separateurCreated with Sketch.

Il processo a Gesù è stato illegale: ecco le “prove” contro Pilato e il Sinedrio

Duccio di Buoninsegna, Cristo davanti a Pilato, 1308-1311, Museo dell'Opera del Duomo, Siena

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 19/03/21
whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Il dibattimento è andato ben oltre i limiti delle procedure, viziato da un verdetto già scritto. Il diritto romano è stato rispettato solo in occasione della sentenza. Lo spiega l'indagine condotta da Centini

Il processo a Gesù fu una farsa e Ponzio Pilato seguì il diritto romano solo sulla condanna. Non ci furono, infatti, quelle procedure regolari che avrebbero dovuto caratterizzare un normale dibattimento.  Lo spiega bene Massimo Centini nel libro Pilato - Indagine sull’uomo che uccise Gesù” (edizioni Terra Santa).

Matteo, Marco e Giovanni fanno entrare in scena il governatore romano all’alba del venerdì, dopo il processo celebrato nel sinedrio, quando cioè l’accusato fu condotto legato nella sede del potere romano (Mt 27,2; Mc 15,1; Gv 18,28).

PONCE PILATE

Il processo civile a Gesù risulta molto breve (Mt 27,11-14; Mc 15,2-5): pochi scambi di parole che stupiscono Pilato (Mc 15,5). E poi tutta la vicenda si focalizza intorno all’episodio di Barabba (Mt 27,15-23; Mc 15,6-15). Solo in Matteo si sovrappone con profonda incisività narrativa l’apparizione di Claudia Procula (27,19), che avrà invece ampia affermazione nelle tradizioni apocrife.

Il tentativo di Pilato è molto ridotto: «Ma che male ha fatto?» (Mt 27,23; Mc 15,14) ed è subito seguito dall’emblematico lavacro delle mani con l’allontanamento dal giudizio del potere locale. Questo episodio è riportato solo da Matteo (27,24) ma si affermò ampiamente nella leggenda e nella tradizione apocrifa.

In un solo, brevissimo versetto si dice che Pilato rilasciò Barabba, fece flagellare Cristo e lo consegnò perché fosse crocifisso (Mt 27,26; Mc 15,15).

Giovanni, che offre maggiori indicazioni sulla vicenda giuridica ed extragiuridica di Cristo, ormai travolto dall’ira dei sacerdoti, si sofferma sul dialogo tra Pilato e l’accusato, che proclama la sua regalità messianica (1Tm 6,13). 

Il quarto evangelista, che lascia intravedere la collaborazione dei romani all’arresto di Gesù, pone in evidenza una certa partecipazione del governatore alla vicenda di quel predicatore, che considerava innocente (18,38). Ma vista l’impossibilità di farlo giudicare dai giudei (18,31), Pilato propose lo scambio con Barabba (18,39), di cui fu a gran voce chiesta la liberazione.

Pilato allora sottopose l’imputato alla flagellazione (19,1-4), ma contemporaneamente avvertì i giudici di non riconoscere in lui alcuna colpa; poi lasciò il condannato in balia degli accusatori con l’emblematica affermazione: «Ecce homo» (19,5).

Vista la reazione della folla, che voleva crocifiggere il predicatore, «Pilato fu preso ancora più dalla paura» (19,8) e cercò di riparlare con Cristo, sottolineando il proprio potere (19,10) e la propria volontà di liberarlo (19,12); ma, conteso tra l’equilibrata visione dei fatti (19,11) e le minacce dei sacerdoti (19,12), scelse la strada più facile e «lo consegnò loro perché fosse crocifisso» (19,16).

A questo punto, secondo Giovanni, la sottomissione di Pilato parrebbe quindi totale. Tuttavia, l’episodio del titulus ci induce a scorgere nel rifiuto del procuratore di cambiare la scritta – «Gesù il nazareno, il re dei Giudei» –, come richiesto dai sacerdoti (19,19-22), una sua ultima presa di posizione. Un risveglio dell’orgoglio, prima di sparire totalmente nel dedalo della storia e riemergere, di tanto in tanto, tra i riverberi della leggenda.

Nell’insieme, il processo a Gesù, con la regia di Pilato, svoltosi in meno di 24 ore e in due sbrigative sessioni, quasi totalmente in contrasto con le norme legislative, diventa l’archetipo dell’ingiustizia.

La prima anomalia si riscontra quando il Signore arrivò al Sinedrio: gran parte dei giochi erano fatti, il potere religioso locale aveva stabilito che quel sobillatore, quell’agitatore dettosi figlio di Dio doveva morire per mano romana. Il sommo sacerdote Caifa, il capo del Sinedrio, recitò una parte ben nota con l’abilità di un consumato attore.

Dopo una procedura giuridica un po’ viziata nella forma e inquinata da interessi che con la legge avevano poco da spartire, Gesù fu portato da Pilato, poiché era l’unico con il potere di emettere sentenze capitali in Palestina. Gli accusatori si fermarono all’ingresso del pretorio, in quanto entrando si sarebbero contaminati e non avrebbero più potuto celebrare la Pasqua.

Ad alcuni è apparso paradossale che gli accusatori-giudici di Cristo, dopo aver commesso non poche infrazioni alla procedura giuridica, si ponessero questo problema di forma. Ma il rispetto delle apparenze probabilmente finì per prevalere.

Giovanni (Gv 18,29) attesta che Gesù venne introdotto nel pretorio. Pilato poteva così comunicare con i giudei posti all’esterno senza entrare e uscire ogni volta dal luogo dell’interrogatorio.

Davanti a quella vicenda, che fin dall’inizio pareva uscire dai canoni più tipici delle procedure giuridiche, Pilato chiese subito quali fossero le accuse rivolte a Cristo. La risposta non si fece attendere: «“Se non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato”. Allora Pilato disse loro: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge”» (Gv 18,29-31).

Cercando di scrollarsi di dosso quel fastidio, il procuratore provò così a passare ad altri un giudizio problematico, per di più in un periodo di festa come quello in cui Gerusalemme brulicava di gente, tra i quali si celavano molti provocatori sempre pronti a cogliere l’occasione per sollevare le folle. Ma la nitida precisazione dei giudei riportò Pilato ai suoi doveri: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».

A quel punto, però, si verificò un preciso cambiamento di rotta da parte degli accusatori, che probabilmente pensarono fosse poco vantaggiosa un’ulteriore insistenza sul carattere eminentemente religioso dell’accusa. Riferendosi solo a tale questione, il procuratore non avrebbe mai emesso una condanna di morte. Era quindi necessario trovare altre motivazioni contrassegnate da un certo peso giuridico agli occhi del romano.

I sinedriti portarono dunque contro Gesù non più solo l’accusa di bestemmia (delitto religioso), ma quella di un delitto punibile con la pena capitale secondo il diritto romano: l’alto tradimento.

Caifa, sommo sacerdote del Sinedrio, alla "guida" del fronte che fece di tutto per far condannare Gesù.

Non va dimenticato che, qualunque fosse stato il parere del giudice romano, una sentenza sostenuta dai capi religiosi locali avrebbe avuto un ruolo molto importante per il popolo, creando aspettative difficili da deludere.

Andare contro il parere del Sinedrio, anche se con motivazioni giuridicamente giustificate per l’autorità di Roma, era pur sempre un modo per accrescere il malcontento e aumentare l’attrito tra il procuratore e i giudei.

Nel corso del breve processo a Gesù, Pilato tentò un ulteriore espediente giuridico per fermare quel procedimento che, come si coglie dai Vangeli, lo inquietava. Rivolgendosi agli accusatori disse: «Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate. E neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò dopo averlo severamente castigato lo rilascerò» (Lc 23,14-16).

Quasi certamente, il severo castigo era per Pilato costituito dalla flagellazione.

A monte va osservato che, per quanto siano stati rimarcati gli sforzi di Pilato per salvare Gesù, il giudice romano non era obbligato a piegarsi alla volontà dei sommi sacerdoti: «I Romani, dei quali il procuratore doveva incarnare lo spirito di giustizia, professavano un tale concetto dell’autorità giuridica che non ammettevano inframmettenze né sopraffazioni popolari».

Ma il funzionario fu travolto dagli eventi, il suo coinvolgimento era probabilmente parte di un disegno che non era stato capace di comprendere fino in fondo. La consegna di Gesù ai romani era prevista e desiderata-. La posizione di Pilato nel processo a Gesù si rivelò molto debole. 

Non si può non concordare che fu Pilato a condurre Cristo sulla croce, ma rimane discutibile quale via giuridica abbia scelto. Certamente giudicò seguendo il diritto romano, in quanto nessun procuratore sarebbe stato in grado di capire il complicato diritto ebraico, mescolato con questioni religiose (senza dimenticare che i romani, nei tribunali provinciali, preferivano di regola il proprio diritto).

Ecco perchè emise una sentenza di condanna a Cristo alla morte in croce in quanto ribelle e nemico di Roma.

Si potrebbe quindi parlare di “pseudo processo” a Gesù, celebrato cercando di evitare ogni causa di attrito tra Pilato, i sacerdoti e il popolo. Il tutto mediando tra le istanze degli accusatori locali, la necessità del procuratore di non perdere la faccia davanti all’imperatore Tiberio, che mai avrebbe tollerato le accuse secondo le quali Gesù istigava il popolo alla sommossa.