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Potenzialmente, naturalmente

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 06/11/14

Un uso distorto del significato di alcune parole ha messo in soffitta una riserva di senso che oggi manca terribilmente

Come è strano il linguaggio! Le parole se uno non gli sta dietro cambiano senso così in fretta che a volte si litiga ferocemente senza saper nemmeno bene di cosa si sta parlando… una di queste parole per esempio è la parola “potenziale”.

Per me, vecchio dinosauro metafisico, che ancora crede in arcane superstizioni come ad esempio l’ontologia, la parola “potenziale” è una parola bellissima, mi dice che c’è in me un seme, un progetto, un futuro.

Se qualcuno mi dice che sono potenzialmente un grande uomo mi esalto, perché viene solleticato l’eroe che sotto sotto vorrei essere, perché mi sento nobilitato l’animo. Certo, per passare dalla potenzialità all’atto ci va di mezzo un lavoro, una fatica, che come ogni lavoro può anche fallire, ma vuoi mettere la differenza di faticare con un perché? La bellezza di sapere che la tua vita ha un progetto?

Tutto al contrario per la maggior parte delle persone che incontro, che non hanno avuto la fortuna di conoscere non dico Agostino e Tommaso, ma neppure Aristotele e Heidegger, e quindi se uno gli dice “ontologico” la scambiano per una parolaccia e si sentono offesi.

Non è colpa loro, poverini, è la conseguenza di 70 anni di pragmatismo marxista e a ben guardare di due secoli di sbornia post-illuminista, povera gente cresciuta convinta della più irrazionale delle fedi, cioè dell’onnipotenza della ragione. Tutta questa gente, comunque, sentendo la parola “potenziale” invece di vedere in essa un futuro carico di promesse la interpreta come “non reale”.

“Potenziale” per loro significa “non reale”, quindi in definitiva relegato nel mondo platonico (altra parola che per molti è un insulto, e per me una meraviglia) delle idee, quindi se io dico a qualcuno che potenzialmente è un grande uomo lui capisce che non lo è e si comporta come se l’avessi offeso, come se l’essere qualcosa in potenza equivalesse a non essere niente.

Ma, seriamente, cosa è più reale della speranza? Cosa plasma il presente più delle aspettative di futuro? La nostra definizione come persone è alle nostre spalle o davanti a noi?

A ben guardare è la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno. Noi metafisici giurassici siamo inguaribili ottimisti, perché nel potenziale vediamo una promessa che è la spina dorsale del presente, che lo spinge sempre avanti e lo fa crescere. Pragmatici e nichilisti invece vedono solo il reale attuale e quindi sono per definizione pessimisti, ripiegati su se stessi, non si accorgono che tutto è promessa, sviluppo, crescita…

Ah se la realtà fosse solo il presente che povera cosa sarebbe!

Prendiamo la storia dell’embrione per esempio. A me pare del tutto evidente che dire che un embrione fin dal primo istante è potenzialmente un uomo ne fa già una persona, perché porta in sé il “progetto-persona”; a loro quella parolina, potenzialmente, fa pensare che invece no, non essendo ancora una persona pienamente sviluppata allora non è niente… il progetto, il futuro, l’entelechia (per dirla con parola difficile) non esiste. Che brutto pensiero, se mi consentite. Senza futuro direi e senza speranza aggiungo.

Altra parola che nel tempo è cambiata, ed è collegata del resto con la parola “potenziale”, è la parola “natura”.

Natura viene da nascere, etimologicamente significa “ciò che sta per nascere”, quindi è qualcosa che sta davanti a noi, nel nostro futuro. La mia natura non è ciò che io sono quest’oggi, la mia natura è ciò che sarò, e quindi è l’espressione del mio potenziale, la mia natura è il progetto scritto nel DNA della mia anima (per così dire).

E’ nella mia natura essere un direttore d’orchestra o un pittore surrealista, anche se non ho mai preso un pennello in mano e so a malapena suonare quattro note, perché imparare a dipingere o a suonare è tecnica, è lavoro, applicazione, una roba che dipende da me e dalla mia fatica, ma che sarebbe del tutto inutile se non avessi una natura artistica, cioè una inclinazione al bello, indipendente da me e che mi precede e mi fornisce il potenziale necessario a compiere il mio futuro di musicista o pittore.

Incidentalmente poi ho scelto invece di essere poeta e di quella forma altissima ed estrema di poesia che è il sacerdozio, ma questo è un mero dettaglio, ho perfettamente presente il momento della mia vita in cui ho scelto di dare forma concreta ad uno dei miei possibili futuri e SO che sarei stato un ottimo musicista o un grande pittore se avessi scelto diversamente allora.

Invece per i miei interlocutori immaginari (ma neanche tanto) la natura è qualcosa che sta nel passato, è il background, il sostrato, la base di appoggio, non ciò che sarò, ma ciò che sono stato e quindi condiziona il mio essere oggi, ma non come lo condiziona il futuro, che è un condizionamento bello perché il futuro ci condiziona affascinandoci, seducendoci, spingendoci avanti, ma come lo condiziona il passato, che invece è catena, asfissia, prigione.

La natura quindi in questa prospettiva è qualcosa di cui liberarsi al più presto, è una nemica da eliminare perché possa giungere il mondo umano.

“Naturale” in questa prospettiva significa primitivo, non educato, grezzo. Qualcosa che può anche avere un suo fascino, ma nessuno farebbe debuttare in società.

Cosa importa allora se la mia natura è di essere maschio O femmina? Posso fare ciò che voglio, essere ciò che voglio, la mia natura non è il progetto che mi guida e devo sviluppare, ma un passato alle mie spalle di cui mi devo liberare. Solo superando la mia natura, solo senza nulla alle spalle né davanti a me sarò definitivamente libero.

 si può fare tutto, si DEVE fare tutto. E così si finisce col non essere nessuno.

Già, perché la libertà sganciata dalla natura, cioè da un progetto, da un potenziale da sviluppare, finisce con l’essere pura schizofrenia, un’anarchia che è l’anticamera del delirio.

Qui l’originale

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