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Notizie dal mondo: venerdì 4 gennaio 2019

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TOBIAS SCHWARZ / AFP AI

German Chancellor Angela Merkel attends a session of the Bundestag (lower house of parliament) in Berlin November 27, 2015. AFP PHOTO / TOBIAS SCHWARZ / AFP / TOBIAS SCHWARZ

Paul De Maeyer - pubblicato il 05/01/19

Germania: account di centinaia di politici sono stati hackerati

Si tratta del più massiccio attacco mai effettuato da hacker nella storia della Germania. Ignoti hanno rubato e diffuso dati personali appartenenti a centinaia di politici (nazionali, regionali e locali) e ad altre personalità della vita pubblica tedesca. Tra le numerose persone prese di mira dai pirati informatici spiccano la cancelliera Angela Merkel e anche il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier. Sono stati hackerati i profili di politici di tutte le maggiori formazioni, in modo particolare proprio la CDU della Merkel e l’SPD di Steinmeier. Un solo partito non è stato colpito dall’attacco, la formazione di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania), un elemento che potrebbe gettare luce sulle simpatie dei responsabili dell’hackeraggio.

La ministra federale della Giustizia, Katarina Barley, ha qualificato l’attacco come «grave». Secondo la politica dell’SPD, citata dallo Spiegel Online, «gli autori vogliono danneggiare la fiducia nella nostra democrazia e nelle sue istituzioni». In un tweet, citato dalla Deutsche Welle, l’Ufficio Federale per la Sicurezza Informatica (BSI), si è espresso venerdì 4 gennaio sull’evento. «Attacco hacker ai politici: attualmente il BSI sta esaminando intensamente il caso in stretto coordinamento con altre autorità federali», così si legge nel messaggio. Ad assumere il coordinamento delle indagini è stato il Centro nazionale di difesa cibernetica.

Brasile: le prime mosse del neo-presidente Jair Bolsonaro

Il debutto del neo-presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, «non ha lasciato spazio a dubbi», scrive il quotidiano El País, che presenta le prime mosse dell’esecutivo. Destano senz’altro perplessità le parole pronunciate dal ministro della Casa Civile (un incarico definito «a metà strada tra premier e capo di gabinetto» dall’agenzia Askanews), Onyx Lorenzoni, il quale ha annunciato che il nuovo governo intende «ripulire» il palazzo di Planalto, mandando via più di 300 funzionari assunti a tempo determinato con «idee socialiste e comuniste», le quali hanno portato al «caos che viviamo oggi». Il piano fa parte di ciò che il governo Bolsonaro definisce la «despetização», cioè l’eliminazione dell’eredità «petista», cioè appartenente al Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores o PT) degli ex presidenti Luiz Inácio «Lula» da Silva (2003-2011) e Dilma Rousseff (2011-2016).

Anche i diritti dei nativi sono finiti sotto la scure del nuovo esecutivo. Confermando i timori sorti durante e dopo la campagna per le elezioni presidenziali 2018, il governo Bolsonaro ha passato la gestione dei confini dei territori dei popoli indigeni dalla Fondazione Nazionale per gli Indigeni (Fundação Nacional do Índio, nota con la sigla FUNAI) al ministero dell’Agricoltura, così ricorda la Neue Zürcher Zeitung. A capo del ministero c’è Tereza Corrêa da Costa Dias, nota per aver difeso come deputata gli interessi dell’industria agraria e dei latifondisti. E come ha segnalato Avvenire, «già si spara per uccidere». Il 21 dicembre, un commando armato ha assaltato infatti il campo base della FUNAI sui fiumi Ituí e Itacoaí, nella Valle del Javarí, «uno dei frammenti più inaccessibili di Amazzonia».

Repubblica Democratica del Congo: il blocco di Internet come arma politica

Nelle scorse settimane si è parlato molto del cosiddetto «shutdown» negli USA, cioè il blocco di circa un quarto delle attività federali, effetto dello stallo tra Repubblicani e Democratici sui fondi chiesti dal presidente Donald Trump per la costruzione del muro lungo il confine con il Messico. Ma c’è anche un altro «shutdown», cioè il blocco di Internet, degli SMS e delle trasmissioni di Radio France Internationale (RFI) imposto dal governo della Repubblica Democratica del Congo in seguito alle caotiche elezioni presidenziali di domenica 30 dicembre. Il blocco potrebbe durare fino a domenica 6 gennaio, quando si dovrebbe annunciare l’esito del voto.

Mentre lo «shutdown» minaccia secondo la Deutsche Welle la credibilità del processo elettorale nell’immenso Paese, il quotidiano svizzero Le Temps ricorda che non è la prima volta che le autorità della RDC ricorrono a questa tattica, utilizzata ormai come una vera e propria «arma». E’ già successo in altri Paesi africani (e non solo), ad esempio Mauritania, Sierra Leone e persino Etiopia. «E’ una tendenza estremamente preoccupante», dichiara Arnaud Froger, responsabile per l’Africa di Reporter senza Frontiere. «Sempre più paesi censurano Internet, e lo fanno sempre più spesso», continua Froger. Un’altra strategia applicata da alcuni Paesi africani è l’aumento delle tasse sulle reti sociali. Il Ciad è da nove mesi senza social media, spiega Froger.

Cina: Huawei punisce due dipendenti che hanno usato l’iPhone per fare gli auguri

La Huawei non perdona. Il colosso cinese delle telecomunicazioni ha infatti punito due dei suoi dipendenti, rei di aver utilizzato uno smartphone della concorrenza – un iPhone – per spedire dall’account ufficiale dell’azienda un tweet con gli auguri di Buon Anno 2019. Come scrive il South China Morning Post, il gruppo con sede a Shenzhen, nella Cina meridionale, ha punito i due dipendenti in questione con una retrocessione di livello e un taglio di stipendio. Anche se Huawei ha cancellato immediatamente il messaggio, che portava ben in vista la frase «via Twitter for iPhone», la frittata era comunque fatta, come dimostrano le immagini che circolano su siti come AppleInsider. La gaffe è arrivata pochi giorni dopo l’annuncio da parte della stessa Huawei di aver spedito 200 milioni di smartphone nel corso del 2018.

Huawei, che si è piazzata al secondo posto tra i più grandi produttori di smartphone al mondo, scavalcando Apple, viene sospettata di aver violato le sanzioni americane contro l’Iran. In questo contesto, il Canada aveva arrestato il 1° dicembre scorso su richiesta degli USA la direttrice finanziaria di Huawei Technologies, Meng Wanzhou. L’arresto della figlia del fondatore di Huawei ha scatenato l’ira di Pechino, che come rappresaglia ha arrestato già 13 cittadini canadesi. Venerdì 4 gennaio la Cina ha comunicato che «proteggerà i diritti» delle persone arrestate.

Kosovo: la nuova moschea regalata dalla Turchia e i timori per il neo-ottomanismo

Sono passati già sei anni da quando è stata posata la prima pietra della nuova moschea centrale della capitale del Kosovo, Pristina. Ma il cantiere è tuttora in stallo, così osserva il Guardian, anche se nel giovane Paese, che l’anno scorso ha celebrato il 10° anniversario della sua indipendenza dalla Serbia, mancano moschee ed edifici di culto islamico. Il 95% della popolazione è infatti di fede musulmana, ma durante gli anni della guerra sono andate distrutte tra 150 e 200 moschee, ricorda il quotidiano britannico.

A frenare la costruzione dell’edificio religioso, che è un regalo della Turchia e sarà infatti supervisionato dal Diyanet, cioè l’Autorità per gli affari religiosi turca, sono i timori di un cosiddetto «neo-ottomanismo». Scalpore fecero le parole pronunciate nel 2013 da Recep Tayyip Erdogan. In visita nel Paese, l’allora primo ministro e attuale presidente turco dichiarò ad esempio che «il Kosovo è Turchia e la Turchia è Kosovo».

Il progetto scelto tra oltre 30 proposte, tra cui anche una dell’archistar Zaha Hadid, è basato sulla moschea Selimiye di Edirne, in Turchia, ed è una moschea in tipico stile ottomano. A causa del disinteresse dell’Occidente, «l’unica porta aperta» conduce alla Turchia e «alcuni vogliono varcarla», così spiega Xhabir Hamiti, professore di Studi islamici presso l’Università di Pristina, citato dal Guardian. Oltre alla Turchia anche l’Arabia Saudita è molto attiva nella regione, a rischio di radicalizzazione.

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