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In famiglia servire significa donare (… e non essere schiave!)

HAPPY HOUSEWIFE

Dusan Petkovic | Shutterstock

Rachele Sagramoso - pubblicato il 17/03/21

Caro signor Ikea, quando un marito si offre per aiutare la moglie a fare la lavatrice non sta implicitamente sostenendo che tocca a lei farla. Sta invece riconoscendo che in famiglia ci si dona, anche attraverso il servizio, per il bene di tutti.

Il fatto di pensare che un banalissimo gesto di aiuto verso il prossimo, sia un mezzo tramite il quale ci si fa vittime di sottomissione, è un vecchio – piuttosto stanchevole – modo di pensare, che ha rovinato decine di relazioni tra uomini e donne. Nel momento in cui si decide di dedicare la propria vita a un’altra persona, lo si fa sapendo di dover donare all’altro il proprio tempo e le proprie energie.

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Il peso dell’egoismo

Se una persona cresce, tuttavia, con l’idea e la convinzione che i propri gesti sono i più importanti per la vita del nucleo affettivo, ma che quei gesti sono un peso enorme da assolvere, la vita di quella diade crollerà sotto il peso dell’egoismo. Ci sono azioni che è necessario compiere, quando si vive assieme, e il tenere pulito l’ambiente, il preparare da mangiare, la possibilità di tenere in ordine, sono solo parte delle azioni quotidiane che ci si trova a compiere.

Possiamo definirlo un dovere? Certo! Fornire il proprio contributo è necessario per tutto l’andamento della vita della famiglia. Ora: nel momento in cui una determinata convinzione sia quella che la parte più stancante della vita è quella del servizio all’altro per il bene di una anche piccola comunità, possiamo definire chiaramente una situazione che non evolverà mai verso il bene di nessuno. Nel momento in cui io penso che se acquisto gli ingredienti di una torta, li impasto, li metto a cuocere e li servo in tavola per tutti, e poi riordino e pulisco ciò che ho usato sempre per lo stesso motivo, ovvero per il bene di tutti, io sarò estremamente soddisfatta come lo sarà chi avrà goduto del pregiato dolce e del fatto che potrà usufruire degli utensili e degli spazi a propria volta.

Servizio è una brutta parola?

In alcuni testi molto carini del veterinario di campagna Herriot, si racconta della vita nelle aie: mentre la famiglia degli allevatori riposava al caldo, nel cortile, spesso al freddo, gli uomini delle fattorie assistevano i parti delle vacche (duravano ore, talvolta sotto la neve), aspettando che si facesse giorno per mietere, lavorare il fieno, tosare pecore, raccogliere pannocchie.

Le mogli degli allevatori, se pur dando il loro contributo fuori casa, preferivano di gran lunga il chiacchiericcio solo femminile di quando alcune donne si ritrovano assieme per cucire, lavorare a maglia, assistere una puerpera. Potremo mai dire che ogni gesto compiuto da una donna è un servizio? Certo: un servizio alla famiglia, al prossimo. Il bene fatto agli altri, è un bene che ricade sempre verso tutti. Non è mai contraddittorio. Che presupposto c’è nel prendersi cura della famiglia lavando, riordinando o assolvendo quei piccoli compiti quotidiani attraverso i quali ognuno adempie al proprio ruolo? Semplicemente quello del donarsi.

HOUSEWIFE, TIRED, HOME

Condividere un meccanismo familiare significa che ognuno compie dei gesti per gli altri, per il bene proprio, ma anche per quello altrui.

Un vecchia bugia

Purtroppo anche io sono cresciuta con chi mi diceva che fare i mestieri in casa è roba da cameriere, perché la donna deve realizzarsi fuori dalla casa. Non è un caso che chi opta per stare a casa, viene bollato come ‘nullafacente’ (ho già precedentemente elencato come questo termine sia del tutto inverosimile) o come ‘inutile’: la casalinga è una povera frustrata, mentre la donna che lavora è certamente dignitosa perché il suo lavoro è remunerato.

Un modo di pensare vecchio che ci sta portando verso il fatto che nessuna donna abbia voglia di farsi una famiglia, di farsi carico di un dolce peso che è quello del donarsi al bene di una comunità (se pur piccola, la famiglia è una comunità). Infatti le ragazze sono allevate a suon di debolissime ideologie che servono solo per un motivo: far disprezzare loro la bellezza della cura verso l’altro, far gioire del ‘grazie’ che c’è in ogni bacio, in ogni richiesta di abbraccio che si guadagna a fare qualcosa per una comunità, per la propria famiglia.

Benedetta gratitudine

Certo: la gratitudine non dovrebbe mai mancare. Papa Francesco lo ha più volte ricordato: la parola “grazie” è fondamentale.

Grazie a mio marito, che si alza la notte per far fare pipì ai piccoli, grazie perché è lui che porta fuori la spazzatura e la smista, grazie perché quando serve va in farmacia alle 2 del mattino, grazie perché lavora per garantirci di poter avere non solo il necessario ma pure l’inutile, grazie perché comunque, anche se torna alle 21, mi chiede se può aiutarmi in qualcosa, grazie perché mi porta mazzi di fiori per San Valentino anche quando è stanco, grazie perché sa aggiustare la macchina sotto la pioggia, grazie perché si è trovato a mettere le catene nella neve sotto al tempesta.

Nel momento in cui mio marito mi chiede se può aiutarmi a fare quello che io faccio tutti i giorni, io vedo tanta voglia di condividere qualcosa insieme, vedo il fatto che riconosce quello che – se pur con tranquillità e gioia – devo fare io per mandare avanti la nostra piccola comunità.

Vi è un’enorme fregatura verso questo continuo timore nei confronti della bellezza del servire, del darsi all’altro, del fare del bene a tutti, del gioire dei propri doveri: certamente quello che porta i giovani a temere di farsi una famiglia. Per cui signor Ikea, si tenga pure le sue ideologie che puzzano di vecchio e muffito, io preferisco essere donna felice di far del bene.

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