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Preservare la fede nonostante le prove della vita

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kitzcorner | Shutterstock

Edifa - pubblicato il 19/11/20

Come possiamo credere ancora nella Provvidenza quando ci troviamo di fronte ai drammi della vita? Al di là della rivolta e della supplica, contemplare Gesù crocifisso, affidandosi a Suo Padre può portare la pace, restituire alla tragedia il suo significato spirituale e donare la grazia della speranza.

di Florence Brière-Loth

Un lutto, un aborto spontaneo, una rottura, la disoccupazione, la solitudine, una malattia grave… le prove sono indissociabili dall’esistenza umana. Ma ogni volta, quando arrivano queste prove della vita, ci si sente come traditi da essa. Sono come uno strappo improvviso dalla nostra bolla di pace, con l’impressione di vedere crollare ciò che avevamo costruito e di vedere vacillare l’immagine che avevamo di noi stessi. A questo si aggiunge per il credente la prova della fede: “Può avere la sensazione che Dio sia assente e che non lo sostenga”, afferma Nathalie Sarthou-Lajus nel suo libro in francese Cinq Éloges de l’épreuve, Ed. Albin Michel, 2014, (“Cinque elogi della prova”).

Attraversare la prova significa prima di tutto gridare, piangere e ribellarsi

“Mio Dio, perché mi hai abbandonato?” Il grido di Gesù risuona in ogni tragedia umana: “Pensavo di avere una complicità, una vicinanza con Dio e improvvisamente silenzio, mi sento abbandonato”, nota Olivier Belleil, membro della comunità francese Verbe de Vie, autore di libri e predicatore. “Dopo la morte di mio marito”, confida Isabelle Rochette de Lempdes, “mi sembrava impossibile continuare a vivere senza di lui, impossibile e persino impensabile. Eppure…”

Volersi rialzare subito è un’illusione, infatti questo richiede un lungo percorso. “La prima cosa da fare è di riconoscersi sconfitti”, afferma il filosofo Martin Steffens. Attraversare la prova significa prima di tutto gridare, piangere e ribellarsi…e non per risollevarsi subito. ”I salmi sono pieni di queste grida e di queste lacrime. A cominciare dal De profundis: “Ho gridato verso te dal profondo dell’abisso…”. “La Bibbia permette all’uomo di vivere questa rivolta”, osserva Olivier Belleil. Non si tratta di bestemmiare, ma di dire che una situazione è intollerabile.” Giobbe arriva al punto di chiedere a Dio: “Perché mi sei avversario?”

Denunciare la prova che ci colpisce, nominarla, per vederne tutto il carattere insopportabile, è far prova di realismo. Dobbiamo riemergere dalla prova, ma per superarla dobbiamo iniziare con il viverla”, dice Martin Steffens. “Negare la realtà non è il modo per evitarla.” Smettiamola di cercare sempre di essere subito positivi: perdere una persona cara, vedere il proprio figlio malato o disabile, vedere la propria azienda fallire, ci fa male e non sono prove che possiamo accettare subito!




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Consentire non significa rassegnarsi

Prolungare questa tappa rischierebbe di bloccarci in un atteggiamento mortale. Sarebbe come sedersi sul ciglio della strada e non andare più avanti quando la gara è ancora lungi dall’essere terminata. Ritrovare il gusto per la vita significa accettare le sue prove. “Per non amareggiarsi, per conoscere la vera pace”, ricorda Agnès. “All’inizio del mio cancro, ho dovuto mettere tutte le mie energie per dire sì a questa malattia che mi stava divorando, ho dovuto accettarla.” Consentire non significa assolutamente rassegnarsi o lasciarsi andare: “La sfida è quella di essere aperti a tutta la vita”, analizza Martin Steffens, “di imparare ad improvvisare la melodia della nostra felicità, a partire dalle dissonanze che possiamo incontrare”. Acconsentire alla disabilità di un bambino, accettare di vivere con una spina nel fianco… tutto questo può richiedere una vita intera, con alti e bassi. La strada non è lineare. Questo richiede un cambiamento interiore.

Isabelle Rochette de Lempdes si è subito resa conto che, per acconsentire, doveva rinunciare a certi comportamenti, rinunciare ai “perché?” sulla morte del marito, rinunciare ai “se” (“se Bruno fosse ancora qui…”). Tante frasi che non portano da nessuna parte e che sono dei “veri e propri veleni poiché m’impediscono di andare avanti”, conclude. Nella prova, l’unica cosa che dipende da noi è il modo in cui reagiamo. “Al resto devo acconsentire”, aggiunge Steffens, e il più delle volte senza capire. Ciò che Dio ci chiede di fare prima di tutto è di darGli tutta la nostra fiducia”, continua Isabelle. “È necessario credere che questa prova abbia un senso, accettare di non comprenderlo e abbandonarsi completamente tra le braccia del Padre.” È una grazia, un frutto della preghiera, soprattutto quella degli altri.

Due passi del Vangelo aiutano a compiere questo atto di fede. Quello in cui Gesù placa la tempesta: “Gesù è nella barca”, commenta Olivier Belleil, “ma non agisce immediatamente, né come e quando vorremmo che agisse.” Secondo testo: “Pietro cammina sull’acqua”, continua Olivier, “ma vedendo la forza del vento, si spaventa e affonda.” Nella prova, è la stessa procedura: se guardo solamente alla mia difficoltà, affondo. Se guardo Gesù, se ho fiducia in Lui, posso camminare sull’acqua, continuare a vivere ed andare avanti. Gesù, nella Sua Passione, muta da un sentimento di abbandono in cui grida al Padre Suo “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, ad un abbandono fiducioso, nell’ora della Sua morte: “Nelle Tue mani pongo il Mio spirito”: “Questa cambiamento di Gesù, sulla Croce, deve essere anche il nostro durante la prova”, conclude il predicatore.


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Riflessi e risorse per vivere un nuovo inizio

Accettare non significa rialzarsi subito. Sarà necessario prendersi un po’ di tempo per la convalescenza, sopportare i giorni grigi fino alla guarigione. La saggezza popolare dice di dare tempo al tempo. Questo richiede molta pazienza e atti di speranza, una disponibilità a esistere, all’opera che la vita stessa compirà. “Rinascere non significa cancellare tutto e ricominciare da capo”, dice Nathalie Sarthou-Lajus, “significa vivere un nuovo inizio, con le nostre cicatrici che rimangono come le stigmate di Gesù. Alcune ferite non possono essere cancellate.”

Concretamente, alcuni esercizi ci aiutano ad andare verso la guarigione. Brigitte soffriva di una grave depressione: “Ogni giorno mi davo come obiettivo di resistere fino a sera. Ho vissuto, giorno dopo giorno, cercando di depositare tutte le mie angosce tra le mani di Dio quando andavo a letto”. Domani sarà un altro giorno, si dice spesso. Isabelle aggiunge: “Ho deciso di impegnarmi a discernere e ad accogliere la moltitudine di grazie di cui sono costellate le nostre giornate. È così che, chiudendo gli occhi su tutto ciò che non andava e cogliendo le piccole cose, ho potuto ritrovare la gioia”. Importa anche l’atteggiamento che si sceglie di adottare nei confronti delle proprie ferite. Riconoscersi come vittima di una prova è una prima tappa, ma mantenere uno stato di vittima non consente di andare avanti. Il pericolo sarebbe quello di esistere per la propria infelicità e di usarla per giustificare tutto. Caroline, che ha due figli con fibrosi cistica, lo conferma: “Ho deciso di non lamentarmi più. Non sono responsabile di questa prova, ma di quello che ne faccio”.

Sulla nostra strada, altri sono lì, maldestri forse ma presenti. Agnès ricorda i tanti piccoli segni di amicizia che i suoi amici le hanno mandato durante la sua malattia: “Ho potuto contare su queste amicizie. Erano un balsamo per la mia sofferenza”. Sta a noi prendere le forze lì dove si trovano, cioè nei nostri cari ma anche nello Spirito Santo. “Merita il Suo nome di Consolatore”, osserva Olivier. “Molte persone l’hanno sperimentato trovando la pace del cuore in mezzo alla tempesta.” Leggere la Bibbia è un sostegno inestimabile: dice tutte le parole delle nostre prove. “Mi colpisce il linguaggio delle Lamentazioni”, continua Olivier, “o quello dei profeti che, pur vivendo un’intimità con Dio, hanno talvolta nella loro sofferenza un esplicito desiderio di morte. Molti Salmi iniziano con delle grida e finiscono con la lode. Facciamo della nostra vita un Salmo…”.

Se il chicco di grano non muore, non dà frutto. Philippe Raguis, frate carmelitano di Tolosa, scrive: “Sono profondamente convinto che le nostre lotte personali sono più che mai partecipi della croce di Cristo. È Lui che ci darà la forza di continuare il nostro cammino.” Questa è la condizione per la vera pace. Le nostre prove possono quindi essere feconde. “Alla Risurrezione di Gesù”, conclude Olivier, “le stigmate sono diventate ferite gloriose: lasciavano passare la luce!”.

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