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“Padre, mi battezzi perché voglio vivere!”, un racconto di amore e conversione in Venezuela

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Macky Arenas - pubblicato il 15/12/19

Questa la richiesta di un giovane che stava per morire in un ospedale di Caracas

All’inizio dell’Avvento – periodo di attesa –, un gruppo di volontari, accompagnati da un giovane sacerdote, visitava un noto ospedale della capitale venezuelana, Caracas. È un gruppo composto dai genitori degli allievi di una scuola agostiniana – venezuelani di origine portoghese – che formano una confraternita che si prepara per tutto l’anno per rallegrare le strutture sanitarie nel mese di dicembre, cantando, suonando e offrendo doni e cibi tipici di questo periodo ai malati e alle loro famiglie.

La gioia è nella musica e nel messaggio spirituale che serve tanto in questo momento al cuore umano – parole di incoraggiamento, fede e speranza.

Un miracolo d’amore e di conversione

Un paio di settimane fa, il gruppo si è recato all’Hospital Luis Razetti, dal nome di un grande scienziato venezuelano. Quando era lì, è accaduto qualcosa che resterà per sempre nella memoria di tutti, un’esperienza che ha dato ancor più senso allo sforzo dei volontari e ha mostrato loro l’importanza di avere con sé un sacerdote in alcuni momenti gravi.

Mentre alcuni erano con padre Vivas in una stanza, un’altra parte del gruppo ne visitava una attigua. All’improvviso, una delle signore è entrata correndo: “Padre, c’è urgente bisogno di lei!” Il sacerdote è accorso immediatamente, e ha trovato un giovane di 19 anni in fase terminale. Padre Nicanor Vivas – un giovanissimo sacerdote nato a Los Andes e che serve a Caracas – ha raccontato emozionato quello che gli ha chiesto il malato: “Padre, mi battezzi! Per favore, lo faccia ora, perché voglio vivere”. Semplice e diretto.

“Mi è venuta voglia di piangere”, ha confessato il sacerdote. “Quel ragazzo mi ha chiesto di battezzarlo per poter fare la Prima Comunione, perché voleva vivere”.

Una richiesta carica di simbolismo. Il giovane voleva un miracolo per continuare a vivere, ma non immaginava nemmeno che per lui stesse per iniziare la vita, la vera vita. Per i cristiani, il messaggio è chiaro: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me, e io in lui… anche se muore, vivrà per sempre.

Padre Nicanor ha proseguito il suo racconto con le lacrime agli occhi: “Mi ha detto ‘Padre, sono evangelico ma voglio battezzarmi’. E questo fa riflettere. Si studia tanto, si accumula conoscenza, ma poi si viene disarmati dalla semplicità di una richiesta. E ho dato tanto valore al fatto di essere presente lì, in quella circostanza! Il ragazzo mi ha mostrato un’immagine di José Gregorio Hernández che aveva con sé. ‘So che José Gregorio mi curerà’, diceva. ‘Ma per favore, mi battezzi perché mi possa comunicare’. È stato molto forte. La fede di quel ragazzo era commovente. Per me è stato difficile trattenere le lacrime”.

Il sacerdote gli ha chiesto quanti anni avesse. Ne aveva 19 e poteva decidere. La madre e gli zii sono evangelici. “La madre non voleva”, ha ricordato, “ma lui le ha preso le mani, l’ha guardata negli occhi e lì ho visto lo sguardo di Dio verso suo Figlio. Lei sapeva che sarebbe morto. Il ragazzo si è girato verso lo zio e gli ha chiesto di essere il padrino, ma lo zio ha rifiutato essendo evangelico. Il ragazzo insisteva, e ho chiamato una delle signore che mi accompagnavano, Nelly de Abreu, che ha accettato di essere la sua madrina. Lo abbiamo battezzato lì. Poi tutti sono usciti. Abbiamo fatto la Confessione e ha ricevuto la Prima Comunione”. Tutti hanno visto la pace che ha invaso il ragazzo, e pregavano con lui e per lui.

Due giorni dopo hanno chiamato per informare della morte del ragazzo. “Il giovane che ha battezzato è morto”. Erano comunque contenti di aver esaudito il suo desiderio e di essere stati gli strumenti perché potesse entrare battezzato nel Regno di Dio. La sua madrina, Nelly, ha pagato tutte le spese per riportare il giovane nel suo paese. “È stata un’esperienza bellissima, che ci ha riempiti di fiducia in Dio”.

“Episodi come questo ci dimostrano che la vita ha una missione, e rafforzano la convinzione che le nostre confraternite esistano per aiutare i bisognosi e alleviare la situazione dei malati, la loro anima, perché sentano la vicinanza del prossimo, perché chi soffre veda in noi il volto di Dio. Che il Signore non ci abbandona, e che nonostante la malattia, le ristrettezze, le privazioni e le miserie Dio ci mette sempre accanto qualcuno che ci mostra che la croce può essere più leggera”.

“Ne siamo usciti evangelizzati”

Nelle visite agli ospedali si vede di tutto: bambini di appena sei mesi malati di cancro, piccoli di ogni età con malattie incurabili che portano a interrogarsi sul senso di quella sofferenza in creature innocenti.

“Vedere il sorriso di quei bambini ci insegna molto”, ha affermato il sacerdote. “Portiamo non solo cose materiali, ma anche affetto, amore, coraggio, e siamo noi a uscirne evangelizzati. Usciamo con più voglia di continuare a lavorare e a ringraziare Dio per il poco che abbiamo, riconoscendo quello che ci offre. Coinvolgiamo nelle nostre attività i figli dei membri delle confraternite. Quando arrivano a casa, apprezzano e valorizzano di più la mamma e il papà. È incredibile come si avvicinano maggiormente ai nonni dopo aver visitato gli ospizi”.

Il protagonista del nostro racconto se ne è andato, ma la sua vita è oggi più piena di quanto sia mai stata. Ha trovato la guarigione. Aspettava la morte e ha trovato la vita. La sua speranza aveva senso. E la sua famiglia ha vissuto un momento di comunione senza comunicarsi perché ha ricevuto l’affetto, la vicinanza e il sostegno di un gruppo di cattolici che ha assistito il figlio nel momento cruciale del suo incontro con l’Eterno.

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