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Hanno valore “infallibile” le interviste del papa sui media?

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 05/12/14

Un chiarimento teologico necessario sul rapporto tra Magistero e informazione

Nel mondo “liquido” – come si ama dire oggi – nel quale nuotiamo, l’orientamento della Chiesa di Roma e del suo Magistero garantisce un approdo saldo per non rischiare di essere portati via dalla corrente. Ma cosa accade se un papa, e sicuramente questo è il caso di papa Francesco, non parla esclusivamente attraverso i suoi documenti ufficiali ma affida molte sue parole pubbliche agli strumenti liquidi par excellence quali i sono i media. E soprattutto, quale valore hanno per i cattolici le idee espresse in una intervista su Repubblica o sul Corriere della Sera, o pronunciate davanti a decine di giornalisti durante un volo transoceanico? Nel momento in cui ascoltiamo tali parole, siamo ancora fedeli che offrono il loro assenso incondizionato al papa, o siamo utenti dell’informazione che possono criticare liberamente qualunque contenuto? Aleteia ha voluto affrontare questa spinosa ed urgente questione, chiedendo un chiarimento di ordine teologico al prof. Giuseppe Lorizio, ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense di Roma.

In tutto ciò che il papa dice, seppur in sedi diverse, è infallibile?

Lorizio: C’è un limite strutturale, canonico dell’infallibilità. Il papa è infallibile quando parla di verità di fede e di morale e quando ne parla ex cathedra, cioè volendo dare un orientamento definitivo alla Chiesa intorno alla sua fede e alla sua morale. Ora si potrebbe pensare che tutto il resto che il papa dice non conti nulla, ma questo non è vero. Quello ex cathedra è solo il Magistero straordinario ed infallibile del vescovo di Roma, che, quando condiviso con tutti gli altri vescovi, si esprime nei concili. C’è anche un Magistero ordinario, quello delle encicliche, delle Esortazioni apostoliche, dei motu proprio, ovvero dell’insegnamento ufficiale. Questo è un secondo livello. Un terzo livello è quello dell’omelia, dell’Angelus, dei discorsi, di quanto il papa per esempio insegna in un’Udienza generale. Ci sono livelli diversi di autorevolezza delle parole del vescovo di Roma come, nella chiesa locale, di ogni vescovo: un conto è quando un vescovo parla dalla sua cattedra, altro quando scrive una lettera pastorale o quando pronuncia una predica in una qualsiasi parrocchia.

E per quanto riguarda il nostro assenso?

Lorizio: Ora parlo come credente ancora prima che come teologo. Quello che comunica il vescovo di Roma non può avere per me la stessa valenza di quello che apprendo da un opinionista di un quotidiano o da un politico. Se sono credente, il mio assenso alla Chiesa e alla fede è reale: io non sto lì a distinguere se il papa mi sta parlando ex cathedra o sta facendo un’omelia perché l'essere credente fa sì che mi senta in sintonia con il vescovo della mia comunità locale e con il vescovo di Roma. Tuttavia, si danno livelli diversi: il livello di assenso che devo ad un Concilio o al vescovo di Roma che si esprime ex cathedra è “assoluto”, il livello di assenso che devo al Magistero ordinario è “certo”, il livello di assenso che devo a quanto il papa o il mio vescovo afferma in altre sedi è di “condivisione”, che vuol dire andare insieme con la Chiesa verso un comune obiettivo e una comune destinazione. In questo senso quello che il papa esterna in maniera non formalizzata – e alcuni problemi in questo senso sembra siano nati anche con alcune omelie di Santa Marta – lo posso e, in quanto teologo, devo sottoporre alla critica della ragione credente, ma è anche vero che quei contenuti mi aiutano a comprendere il suo pensiero, cioè, mi aiutano ad avere un elemento in più per interpretare quello che è o sarà il suo Magistero autentico, quello ordinario ed eventualmente infallibile.

Quindi il terzo livello ci offre quasi delle glosse al Magistero infallibile?

Lorizio: Sì, perché l’intentio auctoris è importante: se io devo studiare un testo, sapere come la pensa l’autore mi aiuta a capire il testo. Se un domani papa Francesco promulga un’enciclica e, in maniera informale o attraverso i media, ci lancia dei messaggi, siamo facilitati nella comprensione e interpretazione corretta delle sue intenzioni. Questo per un teologo è importante, ed è fondamentale il sentire con la Chiesa, la condivisione, che non significa solo sentire col papa, ma sentire con la comunità di cui il papa rappresenta l’unità. Quindi se io mi voglio sentire unito ho bisogno di sentirmi insieme al vescovo di Roma, e quindi in cammino. Si tratta del dinamismo della fede che si esercita in questo confronto.

Un’intervista del papa su un giornale o in aereo, dunque, rientra nel terzo livello?

Lorizio: Niente di quello che dice il papa in maniera pubblica è fuori dal Magistero. Lo è quello che dice in privato, ad esempio se telefona ad una persona. Nell’intervista, nell’omelia, sta parlando in pubblico, e dunque siamo nel Magistero. Un altro discorso è poi il come mai si venga a conoscere pubblicamente il contenuto delle conversazioni telefoniche private del papa.

Joseph Ratzinger, infatti, nel suo libro su Gesù volle far sapere che non parlava ex cathedra proprio per sollecitare una discussione scientifica, vero?

Lorizio: Cosa scrive infatti il papa in quell’introduzione? Scrive “criticatemi”. Cioè affida lo scritto alla discussione pubblica e scientifica. Non stava parlando da romano pontefice, ma da teologo. Era lui stesso che si metteva nella condizione di un teologo che può parlare del suo lavoro con altri colleghi.

Quindi i media oggi possono essere uno strumento valido per un pontefice che vuole far conoscere il suo pensiero?

Lorizio: Sì, credo molto nella comunicazione della fede. Credo molto nel ruolo che hanno gli strumenti di comunicazione in relazione alla capacità del Vangelo di rendersi presente e credibile nel mondo di oggi. Che il papa lo faccia non solo perché ci dà delle idee, ma anche perché ci offre delle percezioni – cioè la percezione della Chiesa che incontra – questo è certamente importante ed interpella il nostro sentirci parte della Chiesa, a prescindere dall’essere o meno teologi. 

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