Rinunciando a stare a tavola con il Cielo, ci assolviamo da soli nel Paradiso dei golosi o ci danniamo nell’Inferno dell’anoressia. Alla paura di vivere dei nostri figli che può sfociare nell’autolesionismo come rispondiamo?
L’obiettivo non è la bellezza, è sparire; perché vivere comporta dei rischi giorno per giorno. La mia più grande paura non era morire, ma vivere. (da Nemo)
I Dca, disturbi del comportamento alimentare, sono una piaga dilagante che colpisce il nervo scoperto più vivo che abbiamo, i nostri figli. Hanno molti nomi, l’anoressia nervosa è forse il più famigerato, sebbene tutti abbiano conseguenze che possono essere mortali.
Eccesso e carenza, abbuffarsi e vomitare: sono una fotografia impietosa della nostra civiltà incapace di far rivolgere il grido «ho fame, ho sete» all’anima, e non solo alle voglie e nausee della bocca.
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Sarebbe così eccessivo inquadrare una serata come tante a casa di una famiglia come tante con un adulto sul divano a sgranocchiare schiffezze davanti a un reality show e una figlia in bagno a rigurgitare la cena, guardarsi allo specchio e andare a dormire? Insieme, eppure ciascuno a fare i conti da solo con i propri bisogni e carenze.
I disturbi del comportamento alimentare interessano 3,2 milioni di persone tra 12 e 17 anni e trecentomila bambini tra 6 e 12 anni hanno problemi con il cibo. Per Laura Dalla Ragione, referente scientifico del Ministero della Salute per i Dca, “una vera e propria epidemia. Inoltre, l’età di esordio si è abbassata, vengono colpite bambine di 8-10 anni”. E sempre più maschi, oggi il 20 per cento del totale. (Huffington Post)
Susanna Manzin ci richiama spesso al valore della cena in famiglia, come momento educativo non solo sul cibo ma sulla dignità intera della persona; è lo stesso puntiglio con cui il Vangelo scandisce momenti cruciali con scene conviviali (a Cana il primo miracolo, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, l’Ultima Cena per congedarsi dagli amici senza abbandonarli). Chesterton disse che ogni vera discussione deve partire a tavola, perché occorre inginocchiarsi all’umilta dell’ Incarnazione. Dio lo ha fatto, ha camminato con noi per le strade e invitato i discepoli di Emmaus a mangiare con lui, per dimostrare che non era un fantasma. Rinunciando a stare a tavola con il Cielo, ci assolviamo da soli nel Paradiso dei golosi o ci danniamo nell’Inferno dell’anoressia.
La vocina di Ana
Molti giornalisti hanno esplorato il mondo sommerso, mutevole, fluttuante delle chat pro-anoressia: qualunque ragazzina o ragazzino alla ricerca di risposte al suo disagio trova ami che possono precipitarli in un abisso di abiezioni. Non si tratta più di blog, perché possono essere facilmente controllati e chiusi, bensì di forme più istantaee al passo coi tempi della comunicazione virtuale:
Si incontrano in spazi virtuali, definiti “pro Ana” e “pro Mia” a seconda che vi si celebri l’anoressia o la bulimia. Condividono consigli, regole autoimposte, fotografie di corpi emaciati e braccia sfregiate, si supportano nel mantenimento di propositi malati, amplificando i rischi, concretissimi, che queste patologie, che possono condurre alla morte, in espansione come altri disturbi alimentari, si cronicizzino e si diffondano. (da Ibid)
Un elemento in comune a queste chat, oltre al controllo severissimo degli iscritti, è la personificazione della malattia in una voce amica, Ana. Così come il diavolo motteggia Dio, qui la voce della coscienza viene trasformata in un interlocutore suadente che segna le tappe incalzanti del percorso di autodistruzione personale. Sono gli stessi meccanismi di persuasione di una setta, e sono potenti. Pinocchio sbottava di fronte al Grillo Parlante, perché la verità è dura da digerire; invece Ana assume la forma inflessibile ma tenera di colei che sa meglio di tutti come renderti felice. Strana parola da usare per chi persegue una strada di progressiva rinuncia del cibo, controllo maniacale del peso, autolesionismo.
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Eppure, spulciando nel decalogo delle promesse fatte dai guru nascosti pro-anoressia, l’ultimo traguardo è proprio: «Sarai finalmente felice». Altre promesse?
- Le persone si ricorderanno di te come quella magra e bella
- Potrai finalmente vedere le tue splendide ossa
- Non ti alzerai più la mattina sentendoti un cesso davanti allo specchio
È davvero un ribaltamento diabolico, perché immancabilmente l’uomo ha bisogno di affidarsi e fidarsi di un «dio»; noi grandi sopravviviamo in un limbo senza eroi né divinità, ma i giovani hanno il cuore più spalancato degli adulti e proprio non riescono a stare senza un guida ispiratrice. Se non hanno incontrato i dieci comandamenti, possono finire per incontrare il decalogo delle promesse di Ana. Ciò la dice lunga sul pregiudizio che le leggi siano una catena per l’uomo; al contrario l’uomo davvero libero sente il bisogno di vincolarsi a qualcosa.
Anche senza infiltrarsi nell’universo delle chat, ci si può fare un’amara idea di questa trama sommersa di relazioni malate seguendo su Twitter #thininspiration e imbattersi in commenti “magari fossi così bella!” sotto questa foto:
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Voglio digiunare per 20 giorni
“Sono malata di anoressia da 15anni. Ne ho 26. Più di 7 tso alle spalle – scrive -. Un centinaio di ricoveri in ospedale e in centri di tutta Italia. Definita cronica, peso 25 kg. Sono andata in coma una decina di volte e sempre risvegliata con stupore dei medici. Aiuto divino o culo? Non lo so. Mi faccio 6 ore di bicicletta al giorno e mangio 200 kcal solo di verdure. Non mi nutro di altro. Bene. Le conseguenze che ho subito sono osteoporosi al femore e alla colonna vertebrale. Ansia. Disturbi ossessivi compulsivi. Amenorrea da 10 anni. Bronchiolite cronica, ossia il polmone destro distrutto. Vertebre schiacciate. Perdita notturna di urina. Diarrea 5 volte al giorno. Vita sociale nessuna. Ho perso tutto. Dalla famiglia alle amicizie. E voi inneggiate questa bestia. Correte al riparo finché siete in tempo”. (da Adnkronos)
Da quale ferita nasce questo percorso autodistruttivo che non si limita a una dieta annichilente (alcune ragazze si ripromettono di digiunare per 20 giorni, altre confidano di non ingerire più di 200 calorie al giorno), ma deborda in comportamente autolesionistici?
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Ci sono approfondite risposte psichiatriche e sociologiche, riferimenti incrociati col bullismo, ma credo che una sintesi mirata al cuore del problema sia stata data da Francesca, le cui parole alla giornalista di Nemo ho riportato in apertura; ripetiamole.
L’obiettivo non è la bellezza, è sparire; perché vivere comporta dei rischi giorno per giorno. La mia più grande paura non era morire, ma vivere.
Francesca racconta di essere arrivata a pesare 30 chili e di aver corso il rischio di un arresto cardiaco in più occasioni. Ne è uscita con un percorso di riabilitazione molto lungo, come è necessario che sia. Nella sua voce trovo non solo un’analisi, ma anche la cura … o meglio … una visione complessiva sul senso di una cura all’anoressia: vivere comporta un rischio quotidiano, perché è una vocazione a cercare il proprio volto lungo un viaggio imprevisto. Sappiamo proporlo ai nostri figli?
Il bisogno per nulla sottorreaneo che gridano questi corpi scheletrici è sentirsi dire che sono amati, perché da soli non ce lo si può dire. Da soli si mette a fuoco bene, benissimo, il proprio orgoglio o il proprio marcio; i limiti diventano montagne di dita puntate contro. Da soli non ci si salva, da soli non ci si assolve, da soli non ci si abbraccia. Da soli si può digiunare per 20 giorni, per espiare colpe a cui non si sa dare un nome diverso e non disperante. Da soli si implode nel nulla.
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A questa paura di vivere come rispondiamo? È questa la domanda che mi frulla nella testa. Certo, ci sono tantissime strutture che possono soccorrere quando si deve correre ai ripari, ma nella quotidianità c’è una trincea da cui non possiamo scappare: l’incontro con lo sguardo dei nostri figli, talvolta sfuggono proprio dal guardarti negli occhi. Mettono il cartello “STOP!” sulla porta di camera.
Si possono infilare dei fogliettini da sotto, però. Lo dico in senso metaforico, si deve trovare il modo di recapitare loro l’invito che anche a noi fu rivolto: quando guardò il mondo che aveva creato, Dio disse che era una cosa buona. Eppure aveva separato la luce dal buio, cioè sapeva di aver messo i suoi figli dentro un’avventura che richiedeva coraggio.
Ad ogni pranzo e cena, noi mettiamo in tavola questa ipotesi: servono scorte per un viaggio avventuroso, e servono compagni. Il rischio non deve far paura, è il trampolino verao la meta a cui ci accompagnamo.