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San Gregorio di Narek, per andare alle radici della vostra fede

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By Thrithot | Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 03/02/21

Spesso considerata una specie di “riserva indiana” del cristianesimo del Medio Oriente, l'Armenia custodisce tuttavia tesori teologici e spirituali dei quali ogni discepolo di Gesù dovrebbe potersi rallegrare. Ne consegue una quanto mai utile lezione sulla fratellanza tra i popoli.

Accogliendo la proposta della Congregazione per il Culto Divino, papa Francesco ha disposto e decretato ieri l’inserimento «a tutti gli effetti» delle memorie di tre santi dottori della Chiesa nel Calendario Romano: si tratta di san Gregorio di Narek, san Giovanni d’Avila e santa Ildegarda di Bingen.

Queste nuove memorie – si legge nel sopra nominato decreto – dovranno essere iscritte in tutti i Calendari e Libri liturgici per la celebrazione della Messa e della Liturgia delle Ore; i testi liturgici da adottare, allegati al presente decreto, devono essere tradotti, approvati e, dopo la conferma di questo Dicastero, pubblicati a cura delle Conferenze Episcopali.

Un aggiornamento paradossale, per certi aspetti: se non altro in quanto riguarda personaggi antichissimi, dei quali si sarebbe detto “beh, se non ci sono arrivati fino ad ora non sarà certo il 2021 l’anno buono”.

Storia e geografia del terzetto

Vuoi per il fascino femminile, vuoi per l’aver precorso la fitoterapia contemporanea, la badessa medievale Ildegarda di Bingen è in un certo senso la più nota del mistico terzetto, ed è pure la mediana in senso cronologico: il prete spagnolo Giovanni d’Avila è il più recente dei tre (l’unico di età moderna), mentre il monaco armeno Gregorio di Narek è tra i più eminenti personaggi della rinascenza armena del X secolo.

Sulla cartina geografica, invece, è un arco che abbraccia l’Europa in una cristianissima mezzaluna quello che parte dalla città spagnola e giunge in quella armena passando per quella tedesca. Un arco, una mezzaluna o… una parentesi – aperta e non chiusa – di libertà cristiana, che passa dall’elegante esercizio di tre personali sintesi fra obbedienza alle tradizioni e creatività nel tradurne il sempreverde deposito.

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La “parentesi” (aperta e non chiusa) che le città dei tre Dottori del recente decreto tracciano sulla sezione antica della mappa dell'Ecumene cristiana

La Chiesa ha spesso riconosciuto come membri eminentemente ricchi di sapienza e di scienza – definendoli apertamente “dottori” – cristiani che sulle prime avevano destato perplessità o dubbi in alcuni segmenti ecclesiastici. Il caso di Ildegarda si segnala fra i tre perché la badessa teutonica fu meno controversa in vita (a parte alcune inevitabili frizioni) che in morte, e per questioni indipendenti da lei o dalla Chiesa: reduce dalla sconfitta della Grande Guerra, una dolorante Germania rovistava negli annali alla ricerca di puntelli utili all’imbastimento della narrazione della fantomatica “Grande Germania” che potesse proiettarsi “über alles in der Welt”; donde fu arruolata (e tradita) insieme con molte altre anche la memoria di Ildegarda.

Araldi della Chiesa e del Vangelo contro ogni totalitarismo

Riprendendosi la libertà di pronunciare con voce ferma e con sguardo alto il nome della badessa, la Chiesa non intendeva certamente minimizzare il proprio distanziamento dalle ideologie nazionalistiche che hanno funestato il XX secolo, e in tal senso proprio l’accostamento con Gregorio di Narek appare quanto mai eloquente. Già nella Lettera Apostolica Vidimus stellam, del 12 aprile 2015, con cui papa Francesco proclamava Gregorio dottore della Chiesa, si faceva un riferimento non anodino allo sterminio degli armeni perpetrato dal regime ottomano di Maometto V:

Dopo gli eventi ferali e le stragi degli anni 1915-1916, sia il monastero sia il sepolcro del santo monaco armeno sono stati distrutti.

Se la lettera apostolica è di non facile lettura perché consultabile unicamente in latino, nello stesso giorno papa Francesco riceveva una delegazione armena e dichiarava apertis verbis il nesso tra «il “Metz Yeghern”, il “Grande Male”» e il conferimento del titolo di Dottore a Gregorio:

San Gregorio di Narek, monaco del X secolo, più di ogni altro ha saputo esprimere la sensibilità del vostro popolo, dando voce al grido, che diventa preghiera, di un’umanità dolente e peccatrice, oppressa dall’angoscia della propria impotenza ma illuminata dallo splendore dell’amore di Dio e aperta alla speranza del suo intervento salvifico, capace di trasformare ogni cosa. «In virtù della sua potenza, io credo con una speranza che non tentenna, in sicura attesa, rifugiandomi nelle mani del Potente … di vedere Lui stesso, nella sua misericordia e tenerezza e nell’eredità dei Cieli» (San Gregorio di Narek, Libro delle Lamentazioni, XII).

[…]

Fare memoria di quanto accaduto è doveroso non solo per il popolo armeno e per la Chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti, questi conflitti talvolta degenerano in violenze ingiustificabili, fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono posti a capo delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali sono chiamati ad opporsi a tali crimini con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi.

Questa dolorosa ricorrenza diventi per tutti motivo di riflessione umile e sincera e di apertura del cuore al perdono, che è fonte di pace e di rinnovata speranza. San Gregorio di Narek, formidabile interprete dell’animo umano, sembra pronunciare per noi parole profetiche: «Io mi sono volontariamente caricato di tutte le colpe, da quelle del primo padre fino a quello dell’ultimo dei suoi discendenti, e me ne sono considerato responsabile» (Libro delle Lamentazioni, LXXII). Quanto ci colpisce questo suo sentimento di universale solidarietà! Come ci sentiamo piccoli di fronte alla grandezza delle sue invocazioni: «Ricordati, [Signore,] … di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia (…) Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (ibid., LXXXIII).

Una memoria veramente cristiana, cioè non ripiegata sull’invocazione della vendetta ma fattivamente ispirata alla voce di quel sangue «che parla meglio di quello di Abele» (cf. Eb 12,24); e tuttavia quanto mai aliena dall’irenistico “scurdamm’c’ ’o passat’” con cui i discendenti dei carnefici vorrebbero reiterare in nuova forma la violenza dei loro padri.

Ricordare si deve, come pure lavorare perché le aberrazioni della storia non si riproducano più (e ciò comporta che non se ne parli semel in anno – 27 gennaio, 10 febbraio o 24 aprile che si voglia); deponendo però ogni recriminazione vittimistica e ogni speculazione politica. Pena il vanificare anche gli sforzi più sinceri. La via cristiana – il magistero pontificio è concorde e armonioso nell’indicarlo dal 1894 in qua – è un’altra.

Il sospetto di eresia e l’apologo dei piccioni

La visione politica – nel senso più alto del termine – non è prodotta direttamente dal fatto cristiano, ma scaturisce come “effetto collaterale” dello stile di vita che l’Evangelo propone agli uomini di ogni tempo. La dignità umana – cioè dei lavoratori, dei migranti, dei nascituri, degli anziani, dei malati… – discende filosoficamente e giuridicamente dallo stupore religioso che il credente prova nello scoprirsi salvato da Cristo malgrado un debito per lui incolmabile.

Di questa comune condizione umana ebbe vivissima coscienza Gregorio di Narek; non a caso a suo tempo, commentando il conferimento del titolo dottorale all’Armeno, il compianto gesuita Giandomenico Mucci scriveva su La Civiltà Cattolica:

Gregorio si serve di un genere letterario, penthos o katanyxis, ben noto all’antichità cristiana orientale, dai Padri egiziani del deserto a Origene, da Efrem a Giacomo di Sarug a Evagrio Pontico, fino a Simeone il Nuovo Teologo. È l’espressione accorata dell’uomo redento che lamenta il proprio tradimento nei confronti della salvezza gratuitamente ricevuta e colpevolmente perduta, e desideroso di essere nuovamente perdonato e purificato[7]. La ripetizione del mełay (ho peccato), è la porta della rinnovata salvezza, la «sorella del battesimo»[8]. La confessione personale di Gregorio è la confessione di tutta l’umanità, comunanza nel peccato e nel bisogno di implorare salvezza. Educato dai Salmi, Gregorio si è fatto voce e partecipe dell’umanità peccatrice, della sua vergogna, della sua lode e della sua speranza.

Se il peccato è il motivo dei gemiti e delle lacrime, e la coscienza del suo dominio nella storia degli uomini tinge di pessimismo le pagine di Gregorio, nel Matean non è assente la celebrazione della misericordia come l’attributo più glorioso di Dio, che è «tenerezza»[9]. Dinanzi alle tenebre e alla miseria creaturale, la misericordia manifesta l’amore di Dio come pura grazia. Questo taglio esistenziale, che pure è centrale in Gregorio, si salda con il dialogo che dal profondo dell’umanità sale verso la Parola increata, che dalla creatura peccatrice e redenta entra in relazione con la Parola del Padre.

Come Giovanni d’Avila e Ildegarda di Bingen, anche Gregorio di Narek fu guardato di sottecchi: se non sappiamo ancora che cosa significasse esattamente la parola “dzaîth” (quella che descriveva il capo d’accusa), la sostanza sembra essere affine a qualche grado di eresia. Introducendo nel 1961 quella che a tutt’oggi resta tra le edizioni occidentali di riferimento del “Libro di preghiere” di Gregorio, il gesuita Isaac Kéchichian riportava un gustoso aneddoto agiografico:

I vescovi e i principi mandarono una delegazione di uomini fidati presso Gregorio perché lo conducessero al loro tribunale per esservi interrogato sulla sua fede. I delegati arrivati a Narek, Gregorio comprese le loro intenzioni. Disse quindi loro: «Mettiamoci prima a tavola, prima di prendere la strada». Fece arrostire due colombi e li mise davanti ai suoi ospiti. Solo che quel giorno era un venerdì. Quelli, scandalizzati, si confermarono nel sospetto che quanto [gli invidiosi N.d.R.] avevano detto di Gregorio fosse vero. Gli dissero dunque: «Maestro, ma oggi non è venerdì?». Il santo, facendo come se non lo avesse saputo, rispose loro: «Perdonatemi, Fratelli miei». E rivolgendosi ai piccioni: «Forza, tornate alla vostra voliera, perché oggi è giorno di astinenza». E gli uccelli – ritrovate all’istante vita, piume e penne – se ne volarono via. Vedendo ciò, gli inviati caddero ai piedi del Santo implorando perdono; e se ne tornarono raccontando il prodigio a quanti li avevano delegati. I quali infine furono presi da timore e tacquero.

Isaac Kéchichian, Introduction in Id. (ed.), Grégoire de Narek, Le livre de prières, Paris 1961, 34

Un san Bernardo armeno

L’insistenza di Gregorio sull’intimo nesso tra l’immane miseria umana e l’infinita misericordia divina dovrebbe far riflettere quanti – purtroppo anche tra gli studiosi – azzardano talvolta la sgangherata opinione per cui sarebbe stato il genio agostiniano a instillare nella cristianità occidentale, prettamente latina, un certo “pessimismo antropologico” (che non esiste, a rigor di termini, neppure nell’Ipponate…). Vale la pena ricordare che, nella sua Introduction, Kéchichian raccordò l’Armeno – il quale leggeva i Padri, sì, ma praticamente quelli armeni, quelli greci e quelli siriaci – con alcuni degli spiriti più alti normalmente segnalati nella “genealogia agostiniana”:

Gregorio si unisce a Pascal per cantare la miseria e la grandezza dell’uomo. L’uomo ha peccato, sì, ma Cristo è venuto per salvarlo e donargli vita eterna. All’uomo spetta riconoscere umilmente la propria miseria, sperare da Dio la misericordia, risollevarsi e condurre quindi una vita che piaccia a Dio.

Ivi, 47

Addirittura Pascal, l’arcinemico del proprio ordine religioso (si ricordi che chi scriveva queste parole era un gesuita)! E poi, a ritroso nelle pagine precedenti i grandi spagnoli:

Gregorio è un puro mistico, niente di malsano si trova in lui: lo si annovera nella schiera dei grandi mistici come santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce […].

Ivi, 45

Commentando – prima ancora – il Panegirico della Santa Vergine, il gesuita curatore dell’opera ricordava che quello

è un capolavoro in cui si mescolano intimamente la dottrina più profonda, il genio poetico e i sentimenti di tenera pietà verso la Theotòkos. Se fosse stato scritto in latino, se ne sarebbe indubbiamente attribuita la paternità a san Bernardo di Chiaravalle.

Ivi, 37

In sintesi, e ignorando con libertà di studioso certe mode storiografiche, il curatore concluse:

L’accento messo da Gregorio sulla propria miseria, sulla necessità della rinuncia, non tradisce una dottrina erronea; proviene da un’ottica assai personale, da una sensibilità religiosa molto acuta e si trova d’accordo con la spiritualità monastica dell’epoca e – possiamo dirlo – di tutte le epoche.

Ivi, 47

Due inni di compieta dalla Liturgia armena

In ragione del fatto che questa raccolta di poemi sacri fu l’ultima opera di Gregorio (correva l’anno 1002: una certa tradizione, non abbracciata dal curatore, vuole inoltre che la morte avrebbe visitato l’Armeno l’anno successivo), Kéchichian definì il Libro di Preghiere «il canto del cigno» (p. 39) di Gregorio.

Lungo e complesso sarebbe trattarne sia pur generalmente la materia (un utile primo sussidio sta del resto nel già ricordato articolo del padre Mucci), ma volendo offrire al lettore italiano un paio di perle da questo scrigno scegliamo volentieri il terzo paragrafo della dodicesima preghiera e l’intera quarantunesima (sono 95 in tutto), che la Liturgia delle Ore armena ha raccolto nel proprio Breviario per gli uffici di Compieta. Qui di seguito subito la prima:

Accogli con soavità, o Signore Dio potente,
la supplica di colui che per Te è stato fonte di amarezza.
Avvicinati a me nella tua compassione,
mentre il mio volto è coperto di confusione. |

Dissipa, o Liberalissimo Signore, la mia tristezza piena di vergogna.
Solleva dalle mie spalle, o Misericordioso, il mio intollerabile fardello.
Allontana da me, Tu che tutto puoi, le mie abitudini mortali.
Saccheggia, o Sempre Vittorioso, i piaceri dell’Ingannatore.

Dìssipa, o Altissimo, le tenebre del demonio furibondo.
Impedisci, o Sorgente di vita, gli assalti di colui che conduce alla perdizione.
Anniente, Tu che vedi il fondo dei cuori, le macchinazioni infernali del Tentatore.
Distruggi da cima a fondo, o Imperscrutabile, gli attacchi del Nemico.

Traccia col segno della Croce il tuo nome
sul lucernario della mia casa.

Proteggi con la tua Mano
il tetto della mia abitazione.

Segna con il tuo Sangue
gli stipiti e l’architrave della porta della mia cella.

Imprimi il tuo Segno
sulle tracce dei passi di chi ti supplica.

Proteggi con la tua Destra
la branda su cui riposo.

Sgomina da ogni trappola
la coperta del mio letto.

Difendi con la tua volontà
il mio animo in difficoltà.

Conserva intatto
il soffio di cui tu hai gratificato il mio corpo.

Colloca attorno a me
le truppe della tua armata celeste.

Serrane i ranghi per la battaglia
contro la banda dei demonî.

Dammi un riposo dolce,
nel mio sonno simile alla morte,
nel corso di questa profonda notte
per intercessione della tua santa e divina Madre
e di tutti gli Eletti. |

Metti al riparo in un grande raccoglimento
il mio senso della vista, facoltà che mi dà la conoscenza:
degnati di conservarlo sereno e libero da ogni spavento

contro i pericoli tumultuosi,
gli affanni di questa miserabile vita,
le fantasticherie dei sogni
e gli incubi spaventosi.

Fa’ che ricordandomi della tua speranza
io dimori indenne, protetto da Te.

E che scuotendomi nuovamente dal mio pesante sonno,
perfettamente risvegliato,
stabilito in Te per un giubilo che rinnovi l’anima,
io possa innalzare al cielo verso Te
la voce della mia preghiera col profumo della Fede,
o Re di gloria ineffabile, degno di ogni benedizione,
unendomi al canto di lode delle milizie celesti.

Infatti tu sei glorificato da tutte le creature
nei secoli dei secoli.

Amen.

Ivi, 103-105

Ed ecco la seconda:

I

Figlio del Dio vivente, Benedetto in ogni cosa,
imperscrutabilmente generato dal formidabile Padre:
assolutamente nulla Ti è impossibile.

Quando si levano i raggi privi d’ombre
della tua misericordia, della tua gloria,
i peccati fondono,
i demonî vengono scacciati,
distrutti i peccati;

spezzati i vincoli,
sbriciolate le catene,
i morti rinascono alla vita;

sono guarite le ferite,
cicatrizzate le piaghe,
neutralizzate le putrefazioni;

scompaiono le tristezze,
cessano i gemiti;

fuggono le tenebre,
si dissipa la nebbia,
la bruma viene aperta
e svanisce l’opacità;

termina il crepuscolo,
si dilegua l’oscurità
e se ne va la notte;

è bandita l’angoscia,
sono soppressi i mali,
cacciati i moti disperanti: |

regni dunque la tua Mano onnipotente,
o Tu che per tutti espii.

II

Tu che non sei venuto per rovinare le anime degli uomini,
ma per vivificarle,
rimettimi le mie innumerevoli malizie
nella tua grande misericordia:

Solo tu, infatti, sei ineffabile nel Cielo
e invisibile sulla terra,
in ogni atomo dell’essere
e fino agli estremi confini dell’universo;

Principio di tutto
e in tutto, in ogni pienezza,
Benedetto nel più alto dei cieli!

A Te dunque, con il Padre e con lo Spirito Santo,
sia la gloria nei secoli dei secoli.

Amen.

Ivi, 240-241

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