Ha fatto discutere il caso del figlio del boss barese mandato dal padre (al momento detenuto) alla propria prima comunione in Ferrari. L’occasione è propizia per richiamare alcuni spunti di spiritualità sacramentale… e per consigliare qualche lettura e un dono.
Oltre a essere uno dei mesi mariani, forse il più noto, oltre a essere quello della primavera che diventa estate e quello dell’anno sociale che si protende alle vacanze, maggio è pure il mese delle prime comunioni. Momento sublime della vita dei bambini, di per sé, diventa per le parrocchie fonte di non trascurabile stress, con annessi litigi tra i genitori dei bambini (per i fiori, la tunichetta, la coroncina, la croce…) e tra/con i catechisti (le letture, le preghiere dei fedeli, le foto, i regali).
«Ninetta mia, morire di maggio…»
In tutto ciò i parroci tentano di sopravvivere indenni, perfezionando ogni anno dispositivi che permettano a loro (e soprattutto ai bambini) di passare indenni tra genitori e catechisti come tra Scilla e Cariddi. Proprio ieri ho visto il mio parroco che ha messo le prime comunioni la mattina del primo maggio, così da garantire maggior raccoglimento ai bambini e minor pressione alle famiglie. Negli anni, mi è capitato di vedere perfino parroci che organizzavano due prime comunioni: la prima, quella vera, solo con bambini e genitori; la seconda, che è piuttosto una “seconda comunione”, con i parenti e i fotografi. Invenzione estrema, ma per certi versi pratica: e perfino in quel clima raccolto che si creava per la vera prima comunione restavano palpabili le tensioni promananti dal tessuto famigliare (separazioni, divorzi, seconde/terze unioni…).
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La Ferrari del bimbo barese
Non era ancora maggio, però, quando le polemiche per le prime comunioni sono esplose quest’anno: la Parrocchia del Redentore a Bari ha aperto la stagione col caso del bimbo presentatosi in Ferrari all’appuntamento mistico col Divino Redentore. O sarebbe meglio dire “presentato” in Ferrari, senza suffisso riflessivo – ché questa è una buona parte del problema. Queste comunioni erano “le prime” anche per il parroco, il salesiano Antonio D’Angelo, che aveva assunto l’ufficio (e il titolo di priore) solo lo scorso 23 settembre: «Mai viste cose simili – è stato difatti il suo commento –, che detesto e non approvo affatto. Non hanno nulla a che vedere con i sacramenti». Punto molto ben centrato, che del resto sembra essere sotto le cure pastorali del figlio di don Bosco da un po’, a giudicare da quanto proprio nell’omelia precedente aveva raccomandato: «Non trasformare i sacramenti in fuochi d’artificio e spettacoli».
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Già, perché il punto non è soltanto “la prima comunione”, ma la prima comunione in un orizzonte sacramentale di iniziazione cristiana. Solo che la Parrocchia del Redentore deve barcamenarsi fra l’orizzonte sacramentale e quello del quartiere Libertà, tra i più popolosi e difficili del capoluogo pugliese: il ragazzino è figlio di un boss, suo padre era in carcere e non gli è stato accordato il permesso di presenziare. Ci si chiederà: è dunque per questo che il genitore ha disposto il trasporto d’eccezione per il suo virgulto? Bisognerebbe leggerci una sorta di surrogazione simbolica per compensare l’assenza della figura paterna? Forse un’intervista diretta al capo malavitoso potrebbe sciogliere l’arcano, ma neppure è detto: ammesso e non concesso che volesse rispondere veracemente, non per questo è garantito che egli stesso avrebbe accesso al proprio inconscio. Soprattutto, la ricerca sarebbe orientata male perché – al di là di pur legittime osservazioni psico-sociologiche – il punto della questione non è codesto, bensì quello sollevato dal parroco: la natura dei sacramenti.
Dinamiche sacramentali Vs dinamiche social
Niente infatti è più lontano dei sacramenti dalle dinamiche social: in quelli infatti le specie (ossia, alla lettera, le “cose che si vedono”) vengono osservate e rispettate in virtù della realtà ad esse sottese, che per sua natura non cade sotto alcun senso; in queste invece non esiste altro che quanto si può vedere, toccare, sentire, gustare, percepire… le specie, insomma, diventano la realtà stessa, tutta intera.
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Essa è dunque vuota di ogni senso, ma la ragione per cui la dinamica sacramentale è strutturalmente acida e corrosiva nei confronti della “dinamica social” è che quest’ultima trasforma l’altro – da occasione e luogo d’incontro – in mero riflesso della propria immagine. I sacramenti invece trasformano l’altro – che per sua natura è quell’occasione e luogo d’incontro che dicevamo – in un prossimo in cui fare e far fare esperienza del Dio che si rivela. Sono come “giochi di specchi”, entrambi, ma le dinamiche social cercano di strappare barlumi di luce alla riflessione reciproca fra specchi che non attingono ad alcuna sorgente di luce, mentre quelle sacramentali invitano a orientare lo “specchio” proprio e altrui al «Padre delle luci» (Gc 1, 17). Per questo i padri del deserto avevano dichiarato un bando senza quartiere a ogni “κενοδοξία” [“kenodoxía”, letteralmente “gloria vuota”] e ci hanno ricordato le ragioni per cui la parola “δόξα” [“doxa”] era arrivata a significare – contemporaneamente – la gloria di Dio nel greco dei LXX e le mutevoli opinioni umane nel greco dei filosofi. Sempre di “qualcosa che appare” si tratta, ma da una parte assolutizzando le specie, cioè ciò che si vede; dall’altro invitando a contemplare la sostanza, cioè ciò che traspare. La realtà è una, ma sono gli sguardi a dire su quale versante di essa noi intendiamo collocarci, e la prima comunione è un momento straordinario per dare a questa “educazione dello sguardo” una marcia in più (oltre che un formidabile rito di passaggio nella vita spirituale e nella comunità ecclesiale).
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Da Gerusalemme a Roma, la tradizione costante
Per questo Cirillo di Gerusalemme diceva, nelle sue memorabili Catechesi Mistagogiche:
Il pane e il vino dell’Eucaristia, prima dell’invocazione dell’adorabile Trinità, non erano se non semplici pane e vino; ma terminata l’invocazione il pane è fatto corpo di Gesù Cristo e il vino suo sangue.
XIX catechesi (I mistagogica)
E ancora:
Il pane della eucaristia, dopo l’invocazione dello Spirito santo, non è più un pane comune, ma il corpo di Gesù Cristo.
XXI catechesi (III mistagogica)
E ancora:
Noi preghiamo Dio che è tanto buono e tanto propizio da inviare lo Spirito santo sopra ciò che viene offerto, affinché il pane venga reso il corpo di Gesù Cristo e il vino il sangue di Gesù Cristo.
XXIII catechesi (V mistagogica)
Erano gli anni ’80 del IV secolo, e queste parole venivano pronunciate a Gerusalemme da un vescovo che, pur essendo capo della Chiesa-Madre, non era ancora neppure un patriarcato. Nel 1910 un altro vescovo, pastore della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità la comunione fra tutte le Chiese» (Ignazio di Antiochia), avrebbe scritto nel decreto Quam singulari parole del tutto consonanti:
[…] come per la Confessione l’età della discrezione s’intende quella in cui si arriva a distinguere il bene dal male, così per la Comunione convien dire sia quella in cui si sappia distinguere il Pane eucaristico dal pane comune; ed è appunto questa l’età in cui il fanciullo ha raggiunto l’uso della ragione.
E ancora:
Da tutto ciò si raccoglie che l’età della discrezione per la Comunione è quella in cui il fanciullo sa distinguere il Pane eucaristico dal pane comune e materiale, da potere divotamente accostarsi all’altare. Non si ricerca dunque una perfetta conoscenza in materia di fede, essendo sufficienti pochi elementi, cioè una qualche cognizione; né è necessario il pieno uso della ragione, bastando un uso incipiente, cioè un cotal quale uso della ragione. Laonde protrarre in lungo la Comunione e fissar per essa un’età più matura, è uso del tutto riprovevole e condannato più volte dalla Sede Apostolica.
E nella fattispecie:
La conoscenza della Religione che si richiede nel fanciullo, perché possa prepararsi convenientemente alla prima Comunione, consiste in questo, che egli comprenda, per quanto lo consentano le forze della sua intelligenza, i misteri della Fede necessari di necessità di mezzo, e sappia distinguere il Pane eucaristico dal pane comune e materiale, per potersi accostare alla SS.ma Eucaristia con quella divozione di cui è capace la sua età.
Era Pio X a scrivere queste parole, che restano tuttora normative nella Chiesa cattolica: ai bambini non si devono proporre modelli impossibili, ma ci si deve guardare dal distrarli da quanto del mistero eucaristico possono percepire come dalla peste. Certamente non tutti i nostri figli saranno Imelda Lambertini, eppure a tutti dovremmo parlare di lei, perché in vicende come la sua il Signore ha ribadito nei secoli la sua predilezione per i piccoli – di età, di cuore, di spirito.
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Regalate l’Imitazione di Cristo
Una volta era patrimonio comune dei cattolici, ma non è mai troppo tardi per riscoprire che tutto il quarto libro dell’aureo opuscolo Sull’imitazione di Cristo è dedicato alla preparazione alla comunione. Il suo linguaggio semplice e diretto, poi, lo rende adatto a tutti gli spiriti e da tutti diversamente fruibile. Al capitolo XII si legge:
Io sono colui che ama la purezza; io sono colui che dona ogni santità. Io cerco un cuore puro: là è il luogo del mio so. Allestisci e “apparecchia per me un’ampia sala ove cenare (Mc 14,15; Lc 22,12), e farò la Pasqua presso di te con i miei discepoli”. Se vuoi che venga a te e rimanga presso di te, espelli “il vecchio fermento” (1Cor 5,7) e purifica la dimora del tuo cuore. Caccia fuori tutto il mondo e tutto il disordine delle passioni; sta “come il passero solitario sul tetto” (Sal 101,8) e ripensa, con amarezza di cuore, ai tuoi peccati. Invero, colui che ama prepara al suo caro, da cui è amato, il luogo migliore e più bello: di qui si conosce l’amorosa disposizione di chi riceve il suo diletto. Sappi tuttavia che, per questa preparazione – anche se essa durasse un intero anno e tu non avessi altro in mente – non potresti mai fare abbastanza con le tue sole forze. È soltanto per mia benevolenza e per mia grazia, che ti viene concesso di accostarti alla mensa: come se un poveretto fosse chiamato al banchetto di un ricco e non avesse altro modo per ripagare quel beneficio che farsi piccolo e rendere grazie. Fa’ dunque tutto quello che sta in te; fallo con tutta attenzione, non per abitudine, non per costrizione. Il corpo del tuo Diletto Signore Dio, che si degna di venire a te, accoglilo con timore, con venerazione, con amore. Sono io ad averti chiamato; sono io ad aver comandato che così fosse fatto; sarò io a supplire a quel che ti manca. Vieni ed accoglimi. Se ti concedo la grazia della devozione, che tu ne sia grato al tuo Dio; te la concedo, non già per il fatto che tu ne sia degno, ma perché ho avuto misericordia di te. Se non hai questa devozione, e ti senti piuttosto arido, insisti nella preghiera, piangi e bussa, senza smettere finché non avrai meritato di ricevere almeno una briciola o una goccia della grazia di salvezza. Sei tu che hai bisogno di me, non io di te. Sono io che vengo a santificare te e a farti migliore, non sei tu che vieni a dare santità a me. Tu vieni per ricevere da me la santità, nell’unione con me; per ricevere nuova grazia, nel rinnovato, ardente desiderio di purificazione. “Non disprezzare questa grazia” (1Tm 4,14); prepara invece il tuo cuore con ogni cura e fa’ entrare in te il tuo diletto.
Ancora, occorre, non solo che tu ti disponga a pietà, avanti la Comunione, ma anche che tu ti conservi in essa, con ogni cura, dopo aver ricevuto il Sacramento. La vigilanza di poi non deve essere inferiore alla devota preparazione di prima; ché tale attenta vigilanza è a sua volta la migliore preparazione per ottenere una grazia più grande. Taluno diventa assai mal disposto, proprio per essersi subito abbandonato a consolazioni esteriori. Guardati dal molto parlare; tieniti appartato, a godere del tuo Dio. È lui che tu possiedi; neppure il mondo intero te lo potrà togliere. Io sono colui al quale devi darti interamente, così che tu non viva più in te, ma in me, fuori da ogni affanno.
Non sarebbe bello farne dono a quel bimbo barese, così povero che l’hanno mandato in Ferrari alla sua prima comunione? E ai suoi amichetti? E a suo padre? E a noialtri adulti, che spesso viviamo anche noi nel carcere delle mere apparenze e della “gloria vuota”?