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Sacerdoti smarriti e soli: più uomini di Dio e meno macchine da pratiche

PRIEST

Lia Koltyrina | Shutterstock

Don Fortunato Di Noto - pubblicato il 15/08/19

Alcuni appunti di don Fortunato di Noto sul sacerdozio e i tempi attuali

«Il sacerdote è come una campana
Che vien dal Santo Spirito percossa
Perché chiami a Gesù la gente umana».

(da C. Rebora, Il sacerdote)

«Ho perso la identità, non so perché sono un prete, dopo anni di sacerdozio: solo, immerso nel da fare e non nella spiritualità del dono del sacerdozio ministeriale. Ho perso il senso del battesimo, qualora lo avessi mai avuto. Tanta teologia, poca vita. Tanti amici, nessuna comunità di credenti. Lascio perdere …. Non ho più un punto di riferimento, vescovi burocrati che hanno dimenticato l’essere preti, anche loro».

Sono alcune delle espressioni che spesso mi vedo rivolgere da fratelli nel sacerdozio e a cui non ho sempre pronte risposte od orientamenti. Smarriti e confusi. Non sono pochi. Ciò non significa che, chi scrive, abbia chiare alcune questioni, ma una cosa almeno è fondante: non perderò la bellezza di questa chiamata. Amo il Signore e farò di tutto per farlo amare da chi non lo conosce, il resto è evanescenza.

Prima di essere preti, siamo dei figli, fratelli, battezzati e in cammino di conversione, ogni giorno. L’identità di noi preti è quella che ci indica Gesù Cristo e la millenaria tradizione della Chiesa; facendo memoria della feconda esperienza e testimonianza di chi non ha mai rinunciato a questa chiamata. Se senti questa chiamata, affidati a chi la vive pienamente, oltre e con le fragilità umane, superate e vinte. Guarite. Il dono della guarigione perché uomini feriti e fragili. Gli anziani preti, i patriarchi nella fede potrebbero molto aiutarci. Nei Seminari inserirei nell’équipe formativa, stabilmente, dei preti di venerata età: adulti nella fede, forti nella tribolazione, solidi nella debolezza.


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In questo tempo stiamo vivendo una condizione di smarrimento, di solitudine, di abbandono e sfiducia e quando si smarrisce “l’anziano della comunità” (pur essendo un giovane prete!) si disorientano anche i fedeli in Cristo, i fratelli e le sorelle nella fede: «il sacerdote è come il buon lumino. Quando l’altare è solo, e i ceri spenti, Sempre, per tutti, a Lui arde vicino» (Rebora). Quando l’altare è solo, accade che anche in Lui, non arde il cuore.

Un detto di un amico Vescovo africano ricorda che se non vogliamo disperdere le nostre comunità, non dobbiamo fare andare via il sacerdote dal villaggio. Occorre aiutarlo a restare nella sua terra, nella sua parrocchia, se necessario “dargli da mangiare” affinché lui dia da mangiare.

Un chiaro invito alla comunità a essere vicino al suo sacerdote, sempre che lui voglia questa vicinanza, una fraternità nella fraternità dove la comunità gli stia vicino, lo ami e si faccia amare come battezzato, fratello e chiamato a presiedere e guidare la comunità redenta e credente. Dove e per la quale, oltre le cose da fare, la carità pastorale, che ha la sua sorgente specifica nel sacramento dell’Ordine, trovi la sua espressione piena e il suo supremo alimento nell’eucaristia: «Questa carità pastorale – leggiamo nel Concilio – scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, cosicché l’anima sacerdotale si studia di rispecchiare in sé ciò che viene realizzato sull’altare» (cfr. Pastores dabo vobis, 23). L’eucarestia sia fons et culmen di tutta la vita sacerdotale, in e di tutti i fedeli. Eucarestia sostituita con brainstorming dopo incontri fiumi senza obiettivi. Se vivessimo almeno la domenica, giorno del Signore, l’autenticità donata dell’Eucarestia…




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I complessi cambiamenti in atto nella Chiesa e nella Società, sovraccaricano la vita di un prete, la comunione con i fratelli presbiteri, i rapporti incrinati con il Vescovo e i pregiudizi che alimentano le relazioni con la comunità affidata. Viviamo in un clima di insicurezza che non è solo legato alle persecuzioni (gravissime!) dei cristiani o la decimazione (un orrore!) delle comunità cristiane nei luoghi dove si è già minoranza. Perché non pensare anche al “nonnismo clericale”, quella sorta di “bullismo ecclesiale” che non permette di fare risplendere le meraviglie che il Signore opera in ognuno di noi.

Nonnismo e bullismo clericale è l’appesantimento delle molte cose troppe cose da fare, le tante supplenze richieste, i ritmi di vita accelerati per il da farsi infecondo; provocano una sorta di “crisi” del ruolo del presbitero che non intacca direttamente la sua identità quanto il suo stile e il suo modo di “fare il prete”. Non sappiamo se le eresie intraecclesiali, così come le chiama Erich Przywara (gesuita e genio solitario, maestro che influenzò grandi teologi e filosofi europei come Balthasar e Rahner) quali spiritualismo, intellettualismo, obbedienza formale e collettivismo acuiscano o meno la crisi del prete, e/ o quella della comunità ecclesiale. E’ evidente che queste sono delle tentazioni contro l’amore (amatevi gli uni gli altri, come vi ho amato) e hanno in comune l’intento di introdurre l’agape in una logica umana, in modo da renderla visibile e dominabile: una festa nuziale, senza Gesù.




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Queste tentazioni hanno la forza suadente di modernità presbiterale (cosa che può starci!) ma che nega la ricchezza della Tradizione, della Scrittura e del Magistero e spesso senza comunione con il Vescovo: «La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio» (Pastores dabo vobis, 23).

Chissà perché il presbitero si trova ingolfato, con mille impegni, in una prassi pastorale attuata in un contesto culturale che si va sempre più scristianizzando, con il relativismo imperante anche nella fede credente, così che, vedendo andare a vuoto buona parte della sua fatica, egli prova un sentimento di disagio con il perdurante rischio delle derive e naufragi esistenziali. Il pericolo per tutti: invece di essere uomini di Dio, diventare macchine da pratiche. Illuminante quanto scrive Papa Francesco e non solo lui. Di questo disagio e smarrimento più volte ne ha parlato Papa Francesco, richiamando i sacerdoti, per ricordare la bussola spirituale, ad “avere un rapporto intimo con Gesù (…) e a non essere un prete farfalla: “che si allontanano da Gesù e così perdono l’unzione, e invece di essere unti finiscono per essere untuosi” (Omelia 11 gennaio 2014).


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Francesco rivolgendosi ancora ai presbiteri sottolinea che «c’è anche la malattia dell’”impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e la “testa dura” (cfr At 7,51); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace”. di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40)» (Discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014). Ecco le ragioni di un continua e permanete “scelta d’amore”: una spiritualità concreta per cui la chiesa e le anime diventano il suo interesse principale. Amo il Signore e farò di tutto per farlo amare da chi non lo conosce, il resto è evanescenza.

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