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Clericalismo e funzionalismo nelle lezioni di Francesco e Benedetto XVI

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 13/05/19
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Quand’è stato che la Chiesa ha cominciato ad essere affetta da clericalismo? E da cosa si riconosce una Chiesa particolarmente clericale? E quali sono i rimedi che possono migliorarne lo stato di salute (oltre a quelli che invece possono solo aggravarlo)? A partire da una manciata di discorsi degli ultimi due pontefici romani proviamo a rispondere a queste (ed altre) domande.

L’incontro del Papa con i partecipanti al Convegno della Diocesi di Roma, del 9 maggio scorso, è stato un poco oscurato dalla prepotenza mediatica dell’incontro del Santo Padre con la famiglia rom aggredita da militanti politici estremisti: il titolo del Manifesto (“Sinto Padre”: oggettivamente splendido sul piano giornalistico) non ha lasciato spazio ad altro.



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Eppure vale la pena di tornare indietro a fare “la spigolatura”, perché proprio per l’evidente idiosincrasia di Papa Francesco per la “convegnite” in cui il mondo cattolico eccelle (almeno nel Vecchio Mondo), quel che è risultato è stato un utilissimo compendio sul “più grande peccato di mondanità e di spirito mondano anti-evangelico”: il pretendere di “risistemare” le cose.

Quando è nato il clericalismo

Rievocando un tema-chiave dell’analisi socio-ecclesiale del pontificato, e anzi come rispondendo ad alcune obiezioni che nel tempo gli erano state sollevate, Papa Francesco è tornato a illustrare quando e come è nato il clericalismo:

La prima tentazione che può venire dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano è: «No no, dobbiamo risistemare la città, risistemare la diocesi, mettere tutto a posto, mettere ordine». Questo sarebbe guardare a noi, tornare a guardarci all’interno. Sì, le cose saranno risistemate e noi avremo messo a posto il “museo”, il museo ecclesiastico della città, tutto in ordine… Questo significa addomesticare le cose, addomesticare i giovani, addomesticare il cuore della gente, addomesticare le famiglie; fare calligrafia, tutto perfetto. Ma questo sarebbe il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano anti-evangelico. Non si tratta di “risistemare”. Abbiamo sentito [negli interventi precedenti] gli squilibri della città, lo squilibrio dei giovani, degli anziani, delle famiglie… Lo squilibrio dei rapporti con i figli… Oggi siamo stati chiamati a reggere lo squilibrio. Noi non possiamo fare qualcosa di buono, di evangelico se abbiamo paura dello squilibrio. Dobbiamo prendere lo squilibrio tra le mani: questo è quello che il Signore ci dice, perché il Vangelo – credo che mi capirete – è una dottrina “squilibrata”. Prendete le Beatitudini: meritano il premio Nobel dello squilibrio! Il Vangelo è così.

Gli Apostoli si sono innervositi quando veniva il tramonto e quella folla – cinquemila solo gli uomini – continuava ad ascoltare Gesù; e loro hanno guardato l’orologio e dicevano: “Questo è troppo, dobbiamo pregare i Vespri, la Compieta… e poi mangiare…”. E hanno cercato la maniera di “risistemare” le cose: si sono avvicinati al Signore e hanno detto: “Signore, congedali, perché il posto è deserto: che vadano a comprarsi da mangiare”, nella pianura deserta. Questa è l’illusione dell’equilibrio della gente “di Chiesa” tra virgolette; e io credo – l’ho detto non ricordo dove – che lì è incominciato il clericalismo: “Congeda la gente, che se ne vadano, e noi mangeremo quello che abbiamo”. Forse lì c’è l’inizio del clericalismo, che è un bell’“equilibrio”, per sistemare le cose.

Ho preso nota delle cose che ascoltavo e che mi toccavano il cuore… E poi, su questa strada del “sistemare le cose” avremo una bella diocesi funzionalizzata. Clericalismo e funzionalismo. Sto pensando – e questo lo dico con carità, ma devo dirlo – a una diocesi – ce ne sono parecchie, ma penso a una – che ha tutto funzionalizzato: il dipartimento di questo, il dipartimento dell’altro, e in ognuno dei dipartimenti ha quattro, cinque, sei specialisti che studiano le cose… Quella diocesi ha più dipendenti del Vaticano! E quella diocesi, oggi – non voglio nominarla per carità – quella diocesi si allontana ogni giorno di più da Gesù Cristo perché rende culto all’“armonia”, all’armonia non della bellezza, ma della mondanità funzionalista. E siamo caduti, in questi casi, nella dittatura del funzionalismo. È una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma. E tanti lasciano il kerygma, inventano sinodi e contro-sinodi… che in realtà non sono sinodi, sono “risistemazioni”. Perché? Perché per essere un sinodo – e questo vale anche per voi [come assemblea diocesana] – ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo. Chiediamo al Signore la grazia di non cadere in una diocesi funzionalista.

Il Papa dice di aver già evocato quest’immagine, ma senza ricordarsi la circostanza esatta (che dev’essere sfuggita anche a me): l’immagine però che il germe del clericalismo si sia sviluppato non all’indomani della Pentecoste ma prima, durante il triennio del ministero pubblico di Gesù, mi ha molto colpito. Se avessi pensato a porre la questione in termini analoghi, la mente mi sarebbe forse andata ad episodi come quello delle dispute sul primato fra i dodici (Mt 18, 1-5; Mc 9, 33-37; Lc 9, 46-48), e invece il Papa ha pensato a quello della moltiplicazione per i cinquemila (Mt 14, 13-21; Mc 6, 30-44; Lc 9, 10-17; Gv 6, 1-14), ossia a uno stadio ancora anteriore: e poi Francesco ne ha offerto una lettura personale, peggiorativa se vogliamo perché, mentre nelle pericopi evangeliche citate – al netto di varianti redazionali – i discepoli sembrano preoccuparsi soprattutto della gente, nell’esegesi bergogliana invece i discepoli sembrano pensare al loro proprio pasto. Anzi, Francesco aggiunge perfino un livello spirituale a codeste mire personali: pregare i Vespri, la Compieta… Chiaramente, il Papa propone nella propria esegesi il sottotesto psico-sociale – o meglio, un sottotesto possibile – dei testi canonici. E per quanto possa sorprendere esso è tutt’altro che inverosimile.



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Quando è nata la Chiesa?

Quindi il clericalismo può essere nato prima della Chiesa? Per rispondere a questa domanda dobbiamo aver chiara la risposta a quella precedente: quando è nata la Chiesa?

  • «La Chiesa è nata a Pentecoste!», risponde l’alunno che ha studiato il catechismo.
  • «No, la Chiesa è nata con l’effusione dei sacramenti sul Golgota!», lo riprende la compagna mistica.
  • «Avete ragione entrambi: ricordatevi che infatti Giovanni pone la propria Pentecoste nell’Ora della croce [Gv 19, 30]», media il collega con inclinazione alla sistematica.

Sant’Agostino però preciserebbe che la Chiesa nasce già con Abele, il primo giusto che ingiustamente ha subito il male; a San Paolo invece dobbiamo una cristologia adamitica (Rom 5) in forza della quale possiamo dire che la Chiesa nasce già con Adamo, e in tal senso non ci stupisce che le sizigie gnostiche dei valentiniani, facendo l’esegesi del prologo giovanneo, accoppiassero l’eone femminile “Chiesa” all’eone maschile “uomo” (“adam” in ebraico).



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La Chiesa è da sempre concepita in mente Dei «come sacramento universale della salvezza» (Lumen Gentium 48), ma giunge a pienezza con l’esplicitarsi storico dell’economia connessa al mistero pasquale di Cristo. Per dirla con un’immagine poetica e certamente non abusiva, in quanto ampiamente attestata in molte tradizioni teologiche, assumendo che sulla Croce (i.e. nel mistero pasquale fino a Pentecoste) la Chiesa sia venuta alla luce, la sua gestazione tuttavia è stata lunga quanto la storia dell’umanità, perché fin da quando esiste l’uomo Dio ha voluto salvarlo, e questo è tanto vero che perfino per Caino, primo omicida (e fratricida!), il Creatore ha speso parole di salvezza e gli ha apposto segni salvifici (Gen 4, 15).



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Se ha ragione il Papa, il clericalismo sarebbe presente nella Chiesa già nella sua “vita prenatale” (restando nella metafora): si sarebbe dunque tentati di pensare a una qualche “connaturalità” tra Chiesa e clericalismo, ma la verità è che quest’ultimo è più simile – sempre analogicamente – a una menomazione genetica, la quale affetta sensibilmente alcune manifestazioni della sua natura senza però giungere a identificarsi con questa.



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La diagnosi torna quindi al peccato originale: “sempre la stessa cosa…”, qualcuno sbufferà… il fatto è che è difficile anche solo pensare che cosa sarebbe accaduto se a un passo dallo start della vicenda umana non ci fosse stata quella caduta invalidante.

Elogio dello squilibrio

E che si parli di una corsa lo testimonia l’audace immagine dello “squilibrio”, che solo in tal senso può acquisire un’accezione cattolica significante: l’“ospedale da campo” che la Chiesa è (e non solo oggi, ché certe storiografie idealizzanti difettano di parecchi contrappesi) è incaricato appunto di soccorrere quell’uomo reso invalido dalla caduta primordiale, medicarlo, rimetterlo in piedi e rianimarne lo spirito perché torni a correre verso il traguardo. Quando ho letto il passaggio del Papa contenente l’“elogio dello squilibrio” ho immaginato i nasi storti di certi commentatori… i quali forse in altri contesti si vantano di essere lettori di Chesterton e glissano qui un paradosso dal tipico sapore chestertoniano (certo, la prosa ha un altro ritmo): una pastorale equilibrata è in realtà sempre almeno una delle due cose: o un’illusione o la necrosi della Chiesa.



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Attenzione, qui sta il passaggio veramente interessante del Papa: non si pecca di clericalismo (solo) desiderando potere, prestigio, soldi e via dicendo, ma anche – e più sottilmente – quando a quelle misere ambizioni s’aggiunge la pretesa di “risistemare”, che Francesco chiama “funzionalismo”. La descrizione di certe diocesi con «più dipendenti del Vaticano», che «lasciano il kékygma e inventano sinodi e contro-sinodi», è di un’auto-ironia corrosiva, quantunque benevola. «Eh, ma a questo Papa non sta bene neanche la Chiesa che funziona», osserverà qualcuno: «Come si fa a fare l’“ospedale da campo” se gli strumenti non sono a punto? Possibile che il Papa stia sempre a criticare i cristiani invece di confermarli nella fede?». Sono parole, queste, che non invento, ma riporto più o meno verbatim da non poche conversazioni raccolte negli anni scorsi. Chissà come si possa “confermare uno nella fede” se non incitandolo a fare meglio: mai visto un allenatore a bordo campo che se ne stia seduto a sorridere placidamente ai giocatori, magari mentre subiscono le offensive degli avversarî…


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E mi sovviene un altro discorso, questo del precedente “commissario tecnico” della Chiesa Cattolica: si tratta infatti del discorso di Benedetto XVI al Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi, avvenuto a Freiburg mi Breisgau il 24 settembre 2011. All’epoca molti cattolici restarono stregati da quella che era ritenuta la parola d’ordine del pontificato – nella prima parte del discorso si segnalava difatti l’acre relativismo del contesto tedesco – ma ricordo che immediatamente mi colpì soprattutto l’ultima parte della pagina pronunciata dal Papa tedesco:

Tante persone sono carenti dell’esperienza della bontà di Dio. Non trovano alcun punto di contatto con le Chiese istituzionali e le loro strutture tradizionali. Ma perché? Penso che questa sia una domanda sulla quale dobbiamo riflettere molto seriamente. Occuparsi di questa domanda è il compito principale del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Ma essa, ovviamente, riguarda tutti noi. Permettetemi di affrontare qui un punto della situazione specifica tedesca. In Germania la Chiesa è organizzata in modo ottimo. Ma, dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza della fede nel Dio vivente? Sinceramente dobbiamo però dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito. Aggiungo: La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede. Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace.

E Papa Ratzinger sarebbe tornato sull’argomento in maniera meno fugace già il giorno dopo, alla fine del viaggio apostolico in Germania, incontrando i Cattolici impegnati nella Chiesa e nella Società nel Konzerthaus di Freiburg:

Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine.

Diciamolo ancora con altre parole: la fede cristiana è per l’uomo uno scandalo sempre e non soltanto nel nostro tempo. Che il Dio eterno si preoccupi di noi esseri umani, ci conosca; che l’Inafferrabile sia diventato in un determinato momento in un determinato luogo, afferrabile; che l’Immortale abbia patito e sia morto sulla croce; che a noi esseri mortali siano promesse la risurrezione e la vita eterna – credere questo è per gli uomini senz’altro una vera pretesa.

Questo scandalo, che non può essere abolito se non si vuole abolire il cristianesimo, purtroppo, è stato messo in ombra proprio recentemente dagli altri scandali dolorosi degli annunciatori della fede. Si crea una situazione pericolosa, quando questi scandali prendono il posto dello skandalon primario della Croce e così lo rendono inaccessibile, quando cioè nascondono la vera esigenza cristiana dietro l’inadeguatezza dei suoi messaggeri.

Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana. “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (Lettera enciclica Deus caritas est, 25). Certamente, anche le opere caritative della Chiesa devono continuamente prestare attenzione all’esigenza di un adeguato distacco dal mondo per evitare che, di fronte  ad un crescente allontanamento dalla Chiesa, le loro radici si secchino. Solo il profondo rapporto con Dio rende possibile una piena attenzione all’uomo, così come senza l’attenzione al prossimo s’impoverisce il rapporto con Dio.

To’, Benedetto XVI parlava anche degli abusi sui minori e non solo di principî non negoziabili: i turiferari dell’attuale Pontefice potranno forse stupirsene (occhio ché proprio il 9 maggio Francesco ha lanciato una battutina su quelli che lo incensano!), ma in questi due discorsi si trovano mirabili integrazioni con l’“elogio dello squilibrio” che Papa Bergoglio ha pronunciato pochi giorni fa nella propria cattedrale.


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Dalla Chiesa in Germania ombre e luci

Questa è la settimana per la quale il gruppo di protesta chiamatosi “Maria 2.0” aveva indetto e programmato lo “sciopero delle sagrestane”, ossia una protesta delle operatrici pastorali che si rifiuteranno, letteralmente, di pulire in chiesa e di svolgere tutte le altre mansioni che consuetamente assolvono: il fine prossimo è ottenere più potere nella gerarchia, quello remoto mira al solito sacerdozio alle donne e l’ambizione suprema è costruire «una Chiesa capace di futuro» (l’hanno scritto davvero!). E sembra che rispondesse a queste femministe senza pace lo stesso Papa Francesco, che il giorno dopo il convegno diocesano in Laterano incontrava le Superiore Generali di tutto il mondo. A quelle eminenti consacrate il Papa latinoamericano glissava lì – proprio a proposito dei provvedimenti creativi in materia di ministeri e sacramenti – un sornione “siamo cattolici. Se qualcuno vuol fare un’altra Chiesa è libero, ma…”.


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Ma” la Chiesa cattolica in Germania è scossa in queste settimane da pensieri ben poco teologici: due settimane fa sono stati resi noti i risultati di un’inchiesta del Forschungszentrum Generationenverträge dell’Università di Freiburg le cui proiezioni nel tempo sembrerebbero indicare che la Chiesa Cattolica in Germania andrà a perdere da un terzo alla metà dei suoi attuali membri entro il 2060. E giù consultazioni diocesane che cercano di correre ai ripari approntando casse di credito interdiocesane, fra le immancabili proteste delle “vergini sagge” che non vogliono condividere il loro (ancora) abbondante olio con le colleghe stolte: nell’isteria generale riprendono vigore le solite polemiche di area germanica, che invocano il sacerdozio uxorato e l’ordinazione femminile come antidoto al tracollo ecclesiale (e sembrerebbe che per l’angoscia non abbiano neppure letto tutto lo studio, altrimenti saprebbero che le comunità evangeliche, cui affannosamente corrono dietro, stanno messe perfino peggio (proiezione del 51% contro il 48%). Ora mirano al Sinodo per l’Amazzonia, sperando di poterne lucrare un escamotage per rimpiazzare i pezzi cadenti (e anche qui cascano male, ché già Francesco ha posto limiti invalicabili sui loro desiderata).



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Ma il punto non è il derby “protestanti-cattolici”, che anzi nel mal comune diventa tanto più patetico: il punto è che mai nelle considerazioni di certi pastori si sente parlare di cose come “evangelizzazione”, “cristianesimo”, “vita ecclesiale”. Sempre e solo “ministeri”, “uffici”, “cariche”, “prebende”. E viene fuori che le Chiese più versate nel predicare di “clericalismo” sono quelle che – a causa dell’estremo funzionalismo di/in cui [soprav]vivono – risultano più a rischio riguardo a quel male esiziale.



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Non mancano tuttavia voci cattoliche (di nome e di fatto), come quella del vescovo di Regensburg Rudolf Voderholzer, che proprio pochi giorni fa è stato confermato come membro della Congregazione per la Dottrina della Fede e che sabato ha preso la parola ad Heiligenkreuz, vicino Vienna, escludendo nel modo più assoluto che il depositum fidei permetta all’autorità ecclesiastica di “inventare” sconvolgimenti in materia di ministeri e sacramenti: «Non abbiamo bisogno – ha detto il pastore – né di laicizzare i chierici né di clericalizzare i laici».

La verità è quella che Francesco ha recentemente ricordato alla propria diocesi, in Laterano, e che Benedetto XVI con bonario rimprovero richiamò alla Chiesa cattolica in Germania:

Da decenni assistiamo ad una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?

Alla beata Madre Teresa fu richiesto una volta di dire quale fosse, secondo lei, la prima cosa da cambiare nella Chiesa. La sua risposta fu: Lei ed io!

Questo piccolo episodio ci rende evidenti due cose: da un lato, la religiosa intende dire all’interlocutore che la Chiesa non sono soltanto gli altri, non soltanto la gerarchia, il Papa e i Vescovi: Chiesa siamo tutti noi, i battezzati. Dall’altro lato, essa parte effettivamente dal presupposto: sì, c’è motivo per un cambiamento. Esiste un bisogno di cambiamento. Ogni cristiano e la comunità dei credenti nel suo insieme sono chiamati ad una continua conversione.

Come deve configurarsi concretamente questo cambiamento? Si tratta forse di un rinnovamento come lo realizza ad esempio un proprietario di casa attraverso una ristrutturazione o la tinteggiatura del suo stabile? Oppure si tratta qui di una correzione, per riprendere la rotta e percorrere in modo più spedito e diretto un cammino? Certamente, questi ed altri aspetti hanno importanza, e qui non possiamo affrontarli tutti. Ma per quanto riguarda il motivo fondamentale del cambiamento: esso è la missione apostolica dei discepoli e della Chiesa stessa.

[…]

La Chiesa s’immerge nell’attenzione condiscendente del Redentore verso gli uomini. Quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’Incarnazione.

Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo.

Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio. Con ciò essa segue le parole di Gesù: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,16), ed è proprio così che Lui si dona al mondo. In un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore.

[…]

Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro. La Chiesa si apre al mondo, non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr Conf. 3,6,11). Egli, che è infinitamente al di sopra di me, è tuttavia talmente in me stesso da essere la mia vera interiorità. Mediante questo stile di apertura della Chiesa verso il mondo è, insieme, tracciata anche la forma in cui l’apertura al mondo da parte del singolo cristiano può realizzarsi in modo efficace e adeguato.



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