La "singletudine" come scelta di vita felice e ostentata per le donne del nostro tempo è, secondo Kate Bolick, un'istanza decisiva che deve imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica
Cercavo libri, novità, cose particolari. Mi imbatto in un articolo on line di un settimanale femminile, D di Repubblica. Caso editoriale. Singletudine felice. Zitella e contenta. Spinster, si dice sulla East Coast. Kate Bolick è l’autrice di Zitelle. Il bello di vivere per conto proprio (Sonzogno), pubblicato nel 2016 in Italia. Tutto un dire quanto questa tenace donna di una certa età (quarantaquattro anni significa essere nel mezzo del cammin di questa nostra unica vita) sia contenta di starsene per i fatti suoi a farsi gli affari propri.
Dice che compito suo sia non solo vivere felice da zitella ma anche convincere il mondo che tutto questo sia accettabile e, di più, desiderabile.
Glielo diciamo?
Il mondo lo sa già, è già straconvinto. Questa signora non lontanissima da un appuntamento biologico che se ne frega dei trend – la menopausa, si spende tutta a cercare di vivere bene la propria vita da single; ad essere indipendente e libera, a non dover rispondere a nessuno; a fare sesso piacevole su base semi-regolare.
Va bene, lo faccia. Faccia tutto questo. In fondo, seppure non così netta come alle volte speriamo, esiste una separazione tra vita privata e sfera pubblica. E allora perché si sta prodigando per farlo sapere a tutto il globo terracqueo? (Certo i libri venduti hanno il bel vantaggio di far ricevere delle somme in denaro, dopo un po’, a venderne davvero tanti).
Zitella è un altro bastione da abbattere. Poche sillabe, raramente pronunciate ormai e a scopo folkloristico; eppure, ci dicono da N. Y., c’è da buttarle giù. Meglio single piuttosto che costrette in un matrimonio mediocre, dice nell’intervista. Difficile non trovarsi d’accordo. Ancor più riconoscere originalità al principio enunciato. Assomiglia a quella della famosa dottoressa, Grazia A., che impazza sui social. “Meglio avere poca febbre che un febbrone da cavallo”. Ogni secolo deve avere i suoi Lapalisse, a quanto pare. Dice che è meglio sole che male accompagnate.
Che è meglio dormire tutta la notte che svegliarsi spesso. Che è bello collezionare orgasmi anziché no. Che i figli piccoli poi ti toccherebbe seguirli e pure andare ai loro saggi di danza e tutta questa attività può essere debilitante. Che è difficile pagare le bollette da sole, ma questo non deve tentarci. Che si ha più tempo per stare con gli amici (single a loro volta perché altrimenti il gioco non regge).
Che possiamo dirle noi? Che fa bene a cercare di essere felice, ma occorre si intenda bene sui termini con sè stessa, indiscussa protagonista della storia, sempre in scena. Cerca la felicità o l’appagamento? Il compimento o lo stoccaggio di esperienze di qualità?
Mettere al centro sé stessi e i propri-desideri-inclinazioni-gusti-suggestioni, è libertà o non è invece glitterata gabbia del nostro ego? Amarsi tanto tanto tanto, dov’é che porta?
È stata a lungo fidanzata, ci informa e poi tanti anni single. Ora si è stancata quindi ha di nuovo un fidanzato. Sempre sola, a ben guardare, con l’ingombro di bisogni famelici e la evanescente presenza di esterni soddisfattori. Cosa darà all’altro se tutte le sue energie sono orientate a intercettare e trascrivere interminabili wish list? Certo alle volte si riducono a un paio di stivali e al suo cappotto caldo. E tutto questo mi basta, dice, con icastica superficialità.
Vita sociale intensa, racconta. Ma certo! Sarà davvero così. Ma perché doverla contrapporre e con un certo sprezzo al presunto abbrutimento della vita matrimoniale? Il problema vero è pensare che scopo della vita stessa sia l’appagamento, opzione vecchia quasi quanto il mondo.
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La vita gestita come una partita a squash col muro dell’egotismo più duro, non è forse il grande inganno di ora? Non dimentichiamo forse che la vita è denaro grosso, sonante e che va speso?
Tutti concentrati a procurarci benessere, anche per l’anima, ovvio, ci scordiamo di ardere, consumandoci; di invecchiare e offrirci. Saremmo fatti per guardare altro (e Altro), anche nell’intimo, decentrandoci.