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Mamma si suicida insieme al figlio, ma lo salva con l’ultimo abbraccio

MUM, HUG, CHILD

Studio.G photography | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 22/02/21

Due tragedie simili a distanza di poche ore a Treviso. In uno dei due casi, una madre si è gettata dal ponte col suo bambino, ma nella caduta lo ha tenuto stretto salvandolo.

Sabato scorso, 20 febbraio, nel giro di poche ore si sono consumate due tragedie gravissime in provincia di Treviso: nel primo pomeriggio un padre ha ucciso il figlio di 2 anni e poi si è tolto la vita, verso sera una madre si è buttata da un ponte insieme al figlio di un anno e mezzo. In quest’ultimo caso la madre è morta, ma abbracciando il figlio durante la caduta, lo ha salvato.


DONNA; PONTE; FIUME

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Famiglie distrutte

Un padre uccide il figlio e poi si uccide. Una madre si uccide insieme al figlio. Ancora prima di ripercorrere i fatti accaduti è impossibile non cogliere un simbolo nella prossimità di due eventi diversi. Da una parte un padre e un figlio, dall’altra una madre e un figlio: c’è – invisibile eppure piantata a fondo nella realtà – una spada che spezza la famiglia.

In un momento in cui uno dei due genitori si è trovato solo coi propri incubi interiori, la disperazione ha prevalso. In questo colgo un simbolo.

Da tempo tanti attacchi su molteplici fronti hanno strappato, con violenza improvvisa o per logoramento, quell’unità che lega un padre, una madre e i loro figli. Magari anche quando le famiglie sono unite il veleno di una separazione subdola s’insinua nel buio. Magari anche quando le famiglie sono affiatate e felici.

Il vincolo familiare è difficile da spiegare: è viscerale ma è anche morale. Non è fatto solo di un sentimenti buoni, e non si spezza fino in fondo neppure col divorzio. Eppure una lama ideologica sempre più affilata sta separando ciò che Dio ha unito. Avete notato che in tante riviste le singole figure familiari vengono esaltate fino all’idolatria – ma separatamente? Lo intuì già nel 1930 G. K. Chesterton:

Praticamente nessuno osa difendere la famiglia. Il mondo attorno a noi ha accettato un sistema sociale che nega la famiglia. Qualche volta esso aiuterà il bambino a dispetto della famiglia; la madre a dispetto della famiglia; il nonno a dispetto della famiglia. Non aiuterà la famiglia. (GK’s Weekly, 20 settembre 1930)
FAMILY
Jacob Lund | Shutterstock

Divide et impera non vale solo in campo militare. E mi è tornato in mente pensando ai fatti di Treviso. In due contesti diversi, certo, con due storie diverse alle spalle, certo, … eppure ecco: la coda velenosa della disperazione ha colpito quando un padre era solo con il figlio e una madre era sola con il figlio.

Questa tentazione c’è per tutti. Ecco perché quando, cristianamente, difendiamo la famiglia, ricordiamoci che il pungolo non è moralistico (“hai promesso di rimanere insieme al tuo coniuge per tutta la vita”). Lo sguardo è da capovolgere: la famiglia, con sua presenza, è la forza uguale e contraria alla disperazione – che è anche dispersione, una fuga spaventata in cui ciascuno si perde e si isola.

Un padre e la malattia del figlio

Nel primo pomeriggio di sabato scorso un uomo è arrivato a un gesto fatale:

Ha strangolato il figlio Massimiliano di appena due anni e poi si è tolto la vita con una coltellata alla gola. Così Egidio Battaglia, 43 anni, operaio, ha messo fine ai tormenti che lo assillavano, lasciando una scia di dolore che ha travolto chi resta. A cominciare dalla moglie che, appena avuta notizia della tragedia, ha accusato un malore ed è stata accompagnata in pronto soccorso. (da Repubblica)

All’origine dell’omicidio-suicidio si suppone ci sia stata la disperazione del papà riguardo alla diagnosi ricevuta sul figlio, una malattia non guaribile.

Un pensiero lo assillava: il pensiero per quel figlioletto affetto da un grave problema di salute per il quale i medici, a quanto si è saputo, non avevano potuto dare speranze di guarigione. (Ibid)

E’ impossibile non notare con quale ferocia il padre abbia ucciso se stesso. L’accoltellamento alla gola dice molto, anche più delle pagine scritte che quel genitore ha lasciato per spiegare il suo gesto. Ferite pesanti e un fiume di parole, segni precisi che parlano non solo di disperazione ma di una grande angoscia. Quella violenza così esplicita su se stesso fa pensare che non ci sia stato un solo momento in cui la scelta terribile di uccidere il bambino, per non procurargli sofferenze future, sia apparsa in qualche modo “giusta” al padre.

Viene anche da riflettere su quanto ci sia bisogno di una comunicazione che sia famiglia. Che parli con la voce di chi approfondisce un tema sapendo di rivolgersi a una sorella, a un cugino, a un nonno. “Non guaribile” non esclude “curabile”: curare un figlio malato, anche se l’obiettivo di una guarigione non è possibile, è un percorso ferito ma non è una resa o una sconfitta.

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Di altanaka|Shutterstock

Allora. Guarigione cosa vuol dire, anche per chi si definisce sostanzialmente “sano”? Chi ce la può dare davvero? Cosa c’è da guadagnare di umano in una cura che fa i conti con ferite da lenire ma che non si rimarginano?

Il nostro posto è stare dove si aprono queste domande, per non lasciare padri e madri a tu per tu con i mostri interiori che lievitano e sconcertano.

L’ultimo abbraccio di una madre

C’è invece l’ombra della depressione dietro l’altra tragedia consumatasi qualche ora dopo la precendente, sempre in provincia di Treviso. Una donna di 31 anni si è diretta in auto verso un ponte sul fiume Piave, a Vidor, da lì si è lanciata col figlioletto in braccio. Un volo di 15 metri. I genitori di lei la aspettavano a cena e non vedendola arrivare hanno allertato le forze dell’ordine. Le richerche sono terminate quando due corpi sono stati avvistati lungo il greto del Piave:

Per la donna non c’era più nulla da fare mentre il bimbo è stato soccorso e si trova ora ricoverato in prognosi riservata all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, ha una frattura al femore ma si salverà. Dalla ricostruzione della dinamica del fatto sembra, infatti, che la donna in un gesto disperato quanto istintivo, sia riuscita ad abbracciare il figlio proteggendolo così nella caduta. (da Agi)

La donna era seguita dai servizi sociali per una forma depressiva. Altro non trapela, e non occorre. Le ricostruzioni dell’accaduto da parte di medici e forze dell’oridine considerano miracoloso il fatto che il bambino sia ancora vivo, considerando i 15 metri di caduta nel vuoto. L’abbraccio materno lo ha salvato, l’abbraccio di una madre che lo aveva appena trascinato con sé nel vuoto. Su più testate ho trovato l’espressione ricorrente “gesto istintivo”, per indicare ciò che si suppone sia accaduto: la madre nel cadere, cioé attuando il suicidio, ha poi reagito con una forza opposta, proteggendo il bambino con l’abbraccio. È un istinto?

L’ultima parola

Non credo sia stato un istinto, non nel senso comune che diamo a questa parola. Se qualcuno insulta un mio amico, istintivamente gli rispondo per le rime. L’istinto è qualcosa di incontrollabile, opposto ai ponderati gesti volontari. C’è tutta una narrativa sul liberare gli istinti, come forma di vita più autentica e disinibita.


TEENAGER GIRL,

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Nel caso della donna di Treviso, il suo gesto è qualcosa di diverso da una forza spostanea e incontrollata. Cos’è l’istinto di sopravvivenza? Dovremmo chiedercelo seriamente in questo tempo in cui si cerca di costruire un sistema di pensiero per benedire ogni forma di eutanasia. Può esserci una volontà di morire. Ma quella forza che inesorabilmente ci chiama alla vita non è appena un istinto. E’ proprio qualcosa di più primitivo degli istinti, nel senso che viene prima. Ci attrae come la forza di gravità, il sigillo della vita. Anche quando ci opponiamo con la volontà, ci chiama: il bambino che cammina a fianco di suo padre può dimenticarsi della sua presenza, ma ne sente l’urlo se vuole fare un passo in mezzo alla strada. L’istinto di sopravvivenza è il momento in cui sentiamo l’urlo di Dio che ci scuote.

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Photobac | Shutterstock

Oltre a questo istinto, a Treviso c’è stato un abbraccio. E anche se fulmineo, è un atto che ha a che fare con la libertà. Fino all’ultimo istante di vita siamo liberi, liberi perfino di tentare di salvare chi abbiamo già condannato a morte. Dunque, no. Non credo che sia stato un gesto istintivo quello compiuto da questa mamma, un abbraccio parla di una coscienza che agisce. Nel momento supremo la coscienza – sentendo lo strattone di Dio – ha rivendicato l’ultima parola e l’ha spesa per la protezione.

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