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«Lei, signor Montanelli, violentò una bambina di 12 anni?» chiese Elvira Banotti

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Annalisa Teggi - pubblicato il 16/08/18
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Un confronto televisivo intenso in cui la femminista più tosta incastrò il giornalista più scaltro sulla sua condotta giovanile in Africa

Al candido entusiasmo maschile con cui Indro Montanelli raccontava in TV l’esperienza giovanile di soldato in Abissinia si contrappose, ad un certo punto, la chiara voce femminile di una bellissima ragazza che gli chiese: «Quindi lei ha violentato una bambina di 12 anni?».
Lei era una giovane Elvira Banotti, una vita di battaglie femministe ancora tutta davanti e da vivere, e il programma in cui accadde il confronto era L’ora della verità di Gianni Bisiach, siamo nel 1972. L’irruenza della Banotti di fronte al guru del giornalismo lasciò basiti gli altri ospiti nello studio e il conduttore stesso, poche battute ancora tra i due e la trasmissione s’interruppe.


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Un’avventura da colonialista

Dieci anni più tardi, senza interlocutori a spiazzarlo con la disarmante verità, Indro Montanelli raccontò tutta la sua versione dell’avventura in Africa alla telecamera di Enzo Biagi. Ripercorriamo i fatti narrati.
Nel 1935 l’Italia invase l’Etiopia. Montanelli lavorava già come giornalista per l’americana United Press, si propose come inviato in zona di guerra, ma l’agenzia non acconsentì perché essendo italiano non avrebbe potuto essere obiettivo nelle sue corrispondenze, così lasciò il giornale e si arruolò volontario.
A soli 23 anni fu messo a capo di un esercito indigeno di 100 uomini, senza conoscere nulla dell’Africa e lui stesso riconosce l’errore delle forza armate in questo. Ma furono due anni bellissimi, dice.

Ebbi due anni di vita all’aria aperta, bella, di avventura e in cui credetti di essere un personaggio di Kipling. (da Cento anni)

Quando Enzo Biagi introduce l’argomento della giovane moglie che Montanelli ebbe in Africa, il fondatore de Il Giornale risponde con allegria leggera:

Regolarmente sposata, in quanto regolarmente comprata dal padre. Aveva 12 anni, ma non mi prendere per un bruto: a 12 anni quelle lì sono già donne. […] Avevo bisogno di una donna a quell’età. Me la comprò il mio sottufficiale insieme a un cavallo e un fucile, in tutto 500 lire. […]. Lei era un animalino docile; ogni 15 giorni mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri. (Ibid.)

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Quella lì, comprata, animalino docile. Sono parole effettivamente pesanti e che non credo andrebbero in onda in nessuna trasmissione di oggi. Non che sia cambiata del tutto la mentalità, ma senz’altro la forma di esprimere certi pensieri è percepita come intollerabile.



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Nel giugno 2020 le proteste per la morte dell’afroamericano George Floyd di Minneapolis hanno oltrepassato i confini degli Stati Uniti e sono arrivate anche in Italia, in forme pacifiche ma non solo. A Milano la statua di Indro Montanelli nell’omonimo parco è stata imbrattata di vernice rossa e ne è stata chiesta la rimozione. Ai piedi del monumento è comparsa la scritta «razzista stupratore» con riferimento ai fatti noti sulla condotta coloniale di Montanelli, che «sposò» una bambina africana di 12 anni negli anni ’30. Portavoce di questa accusa nei confronti del celebre giornalista è stato il movimento dei Sentinelli che ora chiede, anziché rimuovere la statua, di aggiungere l’effigie della consorte bambina accanto a quella di Montanelli. L’episodio ha suscitato forti reazioni in tutta l’opinione pubblica, da chi ha colto la palla al balzo per rincarare le accuse di razzismo e fascismo contro Montanelli, a chi invece ha difeso a spada tratta l’ex-direttore del Giornale che già fu vittima di un attentato da vivo. Il 2 giugno 1977 Montanelli fu colpito dalla colonna milanese delle Brigate Rosse, i terroristi gli spararono otto colpi, secondo la pratica della gambizzazione, e lo lasciarono gravemente ferito.

A fronte di questo panorama che attraversa la storia a tinte rosse, è evidente che l’orizzonte cupo della violenza ottenebra la vista e il giudizio, corrode cuore e spirito, soffoca ogni speranza. Non si rende giustizia a un male subito o perpetrato ad altri uccidendo un uomo colpevole; buttando giù una statua non si cambia di una virgola la condizione di chi è tutt’ora abusato.

Raccontare con onestà il male commesso da altri è sempre fare i conti anche col proprio male, non esistono anime perfettamente candide. Siamo tutti segnati dalla tentazione di tradire, violare, ferire perché il male è dentro ogni uomo: ogni storia comincia da questo dato inalienabile. La sfida vera è stare dentro le contraddizioni umane senza la brama aggressiva di estirpare il male dal mondo. A noi spetta riconoscerlo senza pregiudizi e denunciarlo; poi ci spetta l’ardire di scommettere di più sui semi di bene da coltivare. L’unica vera forza in grado di contrastare il male è quella che gli oppone un impegno più tenace nell’esercizio delle virtù e che ci tiene lontani dalla tentazione di scendere nella voragine senza fine di vendette e contro vendette.

Elvira la tosta

E qui entra in campo il femminismo ed Elvira Banotti, detta “la tosta”. Prima ancora dei titoli che le spettano, basterebbe citare tre episodi che la riguardano per inquadrare il suo estremismo. Nel 1971 fondò il Tribunale dell’8 marzo per processare la Chiesa cattolica perché, a suo dire, “ha ideato la teologia dello stupro”: venne condannata per vilipendio, poi assolta.

Sempre negli anni ’70 fu protagonista di un gesto clamoroso in un piccolo paese dell’entroterra siciliano, dove una ragazza era stata stuprata da un gruppo di compaesani: dopo aver fatto visita alla famiglia della ragazza attraversò all’ora di punta la via principale del paese ed entrò nel negozio del barbiere, dove si fece lavare e acconciare i capelli dall’uomo di servizio accanto ai clienti con la coppola. Nel 2013 fu largamente contestata per aver attaccato l’ideologia gay:

E’ il clima sbrindellato delle ideologie che consente a Gay e Lesbiche di investirci tutti con l’accusa di “omofobia” mentre sono attentissimi a oscurare le proprie pregiudizievoli cicatrici emotive con le quali aggiornano il sedimentato, morboso allontanamento tra uomini e donne: cioè l’erotismo e la preziosità dell’Accoppiamento. Sono depositaria di alcune loro narrazioni (autentiche). Raccontano sofferenze causate da un immaginario atrofizzato, evidenziano “scissioni” emotive derivate da rapporti alterati dalla misoginia, disastri che Gay e Lesbiche (più corretto definirli Ginofobi e Omofobe) riescono abilmente a oscurare. Traumi che per la loro intensità dovrebbero al contrario preoccuparci notevolmente! Più di quanto lo richiedano gli atteggiamenti deludenti di un uomo (forse) eccessivamente… espansivo. (da Il Foglio)

Siamo abituati a classificare le persone in base al nostro accordo o disaccordo con le posizioni che prendono, Elvira Banotti è stata una figura inafferrabile in questo senso. E forse c’insegna che il criterio giusto di ogni confronto dovrebbe essere quello di considerare il valore delle argomentazioni messe sul tavolo, e non la casella in cui abbiamo già ingabbiato chi la pronuncia.



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Una domanda giusta, una risposta fragile

Nel breve dibattito che ci fu tra lei e Montanelli nel 1972 ci si spalanca davanti agli occhi tutta la fragilità di chi usa la ragione a compartimenti stagni. Montanelli racconta con leggerezza e boria le sue “nozze” africane, la Banotti chiede: “In Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di 12 anni, quali differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina africana?”. La risposta di Montanelli: “In Abissinia funziona così”.

Ecco, il re è nudo e qui casca l’asino. Cioè: la capacità critica di una persona (peraltro intelligentissima) dimostra, per comodità personale, di nascondersi dietro un paravento.
Il castello di sabbia cade rovinosamente. Il colonialismo, di questo si parla nel caso dell’Italia in Africa, non dovrebbe essere, da ipotesi, l’introduzione dei principi civili, umani, sociali del colonialista nella terra conquistata? Stranamente in materia sessuale, in questo caso il colonialista diventa prono alle abitudini del luogo, ben sapendo che quel matrimonio comprato non avrà nessuna validità nella sua terra natia, l’Italia, in quando illegale per la minore età della sposa. Si trattava del cosiddetto madamato, condannato pure dalle leggi razziali di Mussolini.

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Il benefattore italiano che a 23 anni «ha bisogno di una donna», anziché portare nel continente africano la voce morale del suo paese in materia di dignità umana e femminile, si strofina le mani e accoglie le tradizioni del luogo che gli porgono su un vassoio d’argento una bambina di 12 anni, «animalino docile».

Per un uomo come Montanelli, definitosi «condannato al giornalismo», è una momentanea fuga nel mondo della menzogna: la ragione che analizza con lucidità i dati del reale sa di essersi nascosta dietro il comodo paravento di una bugia. Se il «in Abissinia funziona così» viene applicato al caso delle nozze, perché in mille altri contesti il colonialista ha poi frantumato la tradizione locale per imporre i suoi dettami?

La posizione del missionario

Qui una voragine separa il colonialista dal missionario. E basta a dimostrarlo proprio quella posizione sessuale che noi chiamiamo del «missionario». Una donna va guardata in faccia. Un essere umano non è un oggetto, ma parte di una relazione.

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Questo è lo sguardo sacrale di bene che i cattolici hanno portato ai confini del mondo, anche in Africa. Ed è una misura umana che, dal sesso, si allarga a ogni briciolo di convivenza civile. Il tornaconto, il piacere, l’uso e consumo, l’abuso e la violenza possono essere le fondamenta di un paese. Ma che tipo di città nuova si costruisce mettendo al centro una visione che ama il destino buono di ciascuno come pilastro del bene comune?


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Questo vale in ogni circostanza della vita. Montanelli sono io, molte volte. Posso scegliere di non guardare in faccia chi ho di fronte e farne l’oggetto del mio arbitrio utilitarista; il punto di arrivo sarà un di meno anche per me, cioè un momentanea soddisfazione e una prolungata profonda insoddisfazione. Tutto cambia quando l’amore è «guardare in faccia» l’altra persona: non possono aggirare la domanda “Chi sei?”.

Non posso far finta che dietro quegli occhi ci sia un’anima, con tutta la grande dignità che ne consegue e i desideri di pienezza a cui aspira. Ma è in gioco pure la mia dignità. Se lei è un «animalino docile» pure io – che sto con lei – sono «animale», predatore. È un autoritratto involontario quello che scappò di bocca all’esimio Indro; e, per dovere di cronaca, in fondo alla sua coscienza lui lo sapeva bene.