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Fare meno figli per salvare il pianeta: un’idea “verde” che intossica

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CHILD IN THE GARDEN

By Juliya Shangarey | Shutterstock

Emiliano Fumaneri - pubblicato il 22/12/22

Pensare che mettere al mondo meno bimbi faccia bene al clima vuol dire non vedere il vero problema: che non riguarda la demografia, ma lo stile di vita degli abitanti più ricchi del pianeta.

I bimbi come cancro del pianeta. Smetterla di fare figli per salvare la terra. Slogan no kids che periodicamente tornano a circolare. E secondo i quali staremmo tutti meglio se la smettessimo una buona volta di popolare la terra di marmocchi piagnucolanti che appestano il pianeta con la loro sudicia improntina ecologica.

Una logica che fa proseliti e testimonial. Come i duchi di Sussex, premiati a luglio dell’anno scorso per la scelta «illuminata» di chiudere a due figli le operazioni per allargare la famiglia (sempre più in rotta con la royal family peraltro). Nel 2019 Harry e Meghan avevano annunciato di voler avere soltanto due figli. Per il bene del pianeta, naturalmente. Una scelta «green» che per la ong ambientalista britannica Population Matters meritava un premio accompagnato da 500 sterline. Devolute in beneficenza, ovviamente.

«Scegliendo e dichiarando pubblicamente l’intenzione di limitare la loro famiglia a due – ha dichiarato un portavoce della ong Population Matters -, il duca e la duchessa del Sussex stanno dando una mano ad assicurare un futuro migliore per i loro figli e stanno anche dando l’esempio ad altre famiglie. Avere una famiglia più piccola riduce l’impatto sulla Terra e dà una possibilità a tutti i nostri figli, ai loro figli e alle future generazioni di prosperare su un pianeta sano».

Non si potrebbe sintetizzare meglio la logica di un malthusianesimo verde dal profilo glamour, che indossa l’abito buono e vuole apparire buono, preoccupato per le sorti dell’ambiente.

Quando il green intossica

Una logica che però è tossica, altro che green! A dirlo è l’ingegnere francese Emmanuel Pont, autore del libro Faut-il arrêter de faire des enfants pour sauver la planète? (Payot, 2022) [Dobbiamo smettere di fare figli per salvare il pianeta?]. Per Pont dire che fare figli guasti il clima «è un ragionamento tossico – lo vediamo confessare a Le Figaro – che ci permette di evitare di farci le domande giuste e di prenderci le nostre responsabilità».

Eppure lo scorso 15 novembre l’Onu ha annunciato che la popolazione mondiale ha superato il tetto degli 8 miliardi di abitanti e che da qui al 2080 si appresta a raggiungere i 10 miliardi. Per le Nazioni Unite «questa crescita è senza precedenti», con la popolazione globale che si riproduce a un ritmo mai visto prima (in appena duecento anni si è già moltiplicata per otto).

Ma Malthus era davvero malthusiano?

Come a dare corpo alle preoccupazioni attribuite al demografo Thomas Robert Malthus. Il quale però, vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento, era un pastore anglicano assai meno «malthusiano» di certi suoi discepoli. Come hanno mostrato Ian Angus e Simon Butler nel loro Too many people?, Malthus non era affatto preoccupato che sul pianeta ci fosse «troppa gente». Malthus non era un ecologista ante litteram: il suo problema non era quello di proteggere l’ambiente dalla sovrappopolazione umana. Meno ancora quello che ci fossero troppi poveri.

Per Malthus la popolazione ha una tendenza costante: quella di crescere sempre fino al limite dei mezzi di sussistenza. Più che in quello delle previsioni, siamo nell’ordine dei fatti. «Il suo scopo – sottolineano Angus e Butler – era molto differente: provare che la gran parte delle persone saranno sempre povere e che nessun cambiamento sociale o politico poteva alterare questo fatto».

Altro che ecologista: Malthus era piuttosto un tatcheriano ante litteram. Per lui non c’era semplicemente modo di prevenire la costante pressione della popolazione sui mezzi di sussistenza. Era convinto infatti che la «passione tra i sessi» fosse forte al punto di risultare irresistibile, così che la gente non avrebbe mai cessato di fare più figli possibili. Finendo per raggiungere, presto o tardi, il limite dei mezzi di sussistenza, precipitando così nella fame che avrebbe arrestato giocoforza la crescita della popolazione (costringendo i poveri a sposarsi più tardi e dunque a fare meno figli, facendo aumentare la mortalità infantile e così via).

Maltuhs, controllore delle nascite?

In secondo luogo Malthus – pastore anglicano, lo ricordiamo – non era affatto un partigiano del birth control. Il controllo delle nascite – così come tutte le forme di sesso non riproduttive – gli appariva peccaminoso e lo atterriva ben più che avere molti bambini. Ne era così inorridito al punto da non parlarne mai direttamente se non attraverso allusive parafrasi come «usi impropri» o «viziose abitudini rispetto alle donne».

Inutile battersi per migliorare le cose, voler riformare la società, aspirare a un mondo più giusto. Tanto i poveri ci saranno sempre. Questo premeva dire a Malthus, in polemica con l’egualitarismo post rivoluzionario di William Godwin, Nicolas de Condorcet, Tom Paine e Robert Owen.

Come spesso accade nella storia, all’utopismo chimerico che vagheggia impossibili rovesciamenti sociali e paradisi in terra si reagisce con un realismo cinico, venato di pessimismo antropologico. Così Malthus, ricordano sempre Angus e Butler dà il suo più importante contributo all’ideologia capitalista: quello di «sostituire un argomento morale contro il cambiamento sociale con un argomento basato sulla legge naturale. I problemi umani sono causati dalla biologia, dalle leggi di natura».

Quando la «legge naturale» è disumana

In sostanza, mettersi dalla parte dei poveri, cercare di migliorare le loro condizioni non è soltanto ingiusto: è inutile, sarebbe come mettersi contro la biologia, andare contro il corso naturale delle cose. Come scrive Malthus nel suo Saggio sul principio di popolazione:

«In ogni società che ha superato lo stato selvaggio, deve necessariamente esistere una classe di proprietari e una classe di lavoratori».

O ancora:

«Nessuna migliore forma di governo, nessun piano di emigrazione, nessuna istituzione benevola, nessun grado o direzione dell’industria nazionale può impedire l’azione continua di un grande freno alla popolazione in una forma o nell’altra; ne consegue che dobbiamo sottometterci ad essa come a una legge inevitabile della natura».

Un’idea di legge naturale, si badi bene, che non ha nulla a che vedere con quella predicata dal pensiero cattolico. Più simile, semmai, alla legge naturale come brutale sottomissione alla forza dei fatti propugnata da antichi sofisti come Callicle per il quale «criterio del giusto» è «che il più forte comandi e prevalga sul più debole», che «il migliore prevalga sul peggiore, e il più capace sul meno capace».

Malthus non si limitava a dire che la società non poteva migliorare. Sosteneva anche che cercare di alleviare le sofferenze dei poveri in realtà non faceva che peggiorare le cose. Una parte del suo saggio chiede di abolire le Poor Laws, il sistema assistenziale che fin dal XVI secolo chiedeva alle comunità di procurare cibo e prestare aiuti alle fasce più povere della popolazione. Così facendo, a suo dire, le Poor Laws permettevano ai poveri di fare più figli e perciò di aumentare la povertà. Argomenti molto simili a quelli di chi oggi si scaglia contro ogni forma di welfare.

Malthus avec Sade

È questa, a ben vedere, la vera eredità lasciata dal reverendo Malthus ai «malthusiani» di oggi: l’avversione per ogni tentativo di migliorare la condizione dei poveri. Con la differenza che oggi la pruderie e gli scrupoli morali dell’anglicano Malthus per il controllo delle nascite sono stati archiviati da un bel pezzo. Già al tempo di Malthus a fare piazza pulita del legame tra sesso e fecondità aveva pensato il dissoluto Marchese de Sade, maniacale contabile di perversioni sessuali descritte nei minimi particolari, nemico giurato della natalità. Allora le idee di Sade sembravano roba da estremisti fanatici. Ma adesso Sade, come ha suggerito Christopher Lasch, è diventato il nume tutelare della «società competitiva» che schiaccia senza pietà i deboli e piace molto, guarda caso, a un certo capitalismo sfrenato.

Sade e Malthus così vano a braccetto. Un abbraccio che oggi, come si usa, si è sciacquato i panni sposando cause “ecologiche” che di cura per il Creato hanno davvero poco o nulla. Lo chiamano greenwashing: l’ecologismo di facciata di chi – solitamente istituzioni politiche o imprese – aspira a costruirsi un’immagine positiva, ambientalmente sostenibile.

Mai i bimbi inquinano davvero?

E qui torna in gioco l’ingegner Pont. Che nel suo libro fa strame dei dati fantasiosi calcolati da alcuni ricercatori. Come ad esempio lo studio secondo il quale mettere al mondo un bambino equivarrebbe a emettere 60 tonnellate di CO2 all’anno. Vale a dire sei volte l’impronta di carbonio del francese medio.

L’impronta di carbonio (anche detta «carbon footprint») misura la quantità totale dei gas serra immessi in atmosfera dalle attività umane. E naturalmente è strettamente collegata all’«impronta ecologica» che misura l’impatto delle attività umane sull’ambiente e in particolare sul cambiamento climatico. «I ricercatori – spiega Pont – sono arrivati a questa cifra enorme tenendo conto dell’impronta di carbonio di tutti i futuri discendenti del nascituro… Ma i nostri ipotetici pronipoti oggi non contribuiscono al riscaldamento globale».

Da questo punto di vista, sottolinea l’ingegnere, «una vita non avrà mai un impatto completamente nullo». Ma, aggiunge Pont «questo impatto dipenderà soprattutto dal modo di vivere e dalla società circostante. Nel mio libro ho calcolato l’impronta di un bambino nato in una famiglia occidentale ecosostenibile, cioè che cerca di ridurre le proprie emissioni di CO2, consumando meno carne, prendendo il treno piuttosto che l’aereo… siamo arrivati ​all’ordine di grandezza di una tonnellata all’anno, che non è trascurabile ma risulta essere molto inferiore».

Una questione di stile (di vita)

Ecco quindi che puntare a ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità equivale a nascondere il vero problema. Che non è tanto quanti essere umani ci siano, ma come vivono. Il problema è lo stile di vita, sono i desideri sfrenati. Non la vita umana, non i bimbi che nascono.

C’è poi da ricordare, come fa Pont, che la persona «è un fine, non un mezzo». E soprattutto che la persona umana è più che semplice natura. Bando al riduzionismo: «Se avete dei figli, spero non li vediate unicamente come bilanci di carbonio ambulanti», chiosa Pont, concedendosi una battuta forse poco ingegneristica ma sicuramente molto francese.

E a chi obietta che la popolazione mondiale è in costante aumento e le risorse in costante diminuzione, Pont replica: «Allora, non abbiamo una sfera di cristallo, ma la dinamica della popolazione mondiale è piuttosto di stabilizzazione. Avevamo paura della crescita in Asia, a livello globale è alla fine. Avevamo paura dell’India, l’India oggi è a due figli per donna. La crescita della popolazione mondiale non è esponenziale. E quando si guardano le proiezioni delle Nazioni Unite, la curva si appiattisce e dovrebbe raggiungere il picco tra il 2050 e il 2100».

Non fanno difetto le risorse, ma la loro ripartizione

Quanto alle risorse, il problema vero è la loro ripartizione: «Se oggi ci sono carestie e persone che muoiono di fame non è perché non c’è abbastanza cibo sulla Terra. È un problema di ripartizione».

Verità scomode che molti preferiscono non vedere. Sbaglia perciò chi insiste – in maniera forse non del tutto innocente – a mettere il mito della «bomba demografico» al centro del dibattito. L’errore qui sta nel fatto, precisa l’esperto, «che vediamo la popolazione umana nel suo insieme quando in realtà ci sono enormi differenze tra l’impronta ecologica di un americano e quella di un indiano. Le grandi questioni sono proprio quelle del modo di vivere e dei meccanismi economici e politici della società».

In pochi inquineremmo meno? Non è detto…

Proviamo a immaginare, è la provocazione di Emmanuel Pont, che al mondo fossimo due volte di meno. «Possiamo pensare che inquineremmo due volte di meno? Sono persuaso del contrario. Il petrolio costerebbe meno, andremmo più facilmente a Ibiza o altrove, ognuno potrebbe consumare molto di più. Se fossimo la metà, gli Stati ricchi manterrebbero i loro impegni sul clima? Le persone consumano quanto possono in funzione delle risorse disponibili. Porre la questione della popolazione permette di differire la messa in discussione della nostra cultura consumistica».

Che è un po’ l’obiettivo di ogni genere di «washing» («greenwashing», «sportwashing», «rightwashing», ecc.): ripulirsi l’immagine con un’abile diversione. Per depistare, distogliere l’attenzione generale da aspetti meno nobili delle proprie attività.

Essere più sobri per salvare il pianeta

Se la demografia e la limitazione delle nascite c’entrano poco col clima, che fare allora? Quali sono le priorità? Pont (nomen omen?) costruisce qui un… ponte, forse senza nemmeno volerlo, riprendendo l’invito alla «sobrietà felice» contenuto nella Laudato si’ di papa Francesco (nn. 222-225). Le priorità, incalza l’ingegnere parigino, «sono conosciute da cinquant’anni ma poiché richiedono di mettere in discussione la nostra società e la nostra cultura, preferiamo eluderle. In Occidente, porsi la questione della popolazione permette di differire la messa in discussione della nostra cultura consumistica che valorizza l’acquisizione di sempre più beni e fa del potere d’acquisto l’indicatore del buon vivere. La priorità è raggiungere una maggiore sobrietà».

A questo scopo in Francia sono stati proposti diversi progetti. Pont menziona il Progetto Shift, l’associazione Négawatt, ADEME e ricorda come i ricercatori abbiano calcolato che usando la metà dell’energia sarebbe possibile dare a tutti sulla terra una casa con 20 metri quadrati a persona, 10.000 chilometri di trasporti all’anno, un livello di istruzione e salute pari a quello dei paesi ricchi.

Certo, a livello individuale questo significherebbe mangiare un po’ meno carne, acquistare qualche prodotto nuovo in meno e viaggiare parecchio di meno in aereo. Tutti gesti individuali spesso evocati, conclude Pont, che però «hanno senso solo se si iscrivono in una prospettiva più ampia, altrimenti saranno colpevolizzanti e non risponderanno alle vere determinanti della crisi ecologica più di una riduzione della popolazione».

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