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Elena: nostra figlia Ester è vissuta un’ora e ha fatto nuove tutte le cose

ESTER CORTESI
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Annalisa Teggi - pubblicato il 01/08/19
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Una diagnosi di anencefalia alla prima gravidanza e una famiglia che vive appieno la compagnia di Dio nel cammino di una nascita sofferta. “A chi mi chiedeva – dice mamma Elena – come mi sentivo a portare nella pancia una bimba così, rispondevo: piena di Grazia”. Cos’è una presenza? Qualcuno il cui essere cambia la realtà, semplicemente riuscendo a indirizzare il nostro sguardo al vero senso della vita. Dunque, ci sono vite che s’impongono ai nostri occhi a voce alta, con mille fuochi d’artificio mediatici, eppure non ci schiodano di un millimetro dal male di vivere, dall’inerzia di un cuore spento. Sono molto grata di aver conosciuto la famiglia di Elena e Pietro a cui è stato chiesto di dare una testimonianza alle strane meraviglie di Dio, che sposta montagne grazie a presenze vere, piccolissime. Alla loro prima figlia, Ester, è stata diagnosticata un’anencefalia; è stata con loro per nove mesi nella pancia e poi è vissuta un’ora. Il dolore e la sofferenza fanno parte di questa storia, ma dentro il calvario è stato evidente vedere il prodigio di una vita piccolissima che ha compiuto in pienezza il suo destino.

Cara Elena, grazie di condividere con Aleteia For Her la storia di tua figlia. Comincerei il racconto dalla tua ipotesi di famiglia, come è nata?

Io e Pietro ci siamo fidanzati nel 2009; ci siamo conosciuti all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dove io lavoravo in un laboratorio di ricerca nel campo delle staminali e mio marito si stava specializzando in cardiologia. Dopo 4 anni ci siamo sposati, alle spalle io avevo l’esperienza dell’Azione Cattolica, lui il cammino Scout: una delle cose che abbiamo avuto a cuore fin da subito, e da una frase a un incontro, è stata quella di custodire il matrimonio come fosse il nostro primo figlio. Per i primi due anni abbiamo coltivato questa coscienza, anche perché non sono arrivati bambini. A Santo Stefano del 2015 abbiamo scoperto che ero incinta, ed è stata un’emozione enorme.


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È stata una grande sorpresa di Natale?

Ci speravamo molto e quindi siamo stati felicissimi. Tranquillamente ho cominciato gli esami di routine e ho fatto la prima ecografia alla 11esima settimana. Era il 17 febbraio del 2016, Pietro venne con me. Il nostro stupore è esploso quando abbiamo sentito il battito del cuore; subito dopo la dottoressa ha notato dei problemi alla testa, dove troppi erano gli spazi vuoti. La parte cerebrale sembrava non sviluppata bene. È stato come cadere in un burrone. La dottoressa, che ringrazio ancora, è stata molto delicata con noi. Ha chiesto un consulto al suo collega e insieme avevano ipotizzato una malformazione cerebrale dal nome mai sentito. Ricordo il magone al ritorno a casa da quella visita, mia madre che ci aspettava a pranzo per fare festa. Mi ripetevo: “Non ci avrei mai pensato, come è possibile?”. Avevo il cuore pieno d’amore per il figlio che c’era nella pancia, ma il cuore era anche completamente straziato.

Dubbi?

A livello teorico io sono sempre stata pro-vita, sono volontaria al CAV, però, finché non provi la vertigine su di te, non sai se qualche ipotesi diversa si infila nella testa. Nel momento in cui ho ricevuto la prima diagnosi il mio pensiero è stato: questo figlio sta così male, tanto più dobbiamo stargli vicino. Insieme allo strazio e alla preoccupazione, il cuore si è riempito solo di questa cura. L’unica domanda era: come possiamo sostenere noi questa situazione?

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Pietro ed Elena Cortesi

Ecco. Hai detto “noi”. Quando si cavalca teoricamente la battaglia dell’aborto si insiste sull’esclusiva della donna sul suo corpo e le sue scelte. Mi pare di intuire che tu abbia uno sguardo diverso, la gravidanza è qualcosa di cui è protagonista anche il papà. È l’esperienza, appunto, di un noi. Il “primo figlio” che era il vostro matrimonio e che avevate custodito per due anni vi ha aiutato in quel momento?

La Grazia che c’è nel Sacramento del matrimonio noi l’abbiamo invocata tantissimo e il Signore ce ne ha riversata a fiumi. Accudire questa figlia è stata un’esperienza che ha accresciuto la nostra fede. La Grazia di Dio ci ha sostenuto per nove mesi di fronte alla vertigine: “Come faremo?”. Poi io e Pietro siamo riusciti ad aprirci nel dolore reciproco, a non chiuderci nella nostra ferita. Non abbiamo voluto vivere da soli il nostro dolore. Da subito, e non lo si può dare per scontato, quello che io ho sentito come mamma, lui l’ha sentito come papà ed era: accogliere questo figlio. Dopo di che, non avevamo la minima idea di come fare.



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E sul versante medico siete stati accompagnati oppure si è mostrata forte l’obiezione a una gravidanza così complicata?

Il giorno dopo quella prima visita ecografica, vista la gravità della situazione, siamo andati a Bologna a fare un’altra ecografia. Occorreva capire meglio con cosa avevamo a che fare. Il medico che ci seguì quel giorno ci confermò il quadro già emerso. Quando mio marito, quasi in uno slancio per non incupire totalmente l’orizzonte, ha chiesto se si vedeva il sesso del bambino, il dottore replicò: “Ma cosa mi chiedete? Questa è una gravidanza persa”. Quel giorno ho deciso che non avrei mai più incontrato un ginecologo così. È stato un mio impegno nel costruirmi un percorso fino alla nascita.

E la vostra reazione di fronte a quelle parole così chiare nel negare la vita?

Io e mio marito abbiamo accusato il colpo, quel giorno. Ci siamo seduti in sala d’attesa, dovevo fare altri esami più tardi, e a me è venuto spontaneo aprire il messalino, per leggere le letture del giorno. La prima lettura era la preghiera di affidamento della regina Ester: un pericolo mortale incombe, si parla anche di un leone cattivo che mostra la sua violenza, e lei si affida totalmente a Dio. L’ultimo passaggio di quella lettura ha fatto sussultare sia me che Pietro perché era: “volgi il nostro lutto in gioia e le nostre sofferenze in salvezza”. Ci siamo guardati, il giorno prima eravamo assolutamente confusi, in quel momento abbiamo visto un segno chiarissimo di Dio. A quel punto è stato altrettanto chiaro che se fosse stata una femmina si sarebbe chiamata Ester. Noi abbiamo cominciato a guardare ciò che accadeva con l’ipotesi: non capiamo perché, ma camminiamo su questa strada in cui è evidente che ci sia qualcosa di grande. Da quel giorno abbiamo chiesto con la preghiera di capire sempre meglio come Ester fosse un dono per noi.

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Una voce chiara vi faceva compagnia…

Sì, in mezzo ad altre voci, anche di cristiani, che ci insinuavano una prospettiva di punizione: “Ma perché a voi, che siete così bravi, Dio doveva mandare una cosa del genere?”. Nelle letture fatte in quella sala d’attesa c’era già il nostro piano di viaggio, perché anche il Vangelo ci ha offerto una consolazione immensa: era il passo di Matteo in cui si dice che nessun padre dà al proprio figlio una serpe al posto di un pesce, figuriamoci se Dio può dare cose cattive ai suoi figli. Da quel giorno Dio ci ha preso per mano.


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Vi ha preso per mano in un cammino fatto di diagnosi, prospettive cupe, decisioni da prendere.

Sì, finché la diagnosi non è stata chiara c’è stato bisogno di fare molte visite, anche da un genetista. È stata un’altra tappa molto dura, peraltro era il Venerdì Santo quel giorno. Quel medico, rispettando la nostra scelta di accoglienza alla vita, ci ha fatto il quadro delle gravi disabilità fisiche e cognitive che la bimba avrebbe avuto. È stato il nostro venerdì santo. La diagnosi definitiva è arrivata con una risonanza magnetica, che ho avuto molto paura di fare: abitavano in me emozioni contrastanti, temevo di non reggere il colpo di ciò che sarebbe emerso. Dalla risonanza magnetica si vide che alla bambina mancava completamente il cervello: era anencefalia, significava incompatibilità certa con la vita extrauterina. Pur lasciando aperto lo spiraglio del miracolo, quello è stato il giorno in cui abbiamo avuto la chiarezza di ciò che dovevamo affrontare. Abbracciando mio marito, ho sentito in me la certezza che Dio era fedele: ci sarebbe stato accanto e ci avrebbe lasciato quella bambina per poco, perché la voleva Lui in Cielo con sé.

E il passo successivo qual è stato?

Si trattava a quel punto di capire a chi affidarci, quale struttura scegliere per la nascita di Ester. A guardare le cose a posteriori, mi rendo conto che su questo aspetto il Signore aveva già preparato un po’ la strada. Negli anni prima della gravidanza, per passione personale e per argomenti affini al mio lavoro, avevo letto i libri del ginecologo Giuseppe Noia, dei percorsi medici di chi accompagna bimbi terminali.

Questa esperienza di letture insieme all’incontro, senz’altro non casuale, con alcuni amici mi ha fatto mettere a fuoco l’ipotesi migliore per noi: il Sant’Orsola di Bologna, dove il 1 ottobre del 2013 è nato il “percorso Giacomo” per accompagnare un bimbo anencefalico. Sono spuntati i nomi di un ginecologo, Patrizio Calderoni, e della neonatologa Chiara Locatelli, che ho contattato e sono stati immediatamente premurosi con noi. Questo chiuse il cerchio del nostro percorso medico, che non è stato casuale ma fortemente cercato da noi. Aggiungo anche che la presenza di Ester ha cambiato i medici e il personale ospedaliero che l’hanno incontrata: anche per loro non è stato facile fare i conti con l’impatto di queste storie; certe divergenze con alcuni hanno generato amicizie che durano tutt’oggi.



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In effetti, noi stiamo ancora parlando di una bimba che non è nata, che quindi alcuni potrebbero equiparare a “niente”. Invece nelle tue parole lei è stata una presenza che ha fatto tantissimo. Come è stato il tuo rapporto con Ester per nove mesi?

Si muoveva tantissimo, ed è stata una gravidanza per me bellissima. Stavo così bene che ho lavorato fino all’ottavo mese. Volevo portarla con me in giro, volevo farle vivere tutti i luoghi che frequentavo. A luglio, un mese prima del parto, siamo andati qualche giorno in montagna a Sappada; come genitori volevamo trascorrere una vacanza con nostra figlia. Questa montagna si è misteriosamente incrociata con la nascita di Ester, perché il sacerdote a cui io e mio marito siamo legati e a cui volevamo chiedere di battezzare la bambina era via con gli scout il giorno programmato per il mio cesareo. Dov’era con gli scout? A Sappada. Il giorno in cui è nata Ester Don Euterio e i ragazzi sono saliti sul monte Peralba e hanno attaccato alla statua della Madonna una coroncina col nome di Ester. Mentre lei nasceva in terra, qualcuno la stava accompagnando verso il Cielo.

ELENA OLIVI

Stefano Olivi Ravenna – ITAL

La nascita, che esperienza è stata?

In generale, non è detto che i bimbi anencefalici nascano vivi e se nascono vivi, sopravvivono un’ora, qualche ora o al massimo una giornata. Il mio desiderio era che in ospedale fossimo circondati da chi poteva aiutarci e non solo da chi svolgeva compiti da protocollo. Desideravo che chi era accanto a me e a Pietro in quel momento avesse la nostra stessa certezza sulla dignità di vita di Ester. È stato proprio così. Appena nata, sono stata riaccompagnata in stanza con lei. Come tutte le mamme, sono andata in stanza con la mia bambina: questo è “il percorso Giacomo”ed è diventato ufficiale nel febbraio di quest’anno; i protocolli standard ci avrebbero separate, portando la bimba in rianimazione. Ester è vissuta circa un’oretta e mio marito e i nostri parenti più stretti sono stati presenti in stanza con noi; è stata battezzata, ha ricevuto anche la Cresima. Per noi è stata un’ora di Paradiso, lei aveva uno sguardo penetrante, presente e forse addirittura più consapevole di noi.


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Mi commuove chiedertelo, però ci provo. Cosa hai provato guardandola negli occhi?

Inevitabilmente ci si documenta quando si ha a che fare con una patologia così grave e, nel leggere, saltano fuori delle immagini. Una delle mie paure più grandi riguardo alla nascita era questa: come guardarla? Avevo timore di vederla brutta, l’ansia su questo era fortissima. Desideravo guardarla e amarla, temevo di non riuscirci. La psicologa dell’equipe mi aveva molto rassicurata a riguardo. E poi è nata. Hanno misurato i parametri vitali e me l’hanno messa immediatamente in braccio e c’è stata una grande commozione. Era mia figlia, era lo sguardo che desideravo. Ho avuto la certezza che lei stesse compiendo appieno il suo destino e anche noi abbiamo vissuto tutto in pienezza.

Un’ora di vita e poi il saluto. Il funerale che momento è stato?

Tutti i minuti che abbiamo avuto con lei li abbiamo vissuti. A posteriori, quel tempo che può sembrare poco si è spalancato come una fisarmonica. Ester mi ha trasmesso una pace incredibile: è venuta tra noi e poi ha avuto subito in dono la vita eterna. Certo, nei giorni successivi, tornare a casa senza stringere nulla, non è stato facile. Per il funerale abbiamo fatto tutto noi, io non credevo di essere capace di andare alla camera mortuaria, di scegliere i vestiti per la bara. Io e Pietro abbiamo fatto tutto insieme, anche con una certa naturalezza: essere insieme ci dava la certezza che con noi c’era anche la Grazia di Dio.

L’orefice che ha confezionato un braccialetto per Ester ci ha detto che quel lavoro è stato come una preghiera. Poi la sera prima del funerale ci è piovuta addosso anche la gioia: pensando alle ultime cose da preparare, io e mio marito sentivamo addosso la stessa trepidazione del giorno prima del matrimonio, quel fremito prima di una festa.

È stata una cerimonia condivisa?

L’abbiamo sepolta il 22 agosto, nella festa di Santa Maria Regina, e avevamo pensato di non dirlo troppo in giro. Alla fine abbiamo saputo che tante persone desideravano essere presenti, quelli che nei mesi precedenti avevano pregato per Ester. Ce lo manifestavano come bisogno personale, non solo come desiderio di sostenere noi. Non avrei mai pensato di vedere una chiesa gremita a fine agosto, di lunedì pomeriggio. È stato un giorno di gioia, in cui è sbocciato tutto ciò che la presenza di Ester ha fatto: le relazioni che ha creato, certi nostri legami di amicizia che sono stati rinnovati. Ester non è stata solo la mano che ci ha accompagnato in un percorso di fede, lei ha aperto tante porte … finestre … ha lavorato tanto nel cuore di tante persone che hanno sentito la sua storia. Scopriremo tante altre cose che ha fatto, oltre quelle che sappiamo già. Ne sono certa.

ESTER CORTESI

Famiglia Cortesi

Oggi con voi c’è Davide, che è nato quattro mesi fa. Come state tu e Pietro?

La nascita di Davide ha riaperto i rubinetti delle lacrime, però anche attraverso la sua presenza Ester continua a farci compagnia: quando la gente mi chiede se lui è il primo figlio, devo raccontare cosa è accaduto prima. Davide è nato al Sant’Orsola come Ester, è stato difficile ma anche inevitabile e meraviglioso ritornare nello stesso luogo. È stato spontaneo che io e mio marito facessimo i conti con la domanda: pensa cosa avremmo potuto vivere insieme a Ester se fosse rimasta con noi? Umanamente senti la mancanza. Ed è bello che sia così, che ci sia nostalgia anche se sai che è con gli angeli in cielo, e da lì ci protegge.



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Da ultimo, penso alle mamme che leggeranno la tua storia e magari hanno vissuto o vivranno storie simili. Dal tuo racconto, quasi fin da subito, si sente l’eco della Resurrezione. Proprio alla luce di questo orizzonte complessivo, vorrei ritornare al Venerdì Santo che c’è in tutte le storie di dolore: il buio dell’uomo che trema e sente i colpi duri della mortalità. È misterioso che si possa vivere appieno il Venerdì santo e trovare, proprio dentro la fatica più grande, uno spiraglio di luce. Per te come è stato?

Il formarsi della vita è un prodigio. È meraviglioso che tutto possa approdare a una perfezione, altrettanto onesto è dirci che ci possono essere tantissime difficoltà in questo percorso di nove mesi. Bisogna fare il salto del burrone: affidarsi, nella certezza che Dio ci tiene sempre nella sua mano. I nove mesi dell’attesa di Ester sono stati pieni di segni, sarà anche perché noi avevamo gli occhi sgranati. Il giorno in cui il genetista ci fece il quadro tremendo della situazione era proprio un Venerdì Santo e la sera io riguardai la Passione di Mel Gibson. Notai una frase che prima non mi aveva colpito: durante la salita al Calvario sua madre gli corre incontro e Lui le dice: “Vedi, madre… io faccio nuove tutte le cose”. È stata una frase che ho sentito come detta a me, come se Ester dicesse a me: non guardare con gli occhi del dolore. Questo mi ha accompagnato nel cammino successivo, era la possibilità di vedere già la luce anche dentro la sofferenza, per crucem ad lucem. Tanto che, a chi mi chiedeva mentre ero incinta di lei: “Come ti senti ad avere una bimba così nella pancia?”, io rispondevo: piena di Grazia. Sapevo che mia figlia era un desiderio grandissimo di Dio.

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