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I vaccini? Leciti ma a certe condizioni. La posizione della Chiesa

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 26/08/20

Il Covid 19 e la possibilità che - finalmente - ci sia un vaccino per eradicarlo riaprono una questione spinosa circa l'utilizzo di materiale fetale

La corsa al vaccino per debellare il Covid-19 è iniziata da tempo e coinvolge tutti i paesi, tutti cercano di essere i primi, non solo per ragioni umanitarie ma anche geopolitiche. Tutto questo da un lato fa sperare che gli sforzi di così tanti paesi rendano presto disponibili uno o più vaccini funzionanti, che permettano in un tempo ragionevole di avere un vaccino su scala industriale e dunque una cura efficace e permanente. Qualcosa che ci faccia tornare il prima possibile alla normalità insomma. Dall’altro lato questa fretta rischia di far saltare alcuni passaggi di cautela o di cercare di imboccare la strada più breve invece di quella più giusta.


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E’ la preoccupazione di chi – in molti dei paesi coinvolti – chiede che questo nuovo vaccino sia il più possibile immune dall’uso di materiale proveniente da feti abortiti. E’ una richiesta comprensibile, che viene spesso da personalità del mondo religioso e in particolare si segnalano le richieste dei vescovi americani e australiani. Ma attenzione: se la richiesta, il dubbio, lo scrupolo morale sono legittimi, è importante capire se davvero siamo di fronte ad un illecito morale. Che forse non c’è in questo caso. Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, molto opportunamente spiega i termini della questione sollevata dai presuli australiani:

Come ha rivelato la rivista Science nel giugno scorso, almeno cinque di essi – tra cui quello studiato a Oxford con l’azienda AstraZeneca, prenotato in grande quantità anche dall’Italia – utilizzano, per il loro sviluppo, due linee di cellule fetali umane ottenute da aborti volontari in donne gravide: la HEK-293 (linea cellulare renale fetale isolata da un aborto intorno al 1972) e la PER.C6 (linea retinica ottenuta da un feto di 18 settimane abortito nel 1985). Entrambe le linee cellulari sono state elaborate nel laboratorio del dottor Alex van der Eb (Università di Leiden, Olanda) e sono utilizzate nei laboratori di ricerca e delle industrie biotecnologiche. In quattro dei candidati vaccini le cellule HEK-293 o PER.C6 derivate da quelle originalmente prelevate dai feti abortiti sono utilizzate come “mini-fattorie” per produrre grandi quantità di adenovirus in cui è inibita la replicazione e che servono per introdurre alcuni geni del coronavirus SARS-Cov-2 nel vaccinato così da indurre la produzione di proteine virali e stimolare la risposta immunitaria. Nel quinto potenziale vaccino, le cellule HEK-293 servono per produrre in laboratorio la proteina spike del SARS-Cov-2 che sarà iniettata nella cute con cerotto a microaghi (skin patch) per innescare la reazione immunitaria.

Tuttavia la risposta è già in queste poche righe. Il materiale biologico su cui lavorano oggi biologi e medici è la replica, della replica, della replica di quel tessuto ottenuto da aborto volontario. Se il campione originario era il frutto di atto doloroso – e moralmente deprecabile – la sua replica in laboratorio lo rende un materiale genetico coltivato attraverso la mitosi.




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Se mi passate la similtudine: se la prima volta fu “furto”, al centesimo passaggio di mano, chi acquista è ancora colpevole? Probabilmente no, perché ottenuto con procedure di replicazione che non coinvolgono più una persona, ma del tessuto. Inoltre c’è il problema dell’alternativa. Che a volte c’è e a volte no, ed è bene dunque sollevare la questione, provare alternative (il quinto vaccino in esame) e implementarle se funzionano. Ma poi c’è anche la questione del male minore, e qui si parla di milioni di persone malate, centinaia di migliaia di morti, e anche di queste vite bisogna tenere conto.

Questa richiesta è conforme a quanto espresso nel documento del 2005 della Pontificia Accademia per la Vita, ripreso da una nota della stessa Accademia del 2017 (insieme con Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei), e trova ampio consenso tra gli studiosi di teologia morale. È evidente l’obbligo morale di tutti i soggetti coinvolti nella ricerca, nella produzione, nella commercializzazione e nella somministrazione di un vaccino (ciascuno dei quali ha responsabilità differenti verso l’uso di cellule fetali da aborti elettivi in ordine al vaccino stesso) di dissociarsi formalmente e pubblicamente dall’atto di aborto che è all’origine remota della produzione di linee cellulari fetali. D’altra parte, si evidenzia la liceità dell’uso pro tempore di questi vaccini – nella misura in cui essi rappresentino una condizione necessaria e proporzionata per tutelare la salute e salvare la vita dei cittadini – in attesa della disponibilità di altri mezzi profilattici vaccinali o non vaccinali efficaci (Avvenire).

L’Accademia Pontificia per la Vita nel 2005 spiegava i termini di liceità in maniera molto particolareggiata, su Aleteiane demmo conto in questo articolo approfondito del 2018:

La nota circa l’uso dei vaccini del 2005 della Pontificia Accademia per la Vita, dopo una articolata precisazione in particolare dei concetti di cooperazione formale (quando si condivide l’intenzione cattiva) e materiale (quando non si ravvisa questa corrispondenza di propositi), giungeva alle seguenti conclusioni: – Esiste il dovere di usare vaccini alternativi (non preparati a partire da cellule di feti abortiti) quando esistenti e disponibili, e di ricorrere all’obiezione di coscienza rispetto a quelli che comportano problemi morali; – Bisogna lottare per la realizzazione di vaccini alternativi quando non ancora approntati; – Viene ammessa la liceità dell’uso dei vaccini senza alternative, moralmente giustificata quando necessario per evitare un pericolo grave per i propri bambini e per la popolazione in generale, in primis le donne in gravidanza; – Questa dichiarazione di liceità non deve essere letta come un’approvazione alla loro produzione, commercializzazione ed utilizzo, ma come extrema ratio di fronte al dilemma morale dei genitori di agire contro coscienza o mettere in pericolo la salute dei propri figli ed in generale della comunità di cui si è parte.

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