Dopo solo 4 anni di matrimonio una malattia disumana entra nella loro vita: la SLA. Cinzia e Marco vivono 11 anni di calvario, ma dentro il dolore fanno spazio a spiragli di Resurrezione.Cinzia D’Agostino vive a Viareggio ed è un’insegnante. L’ho contattata grazie a un amico comune che mi ha fatto leggere un testo scritto da lei in occasione di una Via Crucis pasquale: era il racconto del calvario che ha portato alla morte di suo marito Marco. Appena 4 anni dopo il matrimonio, la diagnosi di SLA oscura il loro orizzonte: a suo marito vengono dati 4-5 anni di vita, ne vivrà 11 quotidianamente assistito da lei. Scrive in quella lettera: “La malattia colpisce il corpo in tutti i suoi movimenti volontari, ma non intacca le capacità cognitive; pensieri, emozioni e sentimenti si mantengono vivi come prima e anche di più. Nel corpo di Marco, provato dalla sofferenza, pulsava un cuore che aveva un’ incredibile voglia di vivere, di amare e di sperare“. La parola chiave di questa storia d’amore diventa “smentire”: Cinzia si rende conto che stare con Marco, fin dall’inzio, ha significato cambiare lo sguardo sulla realtà, sulla vita, su se stessa. C’è Dio dietro questo smentire continuo, l’ipotesi della sua presenza che non viene mai meno e opera miracoli meno vistosi di quelli che le mente formula. Miracoli che accadono, come quello di poter dire di un percorso sofferto, che incontra anche la morte: la vita mi ha dato la possibilità di vivere un amore vero e pieno. Ecco la sua testimonianza.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Salmo 29
Cara Cinzia, siamo lieti che i lettori di Aleteia For Her possano conoscerti. Cominciamo a raccontare di te dall’inizio dell’amore per Marco, che poi vi ha portato su una strada che non avevate messo in programma.
Infatti, si mettono in programma i sogni, non quelli che a prima vista sono incubi. Io e Marco ci siamo incontrati tramite amici che avevo conosciuto a una festa di Capodanno quando avevo circa 20 anni. Per molti anni tra me e lui c’è stata un’amicizia, all’interno di questa compagnia; tra le molte cose fatte insieme andammo anche in vacanza in Sardegna. Questo luogo nel tempo ci ha accompagnato: ci siamo ritornati da fidanzati, ci abbiamo fatto il viaggio di nozze e siamo riusciti ad andarci anche i primi due anni di malattia di Marco. Al tempo di quella prima vacanza ci avvicinò la chitarra, lui la suonava molto bene e gli chiesi di insegnarmi una volta tornati a casa. Più avanti, durante una lezione, ci scappò un bacio che segnalò da parte mia l’emergere di un’attrazione diversa, verso questa persona che come amico conoscevo ormai da anni. Ero di quelle ragazze che credono al colpo di fulmine, posso dire che fin dall’inizio la mia storia con Marco è stato tutto uno smentire cose di cui ero convinta. Lui era una persona completamente diversa da quello che era stato il mio canone. Ci siamo fidanzati che avevamo 27 anni.
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E condividevate la fede cristiana?
No. Marco non era praticante, io sì. Però ha sempre avuto rispetto, ad esempio, del fatto che io andassi alla Messa domenicale. Si facevano i piani del fine settimana tendendo conto della mia presenza in Chiesa e lui non ha mai detto: “Dai, per una volta, salta la Messa!”. Mi colpì questo suo profondo rispetto. Fu poi lui stesso un sabato a chiedere di venire a messa con me; chiese a che ora sarei andata e aggiunse: “Allora vengo anch’io!”. Fu stupenda la frase, detta d’impeto. Andammo alla messa che celebrava il prete che era già la mia guida spirituale, che sarebbe poi diventato il nostro riferimento per il corso prematrimoniale e che ci ha accompagnato a vivere gli anni di malattia, fino alla fine. Dopo quella prima volta, Marco non smise più di venire alla Messa.
Immagino che questo suo gesto sia stato libero, cioè tu non gli avevi fatto nessuna pressione?
Fu una cosa naturale e libera. Però nel momento in cui è successo, è stato un tassello che ci ha avvicinato ancora di più; dopo è davvero iniziato un percorso che non si è più interrotto.
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E il matrimonio come ha cambiato il vostro rapporto?
Ci siamo sposati che avevamo 35 anni e mezzo, quindi possiamo dire che ci conoscevamo molto bene. Nonostante ciò, l’inizio della convivenza insieme è stata bella e difficile: ognuno aveva le sue abitudini, mai avuto esperienze di convivenza, e poi ci si misero difficoltà vere e proprie. Pochi mesi dopo il matrimonio, Marco perse il lavoro; fortunatamente, nel frattempo, io ero entrata di ruolo nella scuola. È stato un momento destabilizzante che gli ha procurato una depressione. Questa difficoltà è arrivata all’inizio del matrimonio, cioè nel momento che di solito le coppie vivono con più entusiasmo: noi questo inizio non lo abbiamo vissuto serenamente, tanto che ne è seguito un periodo di discussioni tra me e lui. C’era una forte difficoltà a trovare un canale di comunicazione. Fortunatamente, la Grazia divina si manifestò già da quel momento e noi trovammo un via d’uscita positiva: dovevamo ricominciare da capo a parlarci. Siamo riusciti a trovare un dialogo nuovo e a quel punto l’unione si è rafforzata. Col senno di poi, benedico quella crisi perché ha spinto entrambi a lavorare per trovare un’intesa più profonda. Non so, se non ci fosse stata l’occasione di riflettere così a fondo su noi stessi, se saremmo riusciti a reggere lo scossone della SLA.
La diagnosi della SLA arriva prestissimo dentro la vostra vita familiare, anche questo fa tremare.
La malattia è arrivata 4 anni dopo che eravamo sposati. Ma c’è un ulteriore elemento precedente a cui accennare. Noi desideravamo dei figli. Io sono rimasta incinta, ma la gravidanza si è interrotta. Questo accadeva un anno prima della diagnosi e, nonostante i nostri tentativi, altri concepimenti non sono arrivati. Contemporaneamente, Marco cominciava a manifestare dei sintomi che solo a posteriori ho attribuito alla SLA: camminava trascinando i piedi. Facevamo passeggiate nel lungomare e lui accusava una grande stanchezza. Nel novembre 2005 tornò da una corsetta nella pineta sconsolato per l’incapacità di coordinare i movimenti; cominciò anche a zoppicare. Ne seguì un periodo di accertamenti sempre più approfonditi, finché un neurochirurgo constatò dapprima un deficit di forze a tutti e quattro gli arti, e poi un quadro generale sempre più grave. Abbiamo trovato medici bravissimi e accorti. La diagnosi in cui è stata introdotta la parola SLA è arrivata il 14 aprile del 2006, era Venerdì Santo. Eravamo entrambi catechisti e dovemmo rinunciare agli impegni in parrocchia. È cominciata quel giorno la nostra Via Crucis: uscimmo stravolti dall’ambulatorio, Marco mi disse che aveva l’impressione di essere in un film, si aspettava da un momento all’altro che sarebbe ritornata la realtà per come la conosceva prima.
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Il buio, che segue a un impatto così forte con una realtà inaccettabile a prima vista, come lo racconti?
Non ho provato rabbia, ma incredulità e disperazione. Uno deve essere pronto a vedere il buio totale di fronte a sé. Ho sentito il senso di disorientamento totale: non mi riconoscevo nella vita che facevo e i miei sogni svanivano, mi sono chiesta da capo chi ero. Sentivo un’estranea al mio posto. Il buio era fare i conti con una malattia come la SLA che, informandosi s’impara presto, non dà scampo a nessuno.
La fine è certa; questo è piombato dentro la nostra vita di una coppia sposata da quattro anni e tutta proiettata dentro l’ipotesi di una lunga vita futura da vivere assieme. Tutti i nostri progetti non potevano più esserci, in primis avere dei figli. L’idea che avrei visto morire mio marito era fonte di angoscia e non potevo condividere questo peso con lui; proprio io che, grazie a quella crisi di coppia iniziale, avevo imparato a condividere tutto con lui. La disperazione aveva la forma di una domanda precisa: come faccio ad alzarmi la mattina, a rimboccarmi le maniche, ad affrontare i problemi che subentreranno? Come faccio a trovare il coraggio di lottare, quando so che questa lotta non mi servirà a nulla perché la morte arriverà? Vivevo tutto nell’ottica della parte finale della malattia. La mattina ritardavo il momento della sveglia perché avevo la sensazione di essere dentro un incubo. Volevo una realtà senza la malattia. Però poi aprendo bene gli occhi facevo i conti con l’evidenza che quella era la mia realtà. È umanissimo provare la disperazione iniziale, l’impotenza e anche quasi il lasciarsi andare. L’idea di lotta che si mette a fuoco all’inizio della malattia è completamente differente da quello che poi s’impara stando dentro la malattia. All’inizio è un’idea di lotta puramente umana e materiale.
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Per deviazione personale io torno sempre a Dante, che per arrivare al Paradiso attraversa l’Inferno fino in fondo. Chi come te l’ha vissuto in prima persona è più attendibile nel dire che non bisogna temere di scendere fino in fondo al dolore …
È un paragone che calza a pennello: si attraversa l’inferno, però ti rendi conto che alla fine dell’inferno ci trovi il paradiso. Il dolore è un luogo che devi attraversare, per forza. Nella disperazione si trova, non so come, un cammino che porta altrove; io che sono cristiana la spiegazione me la do: il Signore non ci abbandona mai e quindi dà la forza di affrontare quello che sembrerebbe impossibile agli occhi umani. Superando quel primo momento di disperazione, si scoprono cose nuove. Ad esempio, io ho scoperto che il futuro non conta più. Vedi in modo più grande il presente e poi un domani circoscritto: le 24 ore successive. Vivere il presente ha significato prendere atto di ciò che via via la malattia ci consentiva di fare e non concentrarsi su ciò che la malattia toglieva a Marco.
Tu parli, infatti, di un miracolo meno vistoso che è accaduto dentro questa quotidianità che inizialmente ti spaventava e da cui istintivamente ti ritraevi. Che volto ha la SLA, una malattia che porta alla paralisi del corpo ma lascia la lucidità della mente?
È disumana. La malattia ha via via tolto sempre di più a mio marito, ma lasciava Marco. Lasciava la sua essenza, il suo provare emozioni forti. Questo dà la forza anche a chi assiste di reagire; e per chi crede questo significa essere certi che c’è Qualcuno che mi vuole bene: non mi ha mandato la malattia per punirmi, né perché io valgo meno di qualcun altro. La malattia arriva perché noi siamo mortali. E semmai possiamo dire che dentro la malattia c’è Qualcuno che non ci lascia soli. Ci sostiene anche se non ce ne accorgiamo. Non ce ne accorgiamo perché siamo angosciati e perché, soprattutto all’inizio, vorremmo un miracolo. Credere in un miracolo dà una speranza, che nutre lo spiraglio di luce in mezzo al buio. Giorno dopo giorno quello spiraglio cresce, diventa più potente della disperazione e dà la forza di combattere anche per anni. All’inizio chiedevo il miracolo della guarigione, poi quello che la malattia si fermasse; più avanti chiedevo di poter procrastinare il più possibile la morte di Marco. Alla fine il miracolo è diventato riuscire a stare ogni giorno vicino a lui, aiutandolo, e il miracolo era vedere un Marco nel cui animo prevaleva, nonostante tutto, la gioia. Nutriva ancora la voglia di vivere, questo è stato il miracolo che si è compiuto appieno.
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E l’assistenza quotidiana com’è?
Stare vicino è difficile, perché io sapevo molte più cose sulla malattia di lui. Forse, dico; magari lui era consapevole. Evitavo di riportare tutto ciò che i medici mi riferivano; mi ero resa conto che a Marco non interessava come sarebbe stato il decorso nel lungo termine. Voleva sapere qual era la sua condizione momento per momento. Di fronte a ogni nuova necessità – come il sondino per nutrirsi, ad esempio – la sua domanda era sempre: mi aiuta a vivere meglio?
Proprio alla luce di questo ti chiedo, senza perifrasi, cosa rispondi a chi parla di “vite inutili” parlando di malati dalla condizione irreversibile?
Negli ultimi anni Marco era completamente immobile, muoveva solo la bocca per sorridere e leggermente gli occhi per darci dei segnali. Ma ti dico che è come se lo vedessi in movimento. Nel fisico si era trasformato completamente: la muscolatura si era assottigliata, l’addome invece si era allargato, aveva il tubicino all’altezza dello stomaco per nutrirsi, un altro al di sotto dell’ombelico per svuotarsi dell’urina, era attaccato alla macchina per respirare. Quel fisico per me era comunque bellissimo, perché ci vedevo l’anima. Ci comunicava tutto attraverso gli occhi. Chi parla di vite poco dignitose scambia l’immobilità del corpo per immobilità dell’anima. Se il malato non parla, lo si associa al fatto che non possa capire. I nostri amici mi hanno confessato di essersi sentiti imbarazzati dallo sguardo di Marco: mi dicevano che era così penetrante da sentirsi messi a nudo.
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Tu hai imparato a guardare tutto in modo nuovo. Me lo racconti?
Ho maturato innanzitutto la certezza della presenza di Dio nella nostra vita. La mano della Provvidenza è arrivata nei momenti delle emergenze, nei momenti più impensabili. Ho imparato, poi, ad andare alla sostanza nella vita e nei rapporti con le persone. Oltre a molto altro di effimero, la società ci abitua a pensare che valiamo non momento in cui «facciamo», in realtà valiamo perché «siamo».
Poi il tuo matrimonio arriva al momento del congedo. Quella parola tanto temuta, morte, cosa ha significato quando l’hai vissuta?
Negli ultimi giorni avevo capito che Marco stava arrivando in fondo alla sua vita. Avevo la percezione fisica di un pugnale nello stomaco: come faccio a sopravvivere senza di lui? Poi ho visto il suo corpo diventare esausto, come quello di un novantenne. Una sera, standogli accanto ho detto: «Signore, Marco è tuo». Il Signore ha consentito a Marco di vivere 11 anni con la malattia, le previsioni dei medici erano di 4-5 anni. La morte è arrivata in modo naturale, con quella stanchezza che sopraggiunge alla fine di una vita molto lunga. Marco è passato dal sonno alla morte senza soffrire; è morto in camera sua, con me accanto. Mi sono permessa di chiedergli questo, negli ultimi giorni e senza accennare alla morte: “Marco, io mi sono presa cura di te, ma tu mica dimenticare che sei mio marito!” e intendevo dirgli che quando sarebbe stato in Cielo avrebbe dovuto prendersi cura di me.
Com’è senza di lui?
È dura. Mi sento disorientata, perché prima c’era Marco che mi mostrava il cammino. Lui era garanzia di sicurezza, non c’era possibilità di deviare dal cammino che dentro la malattia mi aveva fatto scoprire un modo di vivere profondo, tutto spalancato sul presente. Sono due anni che è morto, ma l’amore vissuto con lui è stato così pieno e profondo che a me sembra di aver vissuto una vita matrimoniale lunga.
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In realtà noi siamo stati insieme 15 anni, 11 dei quali nella malattia; ma ho condiviso tutta l’intensità che due sposi possono vivere trascorrendo una lunga vita insieme. Non è mancato niente. Ora sento la sua mancanza, ma dentro sento anche la pienezza dell’amore che ci siamo scambiati. Questo è il magazzino a cui vado ad attingere quando avverto di più la solitudine. Rientrare nella vita senza di lui non è facile, ora ho delle categorie diverse con cui affrontare la realtà e sono quelle che ho scoperto durante la malattia. A questo proposito è significativo un fatto che capitò all’inizio della malattia, mi svegliai una domenica mattina e piansi. Molto ingenuamente gli chiesi: “Marco, a te capita mai di pensare cosa sarà il futuro, a come sarà tra un anno?”. La sua risposta fu rivelatrice, disse: “Mah … Cinzia, non so se è per incoscienza, ma io non ci penso a cosa sarà tra un anno. Io penso solo a domani; io prendo un giorno alla volta”. Fu la chiave di volta!
Questo è un messaggio importante da far passare, soprattutto per i giovani che vengono esclusivamente spinti a vivere sovrappensiero il presente, e a rifugiarsi nei sogni per il futuro. La tua scoperta del presente è stata: tutto quello che c’è ora e qui non è da perdere.
Non è da perdere! Io l’ho capito attraverso la malattia; io prima vivevo di progettualità. Progettare era proprio importante di per sé, al di là della realizzazione: nella mia testa il significato dell’esistenza lo dava il fatto stesso che mi mettessi a progettare. Ho messo in discussione questo mio modo. Oggi le persone, talvolta mi chiedono: “Che progetti hai per il futuro?”. Io non ne ho, di progetti; e mi rendo conto che chi mi ascolta può fraintendere, tipo “questa vive in balia degli eventi”.
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Ma la mia visione non è questa, bensì: io sono disposta ad accogliere quello che di giorno in giorno la vita mi darà. La vita, guardando bene, mi ha dato qualcosa di più importante di quello che io potevo sognare. Mi ha dato la possibilità di vivere un amore vero e pieno: il mio futuro era nel presente vissuto con Marco giorno per giorno. La vita mi ha dato un amore vero, cosa posso chiedere ancora di più? Non mi resta che vivere nel modo più intenso e gioioso gli anni che il Signore mi darà da vivere prima di riunirmi a Marco. Lo sento che mi accompagna e quando il mio pensiero va a lui, non riemerge il dolore ma la gioia. E quando prego Dio, non me lo immagino più solo ma in compagnia di Marco. Questo mi dà la forza di stare qui.