Alejandro Solalinde e la difesa dei migranti in Messico
di Cristina Sánchez Aguilar
Il messicano Alejandro Solalinde era “un sacerdote borghese”, come si definisce egli stesso. In gioventù membro dell’organizzazione El Yunque, voleva diventare gesuita ma i superiori lo dissuasero perché era “troppo progressista”. Grazie ai Carmelitani ha capito che El Yunque era “un’organizzazione estremista” e ne ha preso le distanze. Ma “mi piaceva mangiare bene, amavo i bei vestiti…”

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Ha impiegato molto tempo per trovare il suo posto nel mondo, “con i migranti”. A 60 anni ha lasciato tutto per fondare a Ixtepec l’ostello Hermanos en el camino (Fratelli nel cammino), a 30 metri dalla ferrovia chiamata La Bestia. “Ora l’unico obiettivo importante per me è la croce greca che porto al collo”.
Nominato per il Premio Nobel della Pace, hanno cercato di ucciderlo in varie occasioni. Una notte un sicario gli ha puntato un’arma alla testa, ma un ordine inaspettato ha fatto sì che non lo assassinasse. Un’altra notte sono entrati nell’ostello il sindaco di Ixtepec e il suo seguito, armati di bidoni di benzina e disposti a dar fuoco a tutto. “Mi sono messo con le braccia incrociate davanti a loro e ho chiesto che mi bruciassero. Lo Spirito Santo mi ha parlato chiaro: è stato Lui, è stata la fede a darmi la forza di resistere”.
Quello che gli fa più male non sono le minacce delle autorità, ma l’incomprensione di molti fratelli sacerdoti e vescovi. “Do fastidio perché parlo. Si può rimanere in silenzio quando in questo Paese vengono assassinate sette donne al giorno? Qui nessuno leva la propria voce”.
Il sacerdote ricorda con nostalgia il documento di Aparecida. “È fantastico”, ha confessato, ma al massimo “qualche vescovo ha tirato fuori un quadernetto per la pastorale. Non è stato messo in pratica”. Un presule di una piccola diocesi gli ha detto: “Non credere che non capiamo ciò che ci chiedi, ma cambiare costa fatica”. Il sacerdote sottolinea però che “quando si capisce bene il messaggio di Cristo si può”.
Il dramma dei migranti
María sapeva che l’avrebbero violentata, e non una o due volte. “Nonostante questo ho preso la via verso nord, perché non volevo che i miei figli diventassero soldati delle maras [gangs di alcuni Paesi latinoamericani, n.d.t.]”. Viaggiava con il compagno e i due figli, di 10 e 8 anni. A un certo punto sono stati intercettati da una banda e trasferiti in una “casa di sicurezza”, nome con il quale sono noti i covi in cui i narcotrafficanti nascondono centinaia di migranti che sequestrano ogni giorno.