia paura, perché finirai male. Ma se tu entri con la grazia del colloquio spirituale con il tuo Provinciale, con la tua comunità, se lo fai come missione e con il Signore, allora quella paura che provi viene dal cattivo spirito. Hai ragione, oggi c’è caos. È la cattedra di fuoco e fumo di cui sant’Ignazio parla nella meditazione delle due bandiere. Ma con il Signore non c’è da aver paura. Con il Signore, però, non con i propri capricci! Dio è forte, Dio è più forte. Lo dicevo prima, ricordando Hugo Rahner: bisogna avere la capacità di entrare nei due campi, anche in quello del nemico dell’uomo, nel caos. Ne approfitto perché mi dai lo spunto per parlare di una cosa che avevo in mente di dirvi oggi. Vi dicevo di entrare nel caos o nelle situazioni difficili non da soli, ma con il Signore, e nel dialogo con il superiore e con la comunità. E qui viene il tema del «rendiconto di coscienza». Non abbiate paura! Il Provinciale è un fratello. Forse domani toccherà a lui fare il rendiconto di coscienza a te. La grazia in questo rendiconto è che il superiore e il suddito sono due fratelli che si comunicano per servire meglio il Signore. Non è una sessione di domande e risposte. Il Provinciale deve coinvolgersi nella vita dell’altro che ascolta. E pure il gesuita che fa il rendiconto deve coinvolgersi nella vita del suo superiore. È un dialogo di interazione nel quale si sciolgono tutti i conflitti con i superiori. E la Compagnia diventa corpo per affrontare il caos. Sempre avanti in comunità e fratellanza.
Così il Santo Padre ricentra anche la rievocazione della frase programmatica di Giovanni Paolo II – “non abbiate paura” è diventato de facto il vero motto del pontificato – e le restituisce quel senso originario che in certa retorica (anche ecclesiastica) si andava pericolosamente perdendo: se nel mondo ci vai da solo, abbi paura perché finirai male. “Non abbiate paura” vale sempre e solo a condizione dell’apodosi espressa dallo stesso pontefice polacco: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo». Il che significava, concretamente, che non bisognava temere il sistema comunista, che prometteva di durare in eterno ma si sarebbe rivelato solo una parentesi della storia dell’Est. Anche l’Ovest ha un muro e occorre non dimenticarlo: anche Wall Street è invitata a non avere paura di “aprire, anzi spalancare le porte a Cristo”.
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Il riferimento di Francesco ricorda che il medesimo discorso vale tanto per «i sistemi economici come quelli politici» quanto per le incertezze delle nostre esistenze individuali: è con il Signore che non c’è da aver paura. «Con il Signore, però, non con i propri capricci!». E con il Signore – spiega il Papa – ci si può avventurare, anzi si deve farlo, perfino nel campo del Nemico. Non da suoi schiavi, però, ma da servi di Dio che vi fanno incursioni per liberare «quanti stanno sotto il potere del diavolo» (At 10, 28). Nessuno potrebbe mai confondere, per essere chiari, un don Oreste Benzi che va col furgoncino a portare via le prostitute dalla strada con un politico che le togliesse dalla strada per sfruttarle in una struttura dello Stato. La differenza è questa, Francesco l’ha spiegata cristallinamente:
Dio si è fatto condiscendenza, vicino nella carne. Qualsiasi pastorale che dimentica questo è destinata al fallimento. Gesù si è fatto vicino agli emarginati, ai morti – che poi risuscitava –, ai peccatori, ai pubblicani, alle prostitute… I puri, i professionisti della religione si scandalizzavano. Se un prete caccia via in malo modo un penitente, il vescovo deve interrogarsi se sia il caso di togliergli la licenza di confessare, perché il confessore deve esprimere paternità. Il confessore è lì per abbracciare il figlio prodigo, il figlio perduto. E sempre, sempre, se tu sei padre, sempre trovi il modo per perdonare. Un cardinale di Curia, che confessa regolarmente in una chiesa di Roma, mi ha detto una volta: «Non capisco come fanno alcuni confessori a mandar via la gente. Io cerco sempre di fare in modo che il penitente possa sentirsi a suo agio, possa parlare bene, non gli chiedo mai cose strane. E se non posso dare l’assoluzione e lui mi scongiura di perdonarlo, mi dica: quale padre non perdona un figlio?». Questa testimonianza mi ha colpito. È chiaro che non sto dicendo che si deve essere «di manica larga». È vero che una cosa è la misericordia e altra cosa è la manica larga. Bisogna essere padri, padri misericordiosi.
Familiarità col Signore e dimestichezza con la sua Chiesa (familiarità e dimestichezza sono due parole del medesimo spettro semantico: quello della casa): ecco le vie per cui ci si può permettere il lusso soprannaturale di non temere nel mondo.
Guarda come son tranquillo io,
anche se attraverso il bosco
con l’aiuto del buon Dio –
stando sempre attenti al lupo…
living together.
L’aiuto del buon Dio e la vita comune, come anche Lucio Dalla intuiva. Per questo Francesco raccomanda la sapiente pratica del “rendiconto di coscienza”: aprire la coscienza con semplicità e fraternità al proprio superiore, che senza delirî di onnipotenza ci affiancherà nel discernimento. Mai si può concepire il discernimento come una pratica individuale: sarebbe solo un altro nome dell’arbitrio. Perciò coi debiti accorgimenti, si farà bene ad adattare questo sapido consiglio a ogni stato di vita: i mariti e le mogli faranno bene a praticare il rendiconto di coscienza col coniuge, ricordandosi da un lato che fidandosi dell’altro si affidano realmente a Dio, e dall’altro che fin dal principio l’uomo è chiamato ad essere “custode di suo fratello”, e questo tanto più nel vincolo matrimoniale.
Davvero queste dinamiche sono così semplici e universali che non ha senso frapporre stucchevoli steccati: i gesuiti dei Paesi baltici confidavano a Francesco che perfino i luterani – fratelli da cui divergenze anche serie e sostanziali ci tengono lontani – trovano beneficio nell’esperienza degli Esercizi: «L’arcivescovo luterano di Riga – ha detto al Papa mons. Tamkevičius – ha fatto il mese ignaziano per intero in Inghilterra e poi ha rifatto gli Esercizi in Spagna, a Manresa. Per lui gli Esercizi sono molto importanti». E il Pontefice di rimando: «Il cardinal Arborelius di Stoccolma dà ritiri ai pastori luterani. Ricordiamoci di questo: il dialogo è per sommare, non per sottrarre».
No al dialogo “al ribasso”, dunque, ma mettere insieme le ricchezze e i punti di forza da fratelli, ancorché separati, va più che bene.
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Regolato da un sano discernimento degli spiriti deve essere anche il rapporto col lavoro, perché quando ci si ritrova in 34 a fare il lavoro di più di mille il minimo è che ci si faccia prendere dalla smania di fare tutto. Una difficoltà che i confratelli gesuiti confidavano al Papa, il quale di rimando elencava loro un “tetralogo” di orientamento:
Il cattivo spirito cerca di portarci a una specie di «complesso di non lavorare abbastanza». A volte ci sentiamo in colpa solamente perché con prudenza ci prendiamo un po’ cura della nostra salute! Questa è una tentazione. I gesuiti devono lavorare senza perdere la pace, senza perdere l’incontro con il Signore e senza perdere il riposo. Questo è importante. La prima legge del lavoro per un gesuita è innanzitutto fare quello che altri non fanno o che non possono fare. La seconda è che il lavoro non allontani dalla familiarità con il Signore. La terza è che non mi tolga la pace. La quarta è non fare quello che posso delegare ad altri. Questo è ciò che mi viene in mente per rispondere alla tua preoccupazione, ma fai bene a essere preoccupato per queste cose.
Quattro accorgimenti che possono bonificare anche le situazioni viziose in casa e sul lavoro: «Bisogna chiedere [naturalmente a Dio, come raccomanda Ignazio negli Esercizi N.d.R.] di essere introdotti sia alle intenzioni del Signore sia a quelle del nemico della natura umana e ai suoi inganni. Anche nei momenti brutti il gesuita deve sapere come camminare».
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Importante è anche il passaggio sul senso della Storia, ove il discernimento permette di riconoscere le macrostrutture del Nemico prima che esse divengano mero bersaglio di (spesso oziosa) retorica politica:
La stessa cosa accade proprio oggi in tante situazioni sociopolitiche del mondo. Sto pensando a un filmato che testimonia la situazione di alcune carceri del nord Africa costruite dai trafficanti di persone. Quando i governi rispediscono indietro chi era riuscito a mettersi in salvo, i trafficanti li mettono in quelle carceri, dove si praticano le torture più orribili. Per questo è importante che lei parli della sua esperienza di prigionia. La gente deve sapere che significa. È bene che ne parli. Noi oggi ci strappiamo le vesti per quello che hanno fatto i comunisti, i nazisti e i fascisti… ma oggi? Non accade anche oggi? Certo, lo si fa con guanti bianchi e di seta! Quando Ignazio ci propone la terza settimana, c’è una cosa che sembra troppo volontarista, ma non lo è: è solamente molto umana. Lo sapete, sant’Ignazio ci chiede di sforzarci di provare dolore, di piangere per Cristo che soffre la passione. Questo non è pelagianesimo, no! Ignazio conosceva la resistenza che noi abbiamo a mettere dentro il nostro cuore i dolori degli altri. Per questo ci chiede di sforzarci. Per questo è importante meditare la passione del Signore. Devo farvi una confidenza. Io sempre porto con me questa Via Crucis tascabile, per ricordare la passione del Signore [e la tira fuori dalla tasca]. È la passione di tanta gente che oggi è carcerata, torturata. Mi fa bene meditare la Via Crucis.
Il rischio di «costruire le tombe ai profeti uccisi dai propri padri» (cf. Lc 11, 47) è sempre in agguato: si versano lacrime di coccodrillo su crimini del passato mentre si fomentano quelli del presente, i quali a loro volta alimenteranno la sorgente delle lacrime ipocrite. “Aprire le porte a Cristo” è anche questo, altrimenti la Via Crucis – opportunamente lo ricorda il Papa – diventa un esercizio di estetica passatista e non di pietà.
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Infine è notevole un passaggio sui vecchi, nel quale il Santo Padre è tornato a insistere su un tema che ormai sappiamo essergli caro:
Questo è molto importante: l’incontro tra giovani e vecchi. Perché sono i nonni a trasmettere ai nipoti la memoria di un popolo, dell’esperienza e della religione. I genitori sono a metà cammino, danno qualcosa, ma le radici sono nei vecchi. E i giovani devono preoccuparsi di ascoltare i vecchi, come lei si preoccupa di ascoltare i giovani.
Curiosità, proprio il giorno prima che La Civiltà Cattolica pubblicasse il testo di questo colloquio, e dunque l’altro ieri, don Armando Matteo ha scritto su Settimana News una considerazione che in questo passaggio avrebbe trovato una risposta (sulla quale penso si possa discutere). E invece per gli scherzi dei tempi redazionali essa ci è conservata:
Perché papa Francesco continua a sollecitare un’alleanza unicamente tra i giovani e i vecchi? Perché continua a non citare gli adulti? L’idea che mi sono fatto è che ci dia per spacciati, che, a suo avviso, per noi adulti non ci sia più alcuna possibilità di redenzione e che sia il caso di lasciarci proprio da parte, quando c’è da rimettere in moto questo mondo e questa Chiesa.
Non so se condividere la “disperazione” di don Matteo, ma di certo l’anomalia dell’insistenza di Papa Bergoglio sull’alleanza vecchi-giovani, specialmente nella declinazione “nonni-nipoti”, salta all’occhio (e questo tanto più quanto più viene messa ai margini quella “padri-figli”, di cui piuttosto parlano le Scritture – Mal 3,23-24; cf. Sir 48, 10).
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È purtroppo vero che nel preciso momento storico in cui viviamo esiste una grave ed endemica penuria di paternità (e di maternità): ciò si deve probabilmente a una deficienza strutturale degli adulti del nostro tempo – “deficienza” in senso etimologico, e precisamente sui piani psico-affettivo, relazionale e socio-culturale. Fatalmente il pensiero va ai sessantottini, a «quella generazione prima nella storia dell’umanità a decidere deliberatamente di non trasmettere alcunché ai figli» (F.-X. Bellamy). Così sembra essere anche per Armando Matteo, che menziona in particolare «le generazioni del dopoguerra: tutti quegli uomini e quelle donne nati tra il 1946 e il 1980». C’è senz’altro del vero, in questo, ma proprio la (dotta e felice) citazione di Hannah Arendt da lui addotta spinge a non accettare questa risposta come definitiva:
L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi.
Hannah Arendt, La crisi dell’istruzione in Tra passato e futuro, Firenze 1970, 213.
Il testo originale di questa silloge è pubblicato per la prima volta nel 1961, quando nessuno che fosse nato dopo la seconda guerra mondiale era adulto. Eppure l’ipotesi che l’eventualità di essere anagraficamente “grandi” senza essere esistenzialmente “adulti” poteva ben stare in piedi.
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È probabilmente vero, molti nonni dovranno supplire alla latitanza di tanti genitori – e in questo la loro terza età sarà con ciò ritemprata di dolcezza, dopo le fatiche di un’età matura in cui per vari motivi non sono riusciti a trasmettere e a coltivare la fede nei nipoti. Così soltanto si rinnovano le età dello stanco mondo, fin dai tempi di Virgilio: quando nei cuori e nella società
già torna la Vergine, tornano i regni del Padre,
già scende dall’alto cielo una nuova Progenie.Virgilio, Bucoliche, IV egloga, 6-7