La catechesi di don Vincent Nagle al Monastero Wi-Fi di Milano del 1° giugno scorso.di don Vincent Nagle
Oggi si festeggia la memoria di san Giustino martire. Lo dico perché è così, ma anche perché c’è una storia tra me e questo martire.
Sono stato battezzato da piccolo, ma non sono cresciuto in un ambiente cristiano, tanto meno cattolico. Sono cresciuto in una comunità dei figli dei fiori, dove era arrivata la mia famiglia che vi si era trasferita, vivendo lontani da questioni come Cristo, salvezza e simili.
Alla fine delle scuole superiori ho iniziato a frequentare un gruppo che, almeno come etichetta, si chiamava cristiano. Tutto avveniva senza grandi proposte e dalla mia educazione sapevo benissimo che i cristiani non usano la ragione, non sanno riconoscere la realtà, vivono solo di favole e menzogne, oltre che nell’oppressione.
Anche se vivevo esperienze positive in questo gruppo, non ho mai preso in mano nessun libro cristiano.
Poi all’università sono stato molto sfidato da un gruppo di persone che mi hanno obbligato a leggere tre libri cristiani, che ricordo benissimo: il primo era “Miracoli” un saggio filosofico di C.S.Lewis che non viene molto proposto perché è molto difficile, rispecchia la visione aristotelica e considera i miracoli valutando se esistono o meno, se sono ragionevoli o no. Il secondo è stato un libro fantastico di Chesterton, si intitola “L’uomo eterno” e rilegge tutta la storia dell’uomo, specialmente occidentale, per dare il giusto peso al compimento di questa storia, cioè all’avvenimento di Cristo. Il terzo libro era “San Giustino martire”, di cui oggi (1 giugno, Ndr) si celebra la festa. Di questo libro ho impresso nella memoria i quattro discorsi del Santo che sono arrivati fino a noi. Si trattava di un filosofo nato alla fine del I secolo e poi vissuto nella prima parte del II che ad Efeso fu molto rinomato e seguito. Racconta bene la storia della sua grande conversione, dopo la quale ha deciso di andare a Roma per fare l’apologia del cristianesimo davanti all’Imperatore. Fece questo più volte e alla fine venne martirizzato: dunque successo al 100 per 100!
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Con il passare degli anni Dio si fa sempre più presente nella mia vita ed io, come fa una ragazza molto timida, cedo poco, poco, poco a Lui.
Poi finalmente mi fa diventare prete, faccio il mio percorso, passano tanti anni ed alla fine mi mandano in Palestina perché conosco la lingua araba. Dopo aver fatto il vice parroco in Giordania, in una piccola parrocchia al confine tra Siria e Giordania, il Patriarca di Gerusalemme mi chiama per diventare suo segretario. Non avevo grande gioia per questo, non sono il tipo adatto per fare il segretario, chi mi conosce lo sa, però obbedisco e vado. Giunto il primo weekend in Gerusalemme, mi chiede che progetti ho per il fine settimana; essendo appena arrivato non avevo nessun progetto e lui mi propone di andare a Nablus, che è la città più grande della Palestina, con 250 mila abitanti. Si trova a nord, nella Samaria, il luogo dove Gesù incontrò la Samaritana. Il parroco locale era malato di tumore ed era tornato a casa sua, così erano senza prete. Mi suggerisce di andare in macchina, mi presta la sua così mi metto alla guida e vado, impiegando circa un’ora e mezza. La città era tutta circondata perché era il periodo della seconda Intifada, cioè un’epoca di violenza, maggiore del solito. Le truppe israeliane circondavano completamente la città, non si poteva entrare né uscire in macchina, ma era possibile solo a piedi e dopo una accurata perquisizione. Il Patriarca mi aveva raccomandato di andare in macchina e così sono state necessarie quattro ore al confine della città per riuscire ad entrare, dopo una serie di contatti con il Ministero dell’interno, con il ministro cristiano e con il Generale. Quando arrivo alla parrocchia è già buio e mi sento estremamente estraniato in questo posto dimenticato da tutti, pieno di tensione e di violenza, con le strade vuote per la paura di quello che poteva accadere. In parrocchia trovo una suora, di nome Giovanna, che mi accoglie e mi fa entrare in chiesa; guardo e vedo che le immagini attorno all’altare raccontano la vita di san Giustino martire. San Giustino martire! Io so chi è san Giustino martire, anzi mi ha accompagnato tutta la vita, fino alla mia vocazione e dico che è bello che sia proprio il patrono di quella parrocchia. La suora fa una faccia un po’ strana così dopo la cena le chiedo perché mi aveva guardato in quel modo e lei mi dice che non solo la parrocchia è dedicata a san Giustino, ma quella è stata la sua casa perché lui è nato qui.
Ero veramente stupito, poi controllando non solo i suoi scritti ma anche le biografie verifico che effettivamente era di quelle città, che allora apparteneva alla cultura greca e si chiamava Neapolis. Il nome poi si è trasformato, come è avvenuto per Napoli, ma poiché in arabo non esiste la lettera p, questa è stata trasformata in b, diventando Nablus. E poiché si trattava di uno scherzo del vescovo quello di parlare di fine settimana, in realtà sono diventato il parroco di quella chiesa e lì sono rimasto.
Ricordo bene che quando sono entrato per la prima volta, anche se mi sentivo completamente spaesato a causa del buio, del luogo così violento e separato dalla vita, ho capito che ero accompagnato, ero arrivato lì non per caso, ma mandato, aspettato e accolto. Come se nella mia vita si fosse completato un cerchio importante: ero stato mandato fin dall’inizio da san Giustino ed ero arrivato nella sua casa a fare il parroco. Lo dico perché potevo avere altissime obiezioni a stare lì: infatti io sono di origine ebraica e come ebreo americano fare il parroco a Nablus forse non era la cosa più raccomandabile. Si potevano trovare mille buoni motivi per cui non sarebbe stato il caso di andare a fare il parroco a Nablus in quel momento, eppure nonostante tutte le obiezioni e le fatiche che sapevo benissimo avrei dovuto affrontare, ero certo di trovarmi nel posto giusto perché lì mi aspettava chi mi aveva mandato.
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E non solo questo. Aggiungo un altro aspetto. Proprio di fronte all’altare ho visto il nome dell’artista che aveva prodotto tutti i dipinti e si chiamava Ferdinando Michelini. Era un giovane architetto degli anni ’60, brillante ed in carriera che poi si era ammalato di un tumore non curabile. I suoi genitori erano contadini in un piccolo paese vicino a Pavia, hanno pregato molto, chiedendo anche l’intervento di un medico che avevano conosciuto da piccolo ed era diventato un po’ l’idolo del luogo, un buon cristiano. Tre giorni dopo il figlio era guarito ed è uscito dall’ospedale, quindi è diventato missionario in Africa dove fu notato per la sua mano felice e così andò in tutto il mondo per realizzare dipinti nelle chiese. Lui era proprio di Milano e il miracolo da lui ricevuto è stato quello che ha reso santo Riccardo Pampuri.
Proprio lui aveva realizzato quei dipinti di san Giustino in parrocchia!
Dove vuoi andare lontano da Dio? Questo è un esempio di quello che voglio dire.
La fatica della vita per noi è una obiezione per un motivo solo, è un problema, un peso, ci toglie gusto, ci toglie voglia, ci toglie cuore, è come non essere più vivi. Questa fatica è tale per un motivo solo: perché per noi non ne vale la pena. Nella fatica prevale ciò che non ammettiamo neanche con noi stessi e con gli altri. Chi comincia ad ammettere questa cosa viene mandato dallo psicologo perché è squilibrato, ma si tratta di una verità per ciascuno di noi. Viviamo le nostre fatiche, le debolezze, incoerenze, limiti e peccati, peggio ancora i limiti e peccati degli altri in modo tale che diventano menzogna, violenza, minaccia e la delusione della vita ci piomba addosso. Così tutta la vita appare una catena, un susseguirsi di delusioni, sfide e contraddizioni; sperimentiamo tutto questo come presagio di quel limite, quella pena che si chiama morte.
La verità è che se non ci fosse la morte e se il dolore, la sofferenza, il tradimento, la minaccia, tutto questo, non fossero l’avvicinarsi del limite che si chiama morte, non avremmo nessuna obiezione, sarebbero solo passi da fare, magari anche difficili, passi in cui chiedere aiuto, in cui domandare la grazia, ma sempre passi ed invece sono sconfitte. E queste sconfitte sono presagio della sconfitta che già sentiamo dentro, ognuno di noi ha fatto questa esperienza. Abbiamo vissuto occasioni davvero fantastiche, un matrimonio, un battesimo, una vacanza e tutto appare come una festa, tutto è fatto di sorrisi, bellezza e noi lì in mezzo a tutti quelli che sorridono ci chiediamo se siamo gli unici a non provare nessuna gioia. Non ti è mai successo?
“Perché non provo la gioia che penso gli altri abbiano?” Il fatto è che ci sono solo due questioni, solo due: la vita e la morte.
Se la fatica è una obiezione per noi è perché si tratta di un presagio che ci parla, ci comunica, ci fa già toccare con mano la sconfitta finale. Altrimenti, che problema ci sarebbe? Nessun problema.
Io sono convinto che in Cielo faremo tantissima fatica per crescere, crescere, crescere davanti all’infinità della bontà di Dio, e sarà sempre gioia. Adesso per noi crescere è morire a sé. C’è solo una domanda per noi: chi ci salva dalla morte?
Adesso lavoro con i malati che non possono guarire, ma prima ero il cappellano di un ospedale; è un lavoro simile, ma nello stesso tempo molto diverso.
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Ricordo di essere stato molto impressionato nell’incontro con un uomo, padre di famiglia, cattolico, fedele, positivo e costruttivo a cui tutti si rivolgevano per ricevere incoraggiamento e consigli e che non sopportava quelli che si lamentavano invece di trovare le modalità per andare avanti perché nella vita bisogna sempre cercare la possibilità di camminare. Ho visto questo uomo nella sua malattia e si lamentava di tutto, era uno sconvolgimento per tutti quelli per i quali lui era stato fonte di forza e positività. Ora si lamentava di tutto e di tutti, anche con insofferenza. Come mai?
So che cosa era successo perché accade anche a me: fino a quel punto aveva potuto guardare a quello che veniva costruito e proposto, tutto era una avventura di vita. Anche nelle contraddizioni capiva che cosa Dio dava loro attraverso i problemi e i dolori, trovava sempre quella che era la proposta di Dio alla sua vita. Ma adesso quella storia era finita e non c’era nessuna cosa per cui valesse la pena di soffrire, anche minimamente. Ogni sofferenza, ogni delusione era la morte che si faceva vicina e c’era questo dentro il suo cuore.
In tutta la nostra vita c’è solo questa domanda: chi mi salva? La fatica è fatica, ci taglia le gambe, ci abbatte, ci disgrega, non ci fa stare in piedi, se non cominciamo a vivere il rapporto con un salvatore. Come mai?
Che cosa non finisce mai, rende pieno e felice il cuore umano, bello il volto dell’uomo? Il volto umano è bello in quanto vive in forza di una promessa credibile.
L’uomo è vivo e il suo volto è bello quando riceve la promessa di “più vita”, perché se una cosa non ci promette un di più è solo un limite. L’abbraccio di un uomo ad una donna diventa insopportabile nel tempo se la bellezza di quell’abbraccio consiste solo nel “ti voglio bene” o “ ti sono di conforto”, no, deve promettere casa, figli, famiglia, un di più altrimenti il giorno in cui quell’uomo, con la sua presenza, non promette un di più diventa insopportabile anche quell’abbraccio.
L’uomo esiste al mondo e il suo volto è bello in quanto è proteso verso un di più, vivo per una promessa credibile. Se è per un di più ogni fatica fa solamente parte di quel di più. Lo sappiamo benissimo.
Mi piace fare questo esempio, ma ce ne sono tantissimi. Per cinque anni sono stato fidanzato con una ballerina di danza classica professionista e alla fine delle sue prove andavo a prenderla. Dopo aver fatto gli esercizi “sulle punte” e seduta sui gradini fuori dall’aula toglieva le sue scarpette, se le capovolgeva ne usciva tanto sangue. Certo esercitandosi per due ore sulle punte, poiché il piede non è fatto per questo, veniva fuori sangue, ma questo non le faceva battere ciglio, niente. Era parte di quella bellezza. Di quell’arte e quindi era parte integrale di un di più che la consumava.
Immagina anche un giovane che ama il calcio e viene scelto, grazie al suo talento, per giocare con i giovani della nazionale, poi va a casa dopo il primo giorno di allenamento e dice che non ci vuole più andare perché lo fanno soffrire. Certo che è così, che cosa pensavi? Non sentiamo queste lamentele dai giocatori: l’allenatore mi ha fatto male, mi ha fatto correre, ho anche vomitato, chi dice così? Se è per un di più che io possa essere consumato, perché ne vale la pena.
Ma davanti alla morte, che cosa vale la pena? La morte nega ogni promessa, tranne una. Quale è il cambiamento da domandare a Dio per vivere con il volto bello, proteso verso l’amato, verso chi ci promette di più.
Un mio amico mi ha regalato una macchina fotografica molto bella, forse venti anni fa, ed io andavo da tutte le parti facendo fotografie. Mi piaceva tantissimo; col tempo ho cominciato a provare interesse per un solo tipo di fotografie, cioè i volti. Più avanti un solo genere di volto: un volto proteso. Per esempio i bambini di un coro che cantano guardando il direttore, o i volti delle persone che si trovano ad una mostra veramente interessante. Ogni volto, in questa posizione era bello, ognuno. Ho una serie numerosa di queste fotografie e non c’è neanche un volto brutto per questo motivo.
Quale è il cambiamento da domandare a Dio per poter vivere così? Dirò in sintesi quello che vivo io. Tutto è cambiato per me, anche se forse alcune di queste cose avrei potuto dirle anche all’inizio del mio sacerdozio. Ogni genitore dice ai propri figli di non fare alcune cose sapendo benissimo che a lui capita di farle.
Se uno è aperto alla verità, se è aperto al fatto di poter soffrire, prima o poi comincia a vivere quello che ha visto. Circa tredici anni fa è accaduto qualcosa che mi ha veramente cambiato. Dico solo una cosa: si tratta di un nuovo rapporto con Dio. Ero disposto a sacrificare molto per Lui. Sono andato a Roma due settimane fa per una intervista con una giornalista che mi ha fatto, tra le altre, delle domande rispetto alla fatica legata al mantenere le promesse di obbedienza, povertà e celibato chiedendo quale fosse la più difficile. Sicuramente è il celibato, ma con la grazia di Dio e con l’intervento fulminante di Santa Caterina da Siena lo vivo con gioia.
Non è che non siamo disposti ai sacrifici per mantenere la fedeltà. Il fatto è, però, che vogliamo decidere noi che sacrifici ci tocca fare. Ma non funziona così. Lui sceglie. E sceglie proprio quei sacrifici che non vorremmo, scolpisce una croce per noi.
La vita non risponde a quello che vuoi tu, è piena di sorprese, belle senza dubbio, ma dopo un po’ non ci danno nemmeno più gioia perché siamo sempre in tensione per l’agguato della sofferenza. Anche le cose più belle non ci danno gioia perché prende il sopravvento qualcosa d’altro, la paura che sovrasta la bellezza dell’attesa, e anche con ragione, perché quelle cose belle non ci salvano dalla morte. Così non abbiamo più gioia da queste cose, abbiamo sorrisi, ma non gioia.
Ho capito che con Dio non andavo più avanti, non mi lamentavo della mia vocazione, non facevo nessuna minaccia, però Gli dicevo: tu ed io non ci siamo capiti e così non vado avanti, non si tratta di una decisione ma di un dato di fatto, non dipende dalla mia forza di volontà, è un fatto! Allora? In quel momento mi ha fatto tornare in mente delle esperienze di una vita che è tanto di più, gustate in profondità con le persone sofferenti, vicino alle quali nessun altro era riuscito a stare, ma io sì, io che sono un peccatore. Ho capito che quelle stesse ferite che mi rovinavano la vita, quelle stesse debolezze, incoerenze, stupidaggini, contraddizioni, erano proprio le cose attraverso le quali Dio mi permetteva di stare davanti e al fianco di Suo figlio. Perciò avevo ricevuto tutte le esperienze per un di più attraverso le mie ferite, le mie umiliazioni e debolezze. Non pretendevo niente, sapendo quanto sono debole e stupido, anche davanti le cose più orribili non potevo obiettare niente. “Io e Te”. Sono stati momenti di scoperta, di grazia, per poter constatare la Sua opera dentro di noi, la Sua presenza e così ho deciso di non fare più obiezione a nulla. Mandami tutto, feriscimi in tutto, umiliami in tutto, rovina ogni mia cosa, toglimi ogni onore davanti agli uomini, fa’ che tutti parlino male di me e che lo facciano in verità, non mi importa, perché ormai ho capito una cosa. Dio mi ha dato una visione, anche se non sono un mistico, ma Lui è all’opera e se vuole può dare questo anche a me. Quando Gesù si fa riconoscere dopo la Sua resurrezione, lo fa attraverso le Sue ferite; si tratta del suo corpo glorioso, immortale, eterno, perfetto, eppure ha dei buchi sanguinanti grossi così! E’ perfetto. Con questo non avevo più obiezioni e ho cominciato a fare domande che non avevo mai fatto. Questo è l’aspetto fondamentale, il punto decisivo e ho parlato fino adesso per poter arrivare proprio qui, a questa domanda. Scommetto che nessuno di voi l’ha fatta in questa ultima settimana, neanche nell’ultimo anno, forse non l’avete mai fatta: non siete caduti in ginocchio e tra le lacrime non avete detto “Salvaci, Signore, salvaci!” No. Cosa abbiamo chiesto al Signore? Non salvaci, ma aiutaci. Aiutami, dammi la forza, dammi la grazia, la coerenza, la possibilità di mettere a posto la vita come voglio io. E non capiamo perché Lui non risponde a questa cosa. La domanda che abbiamo è che Lui cambi la mia vita affinchè diventi una vita che non ha più bisogno di essere salvata. Non so se questa cosa Gli interessa veramente. Qualcuno sa che cosa vuol dire in ebraico il nome Gesù? Dio salva. Lui è il salvatore. Se è qui per darci una vita che non ha bisogno di essere salvata che cosa è venuto a fare? Non è questo il rapporto che Lui desidera, ma l’unica cosa per cui è venuto è la sola che non chiediamo mai. Mai! Perché? Lo sappiamo bene: se chiedo aiuto si tratta dell’aiuto che voglio io, quando si domanda la salvezza , invece, non si possono porre condizioni, non è come voglio io. E’ esattamente come vuole colui che mi salva. La fatica della vita c’è perché abbiamo in mente come deve essere la vita, e non è male, abbiamo in mente anche cose giuste, che ci sia ordine, che la salute permetta di svolgere i propri doveri, sono cose giustissime, sarebbero giustissime se la nostra speranza consistesse nel fatto che tutto si metta a posto e che nulla mi disturbi. Ma questo non è il piano, non è il progetto, siamo stati fatti per un’altra cosa: un rapporto, un rapporto che dilati l’orizzonte dei nostri calcoli meschini, che ci promette così tanto e già così possiamo vivere pregustando infinitamente tanto perché quando si dà credito ad una promessa, la si vive già.
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Per esempio se il tuo migliore amico ti avvisa martedi che sabato verrà da te, anche i giorni tra martedi e sabato saranno belli perché credi in questa promessa e la vita è già orientata verso di essa. Analogamente la vacanza inizia quando vai in aeroporto e nel momento in cui sali in aereo sei già in vacanza: non sei ancora arrivato, ma che importa, è già cominciata.
La promessa è che questo amore per te è infinitamente più grande di quello che pensi tu. Allora tutto diventa segno.
E’ come per un atleta che deve affrontare la sua debolezza, le sue imperfezioni e fa di tutto pur di andare avanti, nonostante tutto, e anche il dolore fa parte del suo guadagnare perché lui crede in quello che sta facendo e tutto diventa scopo: la promessa di essere grande nella sua arte, nel suo sport, lo tiene vivo, vivo, vivo.
Per noi è un’altra cosa, non è arte né sport, ma è la vita stessa. La vita nasce dall’amore, perché è l’amore la fonte della vita e quando qualcuno ci ama così e in modo credibile ci promette infinitamente di più, ogni cosa diventa occasione per verificare questo.
La morte e la vita, la perdita e la sofferenza, il guadagno, la vittoria e la sconfitta, l’umiliazione hanno sempre questo orizzonte, questa domanda: come mi stai salvando attraverso queste cose, Signore? Ci stai salvando così e puoi farmi vedere in un momento che sei all’opera anche qui, anche in mezzo e attraverso questo!
Che cosa ho trovato quando sono arrivato a Nablus e ho capito che la parrocchia era la casa di san Giustino martire, e che c’era lui, che ero da sempre atteso? Ero lì perché era sempre stato inteso che io finissi lì.
Chi mi conosce sa che io credo in Gesù Cristo, ma subito dopo credo nel “Signore degli anelli”, che è un libro, anzi molto di più di un libro, in cui ad un certo punto il grande saggio spiega cosa sta succedendo ed è una cosa terribile. Lui forte e saggio sta spiegando ad uno piccolo piccolo in che pasticcio si trova, un pasticcio che determinerà la dannazione o la salvezza del mondo, e tutto perché è venuto in possesso di un anello. Lui è atterrito, ma cerca di farsi coraggio perché non è solo, è davanti ad un muro enorme che non riesce a superare e con grande fatica dice: “Vorrei che questo non mi fosse mai capitato.” Anche noi viviamo così.
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Vorrei vivere un’altra vita, non questa. Ho in mente una vita che è veramente la mia, è quella in cui sono bello e forte e tutte le donne mi amano.
Ma nel libro il saggio risponde e“Questo lo puoi ben dire”, tutti dicono così quando devono affrontare le cose, ma poi aggiunge che gli offre questa chiave di lettura: era inteso che quell’anello fosse trovato da suo zio, era inteso che passasse a lui, che sarebbe stato in suo possesso e ciò dovrebbe dare grande conforto.
Tu e tutta la tua vita siete sotto lo sguardo di chi muore per salvarti e ti promette la propria vita, te la sta offrendo anche qui, attraverso quello che accade. Allora quando mi stai salvando non ha importanza che cosa mi viene addosso, non importa lo strappo insopportabile e sanguinoso, non la perdita e il tradimento: c’è ancora la domanda “E’ così che mi stai salvando Signore?” Con questa domanda l’orizzonte diventa l’infinito dell’amore di Dio. Quando chiediamo aiuto, invece, l’orizzonte rimane quello che ho in mente io.
Se uno sta urlando per ottenere la salvezza non precisa come debba avvenire.
Qualche anno fa, camminando nel deserto della Giudea, mi sono ferito pesantemente cadendo da una rupe e mi sono fratturato una gamba. Ero in fondo ad un crepaccio profondo e l’altro prete che era con me è andato a chiamare qualcuno; ha trovato una famiglia di nomadi e mi hanno messo sopra un pezzo di legno per trasportarmi fuori dal crepaccio. Non era facile e cadevo continuamente, sentendomi strattonato e provando dolore, ma continuavo a ripetere: grazie, grazie, grazie.
Se uno cade in una fossa e non riesce a venire fuori, chiede aiuto, poi quando arrivano delle persone per aiutarlo ad uscire se lo tirano per il braccio e fanno male alla spalla quello allora grida di lasciarlo e trovare un altro sistema per aiutarlo. Questo avviene ad uno che chiede aiuto.
Ma se cadendo in quella stessa fossa si trovasse immerso nel fango che lo inghiotte, mentre sprofonda urlerebbe e se, arrivato qualcuno, lo tirasse fortissimo per il braccio fino a slogargli la spalla, lui griderebbe di tirare di più.
Ho letto un anno fa un libro sulla storia della cura del cancro alla mammella. Oggi il problema è superato, ma alcuni anni orsono, per molto tempo si è cercato di asportare dal corpo la maggior quantità di tessuto possibile pur di cercare di sradicare il tumore. Le lettere contenute nel libro documentano come tante donne chiedessero ai medici di non avere timore e tagliare il più possibile, anche a costo di sformarle e deturparle, pur di poterle salvare.
Noi non domandiamo la salvezza perché sappiamo una cosa. Se uno comincia a chiederla non sarà lui a decidere come avverrà, ma sarà un Altro e abbiamo visto come salva, quindi non chiediamo mai salvezza, ma aiuto.
La conversione che Dio ci chiede consiste nel metterci nelle Sue mani domandando, gridando, urlando fino alle lacrime: ”Salvaci, Signore!”
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Posso dire anche questo, è la domanda più liberante che esista, tutto diventa possibilità di verificare che Lui è all’opera per la nostra salvezza e la giornata diventa una promessa, non l’attesa del peggio. Quante volte la giornata è l’attesa del peggio!
Quanti genitori, vedendo il proprio bambino uscire dalla porta, vengono paralizzati, fino a non riuscire a respirare, dal pensiero. “ E se non torna più?”
Salvaci, Signore, salvaci!
La Sua promessa è questa, un rapporto eterno che ci salva dalla dannazione che abbiamo ben meritato, ma Lui non si fa fermare neanche da questo. Anzi, rende anche questo, segno potente della fedeltà alla Sua promessa. Salvaci!
Aggiungo solo una piccola cosa. Io ho trovato cose che non aspettavo quando ho cominciato a fare questa domanda: non ho mai più avuto paura degli altri perché in fondo vedevo che hanno la stessa mia esigenza di essere salvati, anche i più brutali, anche quelli pieni di perfidia e menzogna. La loro domanda è la mia medesima.
Loro sono la mia occasione per ricordare a me stesso di chiedere “Salvaci, Signore!”
Siamo una compagnia di santi peccatori: “SALVACI, SIGNORE!”
Qui il file audio
QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO SUL BLOG DI COSTANZA MIRIANO