Di recente il ministro Fontana ha dichiarato: “Nel dubbio, un figlio è meglio farlo”: perché la maternità, anche in condizioni difficili, va aiutata. Ecco una bella storia di accoglienza che viene dal Canada
Nonostante i titoli circolati nelle ultime ore, il ministro Fontana ha parlato in favore della natalità e non contro l’aborto. Non è una sottigliezza linguistica. Nella lunga intervista al quotidiano La Verità il ministro ha parlato di mamme che lavorano, famiglie numerose, adozioni, disabili e di tutte le ipotesi che si possono costruire per far sì che queste presenze permeanti della società siano sul serio un valore per lo Stato.
Avendo la deroga anche sulle droghe, ha fatto dichiarazioni chiare in merito alla lotta contro gli stupefacenti, questo sì.
Nessun attacco, dunque, a quella presunta «conquista» femminile chiamata aborto. Andando a spulciare tra le parole più interessanti di questa intervista, e che non hanno guadagnato la luce dei riflettori, c’è un passaggio in cui molte mamme si riconosceranno:
I dati confermano che se una donna diventa mamma mantenendo il proprio lavoro, non solo tende ad avere una seconda maternità ma contribuisce attivamente ad aumentare la produttività dell’azienda. (da La Verità)
Eppure lo stereotipo prevalente continua ad essere da una parte l’aut aut cinico «ora che sei madre, ti licenzio», dall’altro l’altrettanto falsa pressione moralistica «per essere una brava mamma, devi stare a casa». Nella realtà esistono esempi di virtuosi e faticosi tentativi che sono un’alternativa a entrambi gli estremi appena citati.
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Fa davvero la differenza proporre una politica di sostegno alla famiglia che parli in favore di qualcosa e non contro. Forse sarà anche un accattivante stile linguistico, ma il contenuto umano di cui si parla esiste. Esistono famiglie numerose, felicissime di esserlo e altrettanto affaticate a sbarcare il lunario.
Esistono famiglie che percorrono la strada dell’adozione nazionale, internazionale, di disabili e ne sono entusiaste, pure se vessate da una burocrazia che spinge per far alzare bandiera bianca.
Esistono famiglie che assistono disabili, senza che passi mai loro per la testa il pensiero di essere quelli che si fanno carico di «pesi inutili».
Dichiarare ad alta voce che queste presenze sono pilastri del welfare è prendere atto della scommessa positiva e impegnativa con cui si alzano ogni mattina tanti padri e madri italiani.
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E nell’elenco delle persone che esistono in carne e ossa, non vanno taciute quelle donne che ricorrono all’aborto perché costrette dall’indigenza e da altri motivi economici. Sono molte e non vorrebbero affatto rinunciare ai loro figli. Uscendo dalla bolla mediatica che ci racconta un mondo femminile meno vero della realtà, la donna non è mai quella creatura che sopprime la vita che porta in grembo con facilità; non è neppure quella che lo fa a cuore pesante, ma mente leggera (del tipo «mi dispiace, eppure non è il momento e so che questo è il mio corpo e dunque una mia scelta).
La realtà è più reale. Gli slogan non attecchiscono nella carne; funzionano bene su Twitter ma non nel qui e ora di una donna che vede le due barrette rosse sul test di gravidanza.
Lo sanno bene donne come Paola Bonzi o come le volontarie del Progetto Gemma che dedicano il proprio impegno a sostenere le mamme che percorrerebbero la via dell’aborto solo per necessità stringente. Queste, e altre, realtà di aiuto alla maternità sono nate dall’intraprendenza di privati che nel tempo hanno dato vita a opere a cui molti enti statali si appoggiano.
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Nelle ultime dichiarazioni il ministro Fontana non ha fatto altro che sottolineare che anche lo Stato deve essere compagno e aiuto a chi affronta una situazione di maternità difficile:
In molti casi è per una preoccupazione economica che alcune donne decidono di non avere figli. Mi piacerebbe che lo Stato fosse più vicino a queste donne per far capire loro che, nel dubbio, un figlio è meglio farlo. (da La Verità)
Ridurre questa dichiarazione a un manifesto di lotta al diritto d’aborto è scegliere volontariamente di sviare il discorso. Per insistere invece sul valore positivo di uno sguardo che metta al centro della politica il sostegno alla persona o famiglia in difficoltà, viene in soccorso dal Canada una storia di solidarietà.
Alla mia età, si cerca il modo di usare ciò che si è messo da parte nella vita. Io sono stato fortunato, e posso tradurre questo in una grande opportunità. (da Cbs)
Con queste parole l’architetto Gene Dub ha donato uno stabile di 3 piani, e del valore di 3 milioni di dollari, all’associazione Pregnancy Pathways affinché possa diventare una casa per accogliere donne senza tetto in gravidanza. Tutto ciò accade nella città di Edmonton, dove i casi di madri senzatetto arrivano ad essere 100 all’anno.
Lo scopo di questa struttura sarà di assistere le madri fino a 9 mesi dopo il parto, offrendo loro il supporto medico, psicologico e umano per il benessere di se stesse e dei loro figli: saranno aiutate a pensare al futuro, a trovare un lavoro, a perseguire la strada dell’adozione, a compiere le scelte migliori per ciascuna. Alcune di loro, essendo tossicodipendenti, avranno bisogno di affrontare anche un percorso di disintossicazione.
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Non tutti, anzi molto pochi tra noi, hanno la disponibilità finanziaria del signor Dub, eppure il suo gesto è significativo dal punto di vista simbolico non meno che dal punto di vista della generosità economica. Una delle frasi più belle sul Natale scritte da Chesterton racconta della nascita di Gesù descrivendo Maria come una madre senzatetto al termine della gravidanza che gira senza sosta per trovare un luogo dove dare alla luce il suo bambino. Dio è venuto al mondo senza una casa ma, proprio dalla grotta di Betlemme, ha cominciato a mostrare il valore dell’ospitalità. Angeli e pastori gli fecero compagnia.
Possiamo conquistare vette di pensiero altissimo, possiamo allenarci in ragionamenti raffinatissimi, eppure – come esseri umani – torneremo sempre a sbattere contro questa evidenza: l’accoglienza rispetta il nostro DNA più del rifiuto.
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Ci sono migliaia di piccoli gesti di intraprendenza umana per «costruire una casa» attorno a un neonato, cioè per accogliere la preoccupazione di una madre in difficoltà senza proporle una via d’uscita che il suo cuore istintivamente rifiuta. Accogliere significa tantissime cose: ascoltare, innanzitutto; essere accanto, poi.
Si sa che il nemico di ogni scelta davvero libera è la solitudine. Eppure tutti i cosiddetti «rimedi» a una gravidanza inattesa, ed etichettata come indesiderata, (aborto, pillola del giorno dopo) accompagnano la donna a isolarsi dagli altri per rivendicare la proprietà esclusiva del suo corpo. Tendo a diffidare di chi mi propone soluzioni in cui la mia persona sia, anche con tutte le premure del caso, lasciata sola; tendenzialmente è un sentiero che porta a una gabbia.
Un condominio di donne ferite che condividono l’esperienza di diventare madri è un’immagine politica di speranza. Vorrei «abitare» con chi porta i miei stessi pesi, sentirmi sotto lo stesso tetto di chi ha fatto le mie stesse scelte familiari. Io vorrei essere un villaggio di campagna con le finestre aperte, e non un monolocale in centro con le inferriate e l’allarme.