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Ci sono bambini che nessuno vuole, ma la casa di Chiara è aperta a tutti

BAMBINI, PANCHINA, ATTESA

Piron Guillaume | Unsplash

Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 18/04/18

A Trieste, marito e moglie hanno adottato cinque figli con questa certezza nel cuore: tutto è per il nostro bene, accogliamo senza porre limiti di età, provenienza, salute

Ci sono attorno a noi storie di accoglienza quasi folli, gente che senza superpoteri mette in piedi luoghi di bene condiviso, inimmaginabili a priori eppure così vivi e vegeti a posteriori.
È il caso di Chiara e Adriano che vivono a Trieste e si ritrovano a festeggiare quasi 30 anni di matrimonio insieme a cinque figli adottivi, ciascuno dei quali è una storia bellissima a sé. Li ho conosciuti grazie a un’amica che sta cominciando il percorso dell’adozione, un tema bellissimo in astratto e poco conosciuto nella sua declinazione concreta. Ecco il frutto di una chiacchierata che mi ha lasciata a bocca aperta, e grata.

Cara Chiara, noi di Aleteia stiamo creando uno spazio editoriale per raccogliere storie di madri e ospitalità. Mi racconti come è nato questo tuo progetto familiare così grande e impegnativo?

Questo non era il progetto mio e di mio marito, va detto. Ci siamo sposati nel 1989 e davamo per scontata la presenza dei figli; non sono arrivati. Il giorno dopo il nostro terzo anniversario di matrimonio abbiamo portato in tribunale la domanda di adozione; abbiamo maturato insieme e naturalmente questa scelta, ma non nascondo che quei primi tre anni siano stati difficili: vedere le amiche sposarsi e fare figli a go go, ecco sono stata male. Ma devo a Don Giussani la grazia di avermi illuminato con le sue parole: «tutto è per il nostro bene». Di fronte a questa ipotesi si è spalancato per me un percorso positivo, quasi avventuroso; mi dicevo: se tutto è per me, allora chissà cosa accadrà?


CARA BROOKINS

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E cosa è accaduto, come avete affrontato l’esperienza dell’adozione?

Eravamo giovani, io e Adriano: andavamo ai colloqui spavaldi e insieme pieni di timori. Ingenui e pimpanti, ecco. Avevamo chiare due cose per noi imprescindibili: non avremmo avuto un figlio solo e non avremmo mai strappato un bimbo dalle braccia di una mamma. I figli unici non fanno parte della nostra storia e chi sarebbe entrato nella nostra casa doveva essere qualcuno che non aveva più nessuno. Per tutte e cinque le adozioni fatte, non abbiamo mai scelto nessuno: abbiamo sempre accolto quello che ci veniva proposto, sicuri che fosse un bene per noi. Spesso ci si avvicina all’adozione pensando che sia l’ultima spiaggia, ma non è così. Nel tempo mi si è chiarita la certezza che l’adozione non è «i figli che non abbiamo avuto». È invece accoglienza e conoscenza reciproca: tu non conosci il figlio che arriva e lui non conosce te.

Conosciamo meglio questi bambini che sono arrivati?

I primi tre sono arrivati dall’India, in tempi diversi. La prima ora è grande ed è mamma a sua volta. Di lei ricordo tutto, perfettamente, proprio come capita per i primi figli. Ho la percezione ancora viva dell’orgoglio che ho sentito la prima volta che me l’hanno messa in braccio: finalmente c’era qualcuno che potevo accudire! Poi due anni dopo è arrivato il secondo, fin da subito ci è stato chiaro che aveva qualche problema di salute, però non abbiamo mollato. Io e mio marito siamo medici e ci siamo detti che avremmo avuto le risorse per curarlo. Dopo un anno e mezzo gli è stata diagnostica una sordità profonda: questo è stato un momento decisivo per me, ho scelto di mettere da parte il mio lavoro. Molti mi chiedevano se ero sicura di voler lasciare la mia carriera, ma io non ho avuto dubbi sul fatto che il mio compito era stare con lui.




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Nonostante questo grande impegno la disponibilità all’accoglienza non è venuta meno?

Abbiamo sempre lasciato il cuore aperto. Quattro anni dopo, nel 2000, è arrivato in casa nostra il terzo bambino, tra tutti lui è quello che ha fatto più fatica a fare i conti con il suo passato e tuttora lo aiutiamo nel gestire questa sua irrequietezza. È brutto da dire, però dopo di lui ci siamo fermati con le adozioni internazionali; eppure rimaneva questa disponibilità dentro. Tempo dopo, in modo quasi casuale, durante un incontro a Milano ho saputo di alcuni casi denominati «disperati», cioè adozioni difficili: c’era un bimbo italiano, non vedente, e nell’ascoltare questa storia ho intuito che potesse essere una possibilità per la nostra famiglia.
Mio marito mi ha assecondata, avevamo entrambi la certezza che nessuno ci avrebbe preso in considerazione come genitori adottivi, vista la nostra situazione già complessa. Invece, a due mesi dalla domanda, questo quarto figlio era a casa nostra. Il suo limite così evidente, l’impossibilità di vedere, mi ha fatto fare i conti con tutti i miei limiti, quelli che io faccio finta di non vedere, e quindi anche la sua presenza è stata un bene per noi.

Come sono i rapporti tra i vostri figli?

C’è una cosa che tengo a dire: non siamo stati solo io e mio marito a imbarcarci in questa storia, tutte le nostre famiglie ci hanno aiutato e questo ha fatto sì che i rapporti diventassero davvero familiari. I nostri figli si sono sempre sentiti fratelli; tra loro instaurano le dinamiche di conflitti e alleanze che esistono ovunque. Però li lega un’esperienza in più: vedendo arrivare ciascuno dei fratelli, ognuno ha rivissuto la propria storia. Non si ricordano della loro infanzia, ma sanno come è avvenuta vedendola negli altri. Da posti diversi sono arrivati in questa casa.




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La storia però non finisce qui, perché è arrivata una quinta bambina …

Sì, il cuore aperto all’accoglienza si è ridestato quando abbiamo traslocato; avevamo una casa più grande e la vedevano come un segno. Con Adriano ci dicevamo: «Nessuno ci darà mai nessun altro bambino, però ci sono bambini che nessuno vuole». Questo pensiero non ci lasciava tranquilli, così abbiamo riaperto la domanda di adozione e ci siamo imbattuti – che roba! – nella stessa assistente che ci seguì per la prima adozione: a lei abbiamo dato la disponibilità di accogliere i bambini rifiutati da tutti. E si è presentato un caso disperato, proprio non lontano da casa nostra. Si trattava di una bimba in gravi condizioni di salute e molto piccola; i medici ci hanno dissuaso perché poteva vivere anche solo pochi giorni. «Meglio che stia in una casa, piuttosto che in ospedale, anche solo per pochi giorni», abbiamo risposto loro. Per accoglierla abbiamo dovuto allestire una camera sterile, abbiamo passato un periodo difficile per accudirla; ma dopo tre mesi è guarita completamente. Ora ha nove anni ed è di un’intelligenza unica.

Posso chiederti il guadagno personale che hai sentito nel percorrere questo cammino?

Noi siamo partiti da un nulla, da quello che doveva essere un dato negativo. Ci siamo fidati di quella domanda buona: «Chissà cosa sarà?» e tutto è stato un guadagno, perché quello che io e mio marito siamo adesso dipende dalla presenza dei figli che ci sono arrivati. La mia maturità, il mio crescere dentro la fatica quotidiana, dipende da come è la mia famiglia. Ora li guardo tutti e cinque e chiedo che anche loro trovino una strada personale, prego che ciascuno diventi chi vuole essere davvero.

#heavensdoor

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