Capita che sia promossa più dalle comunità cattoliche che da quelle ortodosse o protestanti, ma al principio l’idea fu proprio di alcuni fratelli separati, che oltre ad avere la necessaria sensibilità scelsero pure la data. È vero, la “festa della conversione di san Paolo” è attestata fin dal IX secolo, dunque appartiene a quella che – a grandi linee e non senza qualche grossolana approssimazione – chiamiamo “età della Chiesa unita”. Ma perché proprio l’Apostolo delle genti? Scopritelo.
Oggi ricorre la festa della Conversione dell’apostolo Paolo, che da più di un secolo individua il culmine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. È piuttosto noto come l’arco temporale 18-25 febbraio sia stato scelto per il suo culminare nella festa della conversione di Paolo: meno noto, forse, che la scelta non sia sorta in àmbito cattolico. Come sintetizza bene un redazionale di Famiglia Cristiana,
in realtà, la prima ipotesi di una preghiera per l’unità delle Chiese, antenata dell’odierna Settimana di preghiera, nasce in ambito protestante alla fine del XVIII secolo; e nella seconda metà dell’Ottocento comincia a diffondersi un’Unione di preghiera per l’unità sostenuta sia dalla prima Assemblea dei vescovi anglicani a Lambeth (1867) sia da papa Leone XIII (1894), che invita a inserirla nel contesto della festa di Pentecoste. Agli inizi del Novecento, poi, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Joachim III scrive l’enciclica patriarcale e sinodale Lettera irenica (1902), in cui invita a pregare per l’unione dei credenti in Cristo. Sarà infine il reverendo Paul Wattson a proporre definitivamente la celebrazione dell’Ottavario che lo celebra per la prima volta a Graymoor (New York), dal 18 al 25 gennaio, auspicando che divenga pratica comune.
Nel 1926 Il movimento Fede e Costituzione dà avvio alla pubblicazione dei Suggerimenti per l’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani (Suggestions for an Octave of Prayer for Christian Unity), mentre nel 1935 l’abate Paul Couturier, in Francia, promuove la Settimana universale di preghiera per l’unità dei cristiani, basata sulla preghiera per «l’unità voluta da Cristo, con i mezzi voluti da lui». Nel 1958 Il Centre Oecuménique Unité Chrétienne di Lione (Francia) inizia la preparazione del materiale per la Settimana di preghiera in collaborazione con la commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Forse la cosa potrà sembrare paradossale, a chi oggi può avere l’impressione che sia la Chiesa Cattolica a insistere diuturnamente sulla ricostruzione dell’unità visibile fra tutti i cristiani, ma per onestà intellettuale bisogna riconoscere che c’è stato un tempo in cui l’ecumenismo a Roma era inteso perlopiù come un “noi siamo qui: quando volete tornare avvisateci”. Non inesistenti ma rare erano le autocritiche, come se l’infallibilità pontificia riguardasse non un particolare ed eccezionale tipo di magistero romano, bensì l’istituto papale sic et simpliciter, ugualmente in tutte le sue forme storiche e accidentali. Sul punto, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha segnato un deciso e irreversibile (lo ricordava buon ultimo Papa Francesco sei giorni fa) cambio di marcia, e questo non solo nel pur importante decreto Unitatis Redintegratio, il documento specificamente dedicato alla causa ecumenica, ma soprattutto nel moto di autocoscienza oggettivato nel paragrafo 8 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium:
Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica [12] e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui [13], ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica.
Un lungo ed acceso dibattito ha accompagnato la gestazione della formula “subsistit in”, che ha sostituito il semplice “est” dei primi schemi: l’unica Chiesa di Cristo non è la Chiesa cattolica – intesa come la comunione universale di vescovi col Romano Pontefice – bensì sussiste in essa conservando tutte le sue prerogative native (che in altre chiese o comunità ecclesiali possono aver perso qualcosa). E chiaramente la cattolicità è una delle note dell’unica Chiesa di Cristo – il Concilio ricorda che lo professiamo tutti fin dal IV secolo – ma lo stesso non può dirsi della “romanità”.
Perciò tutti i cattolici – si legge nel Decreto conciliare sull’Ecumenismo – devono tendere alla perfezione cristiana (20) e sforzarsi, ognuno secondo la sua condizione, perché la Chiesa, portando nel suo corpo l’umiltà e la mortificazione di Gesù (21), vada di giorno in giorno purificandosi e rinnovandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire innanzi risplendente di gloria, senza macchia né ruga (22).
Nella Chiesa tutti, secondo il compito assegnato ad ognuno sia nelle varie forme della vita spirituale e della disciplina, sia nella diversità dei riti liturgici, anzi, anche nella elaborazione teologica della verità rivelata, pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino la debita libertà; in ogni cosa poi pratichino la carità. Poiché agendo così manifesteranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l’apostolicità della Chiesa.
D’altra parte è necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati. Riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo talora sino all’effusione del sangue, è cosa giusta e salutare: perché Dio è sempre mirabile e deve essere ammirato nelle sue opere.
Né si deve dimenticare che quanto dalla grazia dello Spirito Santo viene compiuto nei fratelli separati, può pure contribuire alla nostra edificazione. Tutto ciò che è veramente cristiano, non è mai contrario ai beni della fede ad esso collegati, anzi può sempre far sì che lo stesso mistero di Cristo e della Chiesa sia raggiunto più perfettamente.
Tuttavia le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa realizzi la pienezza della cattolicità a lei propria in quei figli che le sono certo uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione. Inoltre le diventa più difficile esprimere sotto ogni aspetto la pienezza della cattolicità nella realtà della vita.
Questo santo Concilio costata con gioia che la partecipazione dei fedeli all’azione ecumenica cresce ogni giorno, e la raccomanda ai vescovi d’ogni parte della terra, perché sia promossa solertemente e sia da loro diretta con prudenza.
Unitatis redintegratio 4
Questo è quanto, o perlomeno si può così intendere un richiamo ai “fondamentali”. Non abbiamo ancora spiegato, però, perché dei protestanti abbiano scelto proprio questa finestra liturgica per affacciarsi sul tema dell’ecumenismo: mi torna in mente la bella tela di Giovanni Baglione conservata in una cappella laterale di Santa Cecilia in Trastevere, a Roma… L’opera, risalente al 1601, si presenta come un evidente esemplare del “periodo caravaggesco” del cavalier pittore (anche se la critica non è certa che vi sia un’unica mano), ma se la si osserva con attenzione si noterà una mordace ironia che dice a un tempo la tensione che nel corso della modernità si era instaurata tra i due dioscuri della romanità cristiana… e finalmente la loro inscindibile sintesi.
Osservate: Pietro tiene con la sinistra un libro e con la destra indica secco a Paolo le parole “Pasce oves meas”, come a dire “Leggi qua chi è il capo”; Paolo, da parte sua, si tiene appoggiato alla spada e con la sinistra si gratta pensoso la barba del mento – fin dalla prima volta che l’ho visto mi è parso assai scettico. Ma poi di norma l’oggetto-simbolo di Pietro sta nelle Chiavi, perlomeno nella narrazione “papista” moderna… il libro si trova in alcune delle raffigurazioni antiche e medievali: in quel caso però si tratta sempre del libro delle epistole petrine, esemplato su quello (affermatosi precedentemente) delle epistole paoline. Qui non solo Pietro non ha le chiavi, ma il libro che ha in mano non è il suo, bensì è un Vangelo. Attenzione, non quello secondo Marco, suo discepolo (avrebbe ancora un senso); non quello secondo Matteo, che contiene il racconto della Confessione di Cesarea e della contestuale investitura “petrina” (Mt 16, 13-20), passo fortunatissimo nell’elaborazione dottrinale fin da Damaso e Leone; il libro che invece Pietro ha in mano è il Vangelo secondo Giovanni, che nel capitolo 21 riporta la propria versione del primato. Ma c’è una differenza fortissima, tra Matteo e Giovanni, una più forte di tutte le altre: nel racconto matteano l’investitura primaziale segue un momento di “bravura” di Simone (ispirato dall’Alto); in quello giovanneo essa segue il triplice rinnegamento durante la Passione e lo smarrimento dopo la stessa risurrezione. Così la scelta del pittore (e della committenza) appare da principio improntata ad insinuare una rivalità fra Pietro e Paolo, quasi un velato antagonismo (del resto è dai tempi delle pseudo-Clementine che la storia si ripete); a leggerla bene, invece, la tela afferma che la promessa di Cristo a Pietro è più solida di qualsivoglia tradimento umano, perfino dello stesso Pietro. Baglione e la committenza avevano freschi alla memoria i pontificati del XVI secolo, che aveva visto sulla prima sedes fulgide luci come quella di san Pio V ma pure lo spregiudicato pragmatismo di Sisto V, l’esuberante carnalità di Alessandro VI, il cinismo politico di Giulio II e l’effeminata indolenza di Leone X, cui si deve larga parte della cancrena aperta in Germania con la riforma luterana e la Protestatio dei principi elettori.
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Tutto vero, però Gesù chiede a Pietro se lo ama «più di tutto questo» e Pietro risponde che sì, lo ama. E allora «Pasci le mie pecore». Punto. Paolo stesso, “patrono della Riforma”, non può negare che le cose stiano così, e forse è proprio per questo che Baglione non ha dotato Paolo del suo abituale attributo, il codice delle epistole: per non contrapporre libro a libro, poiché nell’unica Chiesa di Cristo non c’è Pietro contro Paolo o Paolo contro Pietro – difatti il libro che Pietro ostende non è suo, è la Scrittura. È della Chiesa.
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E com’è accaduto che nel frattempo Paolo fosse diventato “il patrono della Riforma”? Me lo spiegò a suo tempo Giancarlo Pani, in un corso di storia della Chiesa moderna. Anche nel suo bellissimo Paolo, Agostino, Lutero si trovano squarci illuminanti, ad esempio laddove si riporta dagli statuti dell’università di Wittenberg (esatto, quella di Lutero) la dedicazione:
Il nuovo centro di studi, si legge nel caput primum, istituito a gloria di Dio ottimo massimo [traduzioni dal latino mie], è dedicato allo stesso Dio […] e alla sua intemerata madre, Maria Vergine. Si prosegue poi: come patrono speciale e nume tutelare di tutto il nostro ginnasio eleggiamo e deputiamo Aurelio Agostino, e in specie per la facoltà teologica san Paolo. Si indicano quindi i santi protettori delle altre facoltà.
G. Pani, Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno 122
È poi noto come la teologia luterana sia stata radicalmente accentrata da fratel Martin nell’evangelo paolino (un’idea già avanzata da Marcione nel II secolo…), e naturalmente possiamo criticare i frutti acerbi dello zelante entusiasmo di Lutero in tal senso… ma perché possiamo farlo?
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Perché Paolo non è stato eletto “patrono della Riforma” quasi in opposizione a Pietro, bensì la Riforma ha rivendicato per la propria primavera un importante carisma che quel gigantesco discepolo di Gesù noto come Albert Schweitzer chiamò “il diritto a pensare”: era stato Paolo a «introdurlo nel cristianesimo», stando al nobile figlio d’Alsazia.
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Un altro strepitoso figlio della Chiesa – a differenza di Martin e Albert questo fu un ortodosso russo – individuò a sua volta in “Paolo” l’eponimo dei protestanti. La modernità ormai sfociava nel secolo breve, e mentre Nietzsche moriva pazzo Vladimir Solov’ëv vergava di getto i suoi Tre dialoghi, culminanti nel vertiginoso Racconto dell’Anticristo. Lì si narra – tra mille altre cose – dell’ultimo concilio ecumenico (anzi di quello convocato illegittimamente dall’Anticristo e di quello presieduto dal piccolo resto): la figura-simbolo dei cattolici è Papa Pietro II (chi conosce le leggende medievali sa già che con lui dovrà finire il mondo); quella degli ortodossi è lo Starec Ioann; e
a capo dei delegati evangelici al concilio era invece un dottissimo teologo tedesco, il professor Ernst Pauli, un vecchietto piccolo e rinsecchito, dalla fronte enorme, il naso affilato e il mento accuratamente rasato. I suoi occhi si distinguevano per lo sguardo al tempo stesso intenso e mansueto. Si stropicciava continuamente le mani, scuotendo la testa, aggrottando minacciosamente le sopracciglia e serrando le labbra; e nel frattempo pronunciava con voce cupa delle parole spezzate: so! nun! ja! so also! Indossava uno sfarzoso abito da cerimonia: cravatta bianca e lunga redingote da pastore adorna di decorazioni.
È tedesco come Lutero, certo, ma la fisionomia di Pauli descritta dal Russo è proprio quella dell’Apostolo delle Genti (almeno stando a come ce la riportano gli Atti di Paolo e Tecla). Poiché il ritratto che ne viene non è attraente, e a scanso di equivoci, riporto il paragrafo in cui si narra di Onesiforo – il quale riconosce il mai prima visto Apostolo sulla base della descrizione di Tito – che va incontro a Paolo:
Scorse Paolo che stava venendo: era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunge, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte infatti aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo.
Molto è stato scritto a proposito di questo stravagante ritratto, e forse è da tener per buona, in mancanza di meglio, l’interpretazione che vuole leggere nel passaggio un’influenza del cosiddetto “canone di bellezza socratico” – quella di un vecchio basso e tarchiato, dalla faccia simile a quella di un fauno, la cui prestanza spirituale è tale da sedurre aitanti giovanotti come Alcibiade.
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Di certo è valsa a sedurre, o perlomeno a persuadere, i pittori, che sempre meno si sono attenuti al testo apocrifo – che permane nondimeno la più antica descrizione fisica di Paolo – e sempre più hanno cercato di esaltare, al limite mantenendo calvizie e naso pronunciato, “la bellezza interiore” di Paolo.
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E qual era questa bellezza? Proprio quella per cui almeno dal IX secolo alcuni martirologi ci riferiscono della sua festa odierna: la conversione. In un bell’articolo dello stesso Giancarlo Pani, comparso su La Civiltà Cattolica il 4 gennaio 2014, si legge:
Certo, nell’incontro del Risorto con Paolo si può parlare di “conversione”. L’evento tuttavia ha una certa varietà di denominazione: “vocazione”, “rivelazione”, “illuminazione”, “folgorazione sulla via di Damasco”, “rivoluzione, trasformazione”, “trasfigurazione di Paolo”. […]
Che nella vicenda di Paolo sulla via di Damasco si tratti anche di “conversione”, non c’è alcun dubbio.
G. Pani, Paolo sulla via di Damasco: conversione o vocazione?, in La Civiltà Cattolica 3925, 4 gennaio 2014, 32-46, 32
Dopo aver esplorato in lungo e in largo nello spazio di quindici dense pagine la migliore letteratura specialistica sull’argomento, Pani conclude:
Ma allora, in conclusione, se si tratta di dare un senso specifico a un termine che ha già un significato proprio, tanto vale adottare quello di “vocazione”, che Paolo stesso ha scelto per indicare la sua missione di apostolo
Ivi, 46
E del resto è innegabile che, risemantizzata al culmine dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, la festa odierna diventa senz’altro per noi ciò che fu ed è per lo stesso Apostolo, un munus, cioè un dono e un mistero, una chiamata e un impegno, in breve una vocazione che invoca una conversione. Non esiste un’altra strada verso l’unità.
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